Ludwig Wittgenstein
Libro marrone
Traduzione di Luca Bernardi
Questa traduzione è stata condotta su una versione normalizzata del dattiloscritto originale inglese n. 310 (Ts-310, detto Brown Book) del Nachlass di Wittgenstein generata grazie allo strumento di presentazione dinamica interattiva (Interactive Dynamic Presentation)[N] messo a disposizione dai Wittgenstein Archives at the University of Bergen (WAB). Il testo originale è nel pubblico dominio nel suo paese di origine e in tutti i paesi dove i diritti di proprietà intellettuale scadono 70 anni o meno dopo la morte dell’autore. Questa traduzione, realizzata grazie al sostegno finanziario di Wikimedia Italia, è pubblicata secondo i termini della licenza Creative Commons Attribuzione.
Ludwig Wittgenstein
Libro marrone
Parte I
Nel raccontare il proprio apprendimento del linguaggio, Agostino dice che per insegnargli a parlare gli sono stati fatti imparare i nomi delle cose. È chiaro che chiunque si esprima così ha in mente il modo in cui un bambino apprende parole quali “uomo”, “zucchero”, “tavolo”, ecc. Non pensa invece, almeno inizialmente, a “oggi”, “non”, “ma”, “magari”.
Immaginiamo che un uomo descriva una partita a scacchi senza accennare all’esistenza delle operazioni dei pedoni. Tale descrizione del gioco in quanto fenomeno naturale risulterà incompleta. D’altro canto si potrebbe dire che costui ha descritto in maniera completa un gioco diverso. In questo senso si può asserire che la descrizione di Agostino dell’apprendimento del linguaggio era corretta per un linguaggio più semplice del nostro. Immaginiamo questo linguaggio: –
1). La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento deittico delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel nostro linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il nostro “mattone!” intendiamo “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone!”, a meno di non voler asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”, perché non potrebbe voler dire solo “mattone!”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole, oppure non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!” Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo intende tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrasto con le altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’unico aspetto da rimarcare è che tali differenze debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto la conclusione con la prima domanda. Nel porre l’interrogativo iniziale, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. I significati dei segni li concepiamo talvolta quali stati mentali dell’uomo che li impiega, in altri casi invece come il ruolo che suddetti segni ricoprono in un sistema linguistico. Secondo William James all’uso di parole come “e”, “se” e “o” si accompagnano emozioni specifiche. Non ci sono dubbi che spesso alcuni gesti si leghino a tali parole. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che suddette sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera e esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa “ma” in maniera analoga a come in italiano si impiega “non, pronunciando la parola “ma”, sperimenterà più o meno le stesse sensazioni provate dagli italiani nel dire “non”. E nei due linguaggi alla parola “ma” in genere corrisponderanno diversi poli di esperienze.
2). Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine “cinque lastre!” si reca nel luogo in cui sono poste le lastre, pronuncia le parole da uno a cinque, prende una lastra per ogni parola e le porta al costruttore. Qui entrambi utilizzano il linguaggio pronunciando le parole. Imparare a memoria i numerali sarà un aspetto essenziale dell’apprendimento di suddetto linguaggio. Anche l’uso dei numerali verrà insegnato dimostrativamente. Nell’insegnamento però della parola, per esempio, “tre”, si indicheranno o delle lastre, o dei mattoni, o delle colonne, ecc. D’altro canto l’insegnamento di numerali diversi comporterà l’atto di indicare gruppi di pietre della stessa forma.
(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. Quindi con l’introduzione dei numerali abbiamo inserito un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo emerge qui con maggior evidenza, rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili, se prendiamo in considerazione questo semplice esempio.
Cosa hanno in comune le spiegazioni dimostrative dei numerali con quelle dei termini “lastra”, “colonna”, ecc., oltre al gesto e al fatto di pronunciare le parole? Nei due casi il modo di utilizzo di tale gesto è diverso. Se diciamo “in un caso si indica la forma, nell’altro si indica il numero”, tale differenza si offusca. Solo quando esaminiamo un esempio completo (come l’esempio all’interno di un linguaggio interamente descritto fin nei dettagli), la differenza diventa ovvia e palese.)
3). Introduciamo ora un nuovo strumento di comunicazione: un nome proprio. Quest’ultimo viene dato a un oggetto specifico (una pietra specifica) indicandolo e pronunciando il nome. Se A pronuncia il nome, B gli porta l’oggetto. L’insegnamento deittico di un nome proprio è diverso dall’insegnamento deittico dei casi 1) e 2).
(Osservazione: la differenza non risiede tuttavia nell’atto di indicare e pronunciare la parole né in qualsivoglia atto (significato) ? che lo accompagni, bensì nel ruolo che la dimostrazione (l’indicare e il pronunciare) riveste nell’intero addestramento e nell’uso che se ne fa nella pratica comunicativa tramite questo linguaggio. Si potrebbe pensare di poter descrivere la differenza dicendo che negli altri casi si indicano tipi diversi di oggetti. Immagina però che io indichi con la mano una divisa blu. In che modo indicarne il colore sarebbe diverso dall’indicarne la forma? – Siamo portati a dire che la differenza è che nei due casi si intendono cose diverse. Questo “intendere” deve essere una sorta di processo in atto mentre indichiamo. A farci propendere per una simile prospettiva è soprattutto che, se chiediamo a un soggetto se nell’indicare intende il colore o la forma, costui è quasi sempre in grado di risponderci e di sapere con certezza che la sua risposta è giusta. Se però cerchiamo due atti mentali distinti, uno che intenda il colore e l’altro che intenda la forma, non ne troviamo alcuno, o perlomeno non ne troviamo alcuno che debba accompagnare l’indicare sempre rispettivamente il colore oppure la forma. Disponiamo solo di un’idea grossolana di cosa significhi concentrare l’attenzione sul colore piuttosto che sulla forma e viceversa. Si potrebbe dire che la differenza non risiede nell’atto della dimostrazione, bensì in ciò che circonda tale atto nell’uso linguistico.)
4). Nel ricevere l’ordine “questa lastra”, B porta la lastra indicata da A. Nel ricevere l’ordine “piastra, là!”, gli porta la piastra nel luogo indicato. La parola “là” viene insegnata dimostrativamente? Sì e no! Durante l’addestramento di una persona all’uso della parola “là”, il maestro gli farà il gesto dell’indicare e pronuncerà la parola “là”. Dobbiamo dire però che così facendo attribuisce a un luogo il nome “là?” Ricorda che in questo caso il gesto d’indicare rientra della pratica stessa della comunicazione.
(Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là”, “qui”, “adesso”, “questo” siano “i veri nomi propri”, in opposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista ora esposto possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come un abbozzo di quel che idealmente dovrebbe essere un nome proprio. Pensiamo agli ’“individuali” di Russell. Lui ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individuali. Secondo lui, dovrebbe essere poi l’analisi a mostrarci quali lo sono. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti”, “cose” (“pietre”).
- “Cosa significa la parola ‘esattezza’? Se devi presentarti per un tè alle 4.30 e arrivi proprio quando un buon orologio batte le 4.30, si tratta di vera esattezza? Oppure è esattezza solo se è nell’istante in cui l’orologio comincia a battere che tu inizi ad aprire la porta? Ma come si definisce tale istante e come si definisce “iniziare ad aprire la porta?” Sarebbe corretto asserire “è difficile dire in modo certo che cosa è vera esattezza, perché disponiamo solo di rozze approssimazioni?”)
5). Domanda e risposta: A chiede “quante piastre?”, B conta e risponde con il numerale.
Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiameremmo giochi. Con tali giochi i bambini apprendono il linguaggio natio e qui conservano la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici descritti come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, ossia sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tale assunto, spesso conviene immaginarsi uno di questi linguaggi semplici come l’intero sistema di comunicazione di una tribù contraddistinta da una struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica elementare di alcune tribù. Quando un bambino o un adulto impara quelli che si potrebbero chiamare linguaggi tecnici speciali, per esempio l’uso di grafici e diagrammi, la geometria descrittiva, il simbolismo chimico, ecc., apprende nuovi giochi linguistici. (Osservazione: la nostra immagine del linguaggio dell’adulto è quella di una massa nebulosa, cioè la sua madre lingua, circondata da giochi linguistici compatti e più o meno nitidi, ovvero i linguaggi tecnici).
6). Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda “che cos’è questo?”; A risponde “Questo è un …” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “questo è un…”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) un nome generico è stato spiegato, nella realtà concreta, quale nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale numerico, di una direzione.
(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. a) Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, ecc. siano molto più simili di quello che sono. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi generici quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, ecc. La seconda fonte b) è che una volta capito come siano fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” ecc. rispetto ai nomi propri, e quanto questi due tipi di funzioni siano diverse da, per esempio, quelle dei nomi dei colori, non vediamo motivo per non parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia rispettivamente tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato e dall’altro “est” e “Jack”.
7). B ha una tabella in cui dei segni scritti sono posti davanti a immagini di oggetti (per esempio un tavolo, una sedia, una tazza da tè, ecc.). A scrive uno dei segni, B osserva la tabella, poi sposta lo sguardo o il dito dal segno scritto all’immagine di fronte e afferra l’oggetto raffigurato nell’immagine.
Consideriamo ora i diversi tipi di segno che abbiamo introdotto. Prima distinguiamo frasi e parole. In un gioco linguistico chiamerò frase ogni segno completo, i cui costituenti sono parole. (Questa è solo un’osservazione sommaria e generica su come impiegherò le parole “proposizione” e “parole”.) Una proposizione può consistere di una sola parola. In 1) i segni “mattone!”, “colonna!” sono frasi. In 2) una frase è composta da due parole. A seconda dal ruolo giocato dalle proposizioni in un gioco linguistico, distinguiamo ordini, domande, spiegazioni, descrizioni, ecc.
8). Se in un gioco linguistico simile a 1), quando A pronuncia l’ordine “lastra, colonna, mattone”, B gli porta una lastra, una colonna e un mattone, possiamo parlare di tre proposizioni oppure di una sola. Se invece
9). l’ordine delle parole mostra a B l’ordine in cui portare le pietre, diremo che A pronuncia una proposizione consistente di tre parole. Se l’ordine in questo caso prendesse la forma “Lastra, poi colonna, poi mattone!” dovremmo dire che consisteva di quattro parole (non cinque). Tra le parole vediamo gruppi di parole con funzioni simili. Notiamo facilmente una somiglianza nell’uso delle parole “uno”, “due”, “tre”, ecc. e poi di nuovo nell’uso di “lastra”, “colonna” e “mattone”, ecc., e così distinguiamo le parti del discorso. In 8) tutte le parole della proposizione appartenevano alla stessa parte del discorso.
10). L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!” Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.
Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni ed è un paragone curioso quello tra i nostri esempi e le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due”, “tre”, ecc., come mostriamo qui sotto:
11). Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire “una lastra!”, “un cubo!” ecc., A si limita a gridare “lastra!”, “cubo!”, ecc., l’uso degli altri numerali essendo descritto in 2). Immagina che a un uomo abituato a questa forma (11)) di comunicazione sia stato spiegato l’uso della parola “uno” come descritto in 2). Possiamo facilmente ipotizzare che si rifiuterebbe di classificare “uno” insieme ai numerali “2”, “3”, ecc.
(Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro l’inserimento di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”).
Pensa all’espressione “due o molti”.
Ci viene naturale considerare gesti come quelli impiegati in 4) o immagini come quelle di 7) alla stregua di elementi o strumenti del linguaggio. (Si parla talvolta di linguaggio gestuale.) Le immagini di 7), e altri strumenti linguistici dalla funzione simile, li chiamo schemi. (Questa spiegazione, come altre già fornite qui, è vaga e volutamente tale.) Quando ci serviamo di uno schema, lo usiamo per paragonarci qualcosa, per esempio una sedia con l’immagine di una sedia. Non abbiamo paragonato una piastra con la parola “piastra”. Nell’introdurre la distinzione “parola, schema”, non miravamo a istituire una dualità logica definitiva. Abbiamo solo individuato due tipi determinati di strumenti nella varietà di strumenti del nostro linguaggio. Chiamiamo “uno”, “due”, “tre”, ecc. parole. Se invece di questi segni utilizzassimo “-”, “--”, “---”, “----” li chiameremmo schemi. Immagina un linguaggio in cui i numerali sono “uno”, “uno uno”, “uno uno uno”, ecc., in tal caso bisognerebbe chiamare “uno” una parola o uno schema? Lo stesso elemento potrebbe impiegarsi in un contesto come parola e come schema in un altro. Un cerchio può essere il nome di un tipo di ellisse, oppure uno schema a cui paragonare l’ellisse in uno specifico metodo di proiezione. Considera anche questi due sistemi di espressione:
12). A dà a B un ordine costituito da due simboli scritti, il primo una macchia irregolare di un certo colore, diciamo verde, il secondo il disegno del contorno di una figura geometrica, per esempio un cerchio. B gli porta un oggetto che assomiglia al secondo nella forma e nel colore al primo, ossia un oggetto verde circolare.
13). A dà a B un ordine costituito da un simbolo, una figura geometrica dipinta di un colore particolare, diciamo un cerchio verde. B gli porta un oggetto verde circolare. In 12) alcuni schemi corrispondono ai nomi dei colori e altri schemi ai nomi della forma. I simboli in 13) non li si può considerare come combinazioni dei suddetti due elementi. Una parola tra apici può essere chiamata schema. Quindi nella frase “lui ha detto ‘va’ al diavolo’”, ‘va’ al diavolo’ è uno schema di ciò che ha detto. Confronta questi casi:
a) Qualcuno dice “Ho fischiettato (fischiettando un motivo)”; b) qualcuno scrive “Ho fischiato”. Una parola onomatopeica come “frusciare” può essere considerata uno schema. Chiamiamo un’ingente quantità di processi “confrontare un oggetto con uno schema”. Sotto il nome di “schema” raggruppiamo una gran varietà di processi. In 7) B confronta un’immagine sulla tabella con gli oggetti che ha davanti. Ma in cosa consiste confrontare un’immagine con un oggetto? Supponi che il tavolo mostri: a) l’immagine di un martello, di un paio di pinze, di una sega, di uno scalpello; b) le immagini di venti tipi diversi di farfalle. Immagina in che cosa consisterebbe in questi casi il confronto e nota la differenza. Paragona a questi casi un terzo caso c) in cui le immagini sul tavolo raffigurano pietre di costruzione disegnate in scala e il confronto va fatto con righello e compasso. Supponi che il compito di B consista nel portare un tessuto dello stesso colore del campione. Come si confrontano i colori del campione e del tessuto? Immagina una serie di casi diversi:
14). A mostra il campione a B, che poi va a prendere il materiale “a memoria”.
15). A dà il campione a B, che sposta lo sguardo dal campione allo scaffale con i materiali tra cui deve scegliere.
16). B posa il campione su ogni striscia di materiale e sceglie quello che non riesce a distinguere dal campione, per il quale la differenza tra campione e materiale sembra svanire.
17). Immagina invece che l’ordine sia stato “portami un materiale leggermente più scuro di questo campione”. In 14) ho detto, servendomi di un’espressione comune, che B prende il materiale “a memoria”. Ma ciò che potrebbe accadere in un simile confronto “a memoria” è un insieme vastissimo di possibilità. Concepiscine alcune:
14a). Quando va a prendere il materiale, nell’occhio della mente B ha un’immagine mnemonica. Lancia occhiate ai materiali e ricorda l’immagine. Svolge il compito con, diciamo, cinque strisce, dicendosi talvolta “troppo scuro” e in altri casi “troppo chiaro”. Alla quinta striscia si ferma, dice “eccola” e la prende dallo scaffale.
14b). Nell’occhio di B non c’è alcun’immagine mnemonica. Guardando quattro strisce sente ogni volta una specie di tensione mentale e scuote la testa. Quando raggiunge la quinta striscia, la tensione si allenta, lui annuisce e allunga la mano.
14c). B va allo scaffale senza un’immagine mnemonica, guarda cinque strisce una dopo l’altra, poi prende la quinta dallo scaffale.
“Il confronto però non può ridursi solo a questo”.
Quando consideriamo i tre casi citati quali casi di confronto a memoria, in un certo senso percepiamo le loro descrizioni come insoddisfacenti o incomplete. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ha ci fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, dovrebbe essere ciò che si potrebbe considerare l’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Curiosamente, se si considerano con attenzione i casi del confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti più o meno caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia che ci riferiamo al confronto con un campione. Conosciamo un gran numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi causate dal fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e altre esperienze. Più casi simili esaminiamo, e con maggior attenzione li studiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza caratteristica del confrontare. Infatti, se dopo aver investigato a fondo una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu avresti l’impressione che suddetta esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché è stata posta accanto a una vasto insieme di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo postulato dalla totalità delle esperienze rivelate dalla nostra analisi: non abbiamo mai voluto che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze più o meno caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno da vicino e per quello che è, l’altro da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera specifica.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro vero impiego della parola “confrontare” è diverso da quello che osservando la questione da lontano eravamo portati a credere. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è uno stuolo di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre.
“Certamente però nel caso 14c) B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Se ha preso quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non neghiamo che nel caso 14c) B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui scegliere né quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari o tattili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Per esempio: che cosa immagino che sia?) Mi pare di dover dire che il contrario del confronto automatico, ovverossia il caso ideale del confronto conscio, consiste nell’avere nell’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida oppure nel vedere un vero campione e nello sperimentare la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Mi sembra che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. La sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze, quella di vedere il campione e quella di vedere il materiale. Ma allora che cos’è a legare quest’esperienza particolare a un’altra? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non vogliamo sostenere che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari, per esempio se ci chiedono “questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi siamo giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a spiegare che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può in un caso particolare fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però si potrebbe distinguere tra modo di apparire automatico o non-automatico di un’immagine mnemonica, ecc.
Se il nostro caso 14c) ti infastidisce, magari sarai portato a dire: “ma perché ha portato solo questa striscia di materiale? Com’è che ha riconosciuto quella giusta? In base a che cosa…” Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta in determinate condizioni. Se invece ti preme la ragione, la risposta è “Non ci deve essere una ragione. Una ragione è il passo che precede il passo della scelta. Ma perché mai ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”
“Ma allora B non ha davvero riconosciuto il materiale come quello giusto”. - Non devi per forza annoverare 14c) nei casi di riconoscimento, tuttavia se ti accorgessi di come i processi che chiamiamo processi di riconoscimento formano una grande famiglia dalle somiglianze accavallate, probabilmente non saresti restio a includere in suddetta famiglia anche 14c). – “In questo caso non manca però a B il criterio in base a cui riconoscere il materiale? In 14a), per esempio, aveva l’immagine mnemonica e ha riconosciuto il materiale che stava guardando proprio in base alla sua concordanza con tale immagine”. – Ma davanti a sé aveva un’immagine anche di tale concordanza, un’immagine con cui confrontare la congruenza tra lo schema e la striscia per vedere se era quella giusta? E d’altra parte non gli poteva essere stata data anche tale immagine? Supponi, per esempio, che A volesse che B ricordasse che la striscia richiesta era esattamente identica al campione e non, come forse in altre circostanze, di un materiale leggermente più scuro dello schema. In tal caso A non potrebbe aver fornito a B, a titolo di esempio della concordanza necessaria, due pezzi dello stesso colore (una specie di promemoria)? Un legame come questo tra ordine ed esecuzione è necessariamente l’ultimo? – E se dici che in 14b) almeno B aveva l’allentarsi della tensione in base al quale riconoscere il materiale giusto, doveva B avere con sé un’immagine del suo distendersi per poterlo riconoscere come ciò in base al quale bisognava riconoscere il materiale?
“Ipotizziamo però che B porti la striscia, come in 14c), e nel confronto con lo schema poi si scopra che ha preso quella sbagliata…” Ma una simile occorrenza non potrebbe verificarsi anche in tutti gli altri casi? Immagina che in 14a) la striscia portata da B si sia rivelata diversa dallo schema. Non diremmo in alcuni di questi casi che l’immagine mnemonica è cambiata, in altri che è cambiato lo schema o il materiale, in altri ancora che è cambiata la luce? Non è arduo inventare casi, ipotizzare circostanze, in cui esprimere ognuno di questi giudizi. - “Ma alla fin fine non c’è una qualche differenza sostanziale tra i casi in 14a) e in 14c)?” – Certamente! Si tratta proprio di quella indicata nella descrizione di questi due casi.
In 1) B ha imparato a sentir pronunciare parola “colonna!” e reagire portando una particolare pietra da costruzione. Potremmo immaginare quel che è successo in un caso del genere: nella mente di B la parola ha richiamato l’immagine di una colonna, per esempio; l’addestramento ha, così dovremmo esprimerci, istituito tale associazione. B prende la pietra che concorda con tale immagine mentale. – Ma deve necessariamente essere andata proprio così? Se l’addestramento è stato in grado di produrre la comparsa automatica dell’idea o dell’immagine nella mente di B, perché non dovrebbe produrre l’agire di B senza la mediazione di un’immagine?
Ciò comporterebbe solo una lieve variazione del meccanismo associativo. Ricorda che l’immagine innescata dalla parola non giunge tramite un processo raziocinante (anche se fosse così, un tale impedimento spingerebbe solo il nostro discorso più indietro), ma che il processo in questione assomiglia molto a quello in cui si schiaccia il pulsante di un meccanismo e compare una targhetta con il nome. A quello associativo, in realtà, si può sostituire un meccanismo simile.
Le immagini mentali di colori, di forme, di suoni, ecc. ecc., che attraverso il linguaggio rivestono un ruolo nella comunicazione, le mettiamo nella stessa categoria delle superfici colorate effettivamente viste, dei suoni sentiti.
18). L’addestramento nell’uso delle tabelle (come in 7) non può consistere nell’insegnamento dell’uso di una tabella particolare, bensì deve consentire all’allievo di utilizzare o costruirsi tabelle con coordinazioni nuove di segni scritti e immagini. Ipotizziamo che la prima tabella che una persona sia stata addestrata a utilizzare contenesse le quattro parole “martello”, “pinze”, “sega”, “scalpello” e le immagini corrispondenti. Ora potremmo aggiungere l’immagine di un altro oggetto che l’allievo ha davanti a sé, diciamo di una pialla, e connetterlo alla parola “pialla”. Renderemo la correlazione tra la nuova immagine e la parola il più simile possibile alle correlazioni nella tabella precedente. Potremmo inserire la nuova parola e l’immagine sullo stesso foglio, mettere la parola nuova sotto le parole precedenti e la nuova immagine sotto le immagini precedenti. L’allievo sarà incoraggiato a utilizzare la nuova immagine e la parola senza l’addestramento speciale che gli abbiamo fornito insegnandogli a servirsi della prima tabella.
Tali atti di incoraggiamento saranno di vario genere e molti saranno resi possibili solo dalla risposta, anzi da una risposta particolare, dell’allievo. Pensa ai gesti, ai suoni ecc. di cui ti servi a mo’ di incoraggiamento per addestrare un cane al riporto. Immagina invece di tentare di addestrare al riporto un gatto. Poiché il gatto non risponderà ai tuoi incoraggiamenti, moltissimi degli atti che hai compiuto nell’addestramento del cane in questo caso non li prenderai nemmeno in considerazione.
19). L’allievo potrebbe anche essere addestrato a dare alle cose nomi di propria invenzione e poi, sentendone pronunciare i nomi, a riportare suddetti oggetti. Gli si presenta, per esempio, una tabella con raffigurate da un lato le immagini degli oggetti che ha attorno a sé e degli spazi bianchi dall’altro. Per giocare deve scrivere segni di propria invenzione davanti alle immagini e, quando tali segni vengono pronunciati in quanto ordini, reagire come spiegato sopra. Oppure
20). il gioco può consistere in B che costruisce una tabella e obbedisce a ordini dati nei termini di suddetta tabella. Durante l’insegnamento dell’uso di una tabella, che per esempio è composta di due colonne verticali, quella a sinistra che contiene i nomi e quella a destra le immagini, un nome e un’immagine essendo correlati se situati nella stessa riga orizzontale, un elemento fondamentale dell’addestramento potrebbe consistere nel far scivolare all’allievo il dito da sinistra a destra, come per imparare a tracciare una serie di linee orizzontali una sotto l’altra. Una simile pratica faciliterebbe la transizione dalla prima tabella alla successiva.
Adeguandomi all’uso ordinario, tabelle, definizioni ostensive e strumenti simili io li chiamerò regole. L’uso di una regola può venire spiegato da una regola successiva.
21). Considera l’esempio seguente: introduciamo modi diversi di leggere tabelle. Ogni tabella consiste di due colonne di parole e immagini, come sopra. In certi casi vanno lette orizzontalmente da sinistra a destra, per esempio secondo lo schema:
In altri casi secondo schemi quali:
Oppure:
ecc.
Poiché si tratta di regole per leggerle, simili schemi possiamo accorparli alle nostre tabelle. Queste regole però non potrebbero venire spiegate da altre regole? Certamente. D’altro canto, se non si è fornita la sua regola d’uso, una regola resta per forza non completamente spiegata?
Introduciamo nei nostri giochi linguistici la serie infinita dei numerali. Come facciamo? Ovviamente l’analogia tra tale processo e l’introduzione di una serie di venti numerali non è identica a quella intercorrente tra l’introduzione di una serie di venti numerali e l’introduzione di una serie di dieci numerali. Immaginiamo un gioco come 2) ma svolto con una serie infinita di numerali. La differenza tra un simile gioco e 2) non consisterebbe solo in un aumento del numero dei numerali. Immaginiamo cioè di esserci serviti per tale gioco di, per esempio, 155 numerali, in tal caso non avremmo potuto descrivere il gioco in questione dicendo che si trattava del gioco 2) soltanto con 155 numerali invece di 10. In che cosa consiste però la differenza? (La differenza sembrerebbe quasi riguardare lo spirito in cui vengono giocati i giochi). La differenza tra dei giochi può anche risiedere nel numero delle pedine impiegate, nel numero dei riquadri sulla superficie di gioco, oppure nel fatto che usiamo quadrati in un caso e in un altro esagoni, ecc. Invece la differenza tra gioco finito e gioco infinito non pare consistere negli strumenti materiali del gioco; poiché saremmo portati a dire che l’infinito non può esprimersi tramite essi, cioè che siamo in grado di concepirlo solo nei pensieri ed è dunque in tali pensieri che vanno distinti gioco finito e infinito. (È curioso però che simili pensieri siano esprimibili in segni.) Consideriamo due giochi. Entrambi utilizzano carte numerate e il numero più alto vince.
22). Uno dei due giochi si svolge con un numero fisso di carte, diciamo 32. Nell’altro gioco in alcune situazioni si può aumentare a piacere il numero delle carte, basta tagliare dei fogli e scriverci sopra un numero. Chiameremo il primo gioco limitato, illimitato il secondo. Immagina che in una mano del secondo gioco il numero di carte impiegate sia 32. In questo caso qual è la differenza tra giocare una mano a) del gioco limitato e giocare una mano b) del gioco illimitato?
La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo, per esempio il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli intonsi e matite.
Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?” Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ad inf”.. Quindi, anche se abbiamo riconosciuto che i due giochi si svolgono con le stesse carte, la differenza tra mani a) e b) risiede negli strumenti impiegati. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente le mani in corso, ti accorgi di riuscire a trovare delle differenze solo in una serie di dettagli, ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono le carte e le si gioca nei due casi possono essere identici. Durante lo svolgimento della mano a), i giocatori possono considerare di creare nuove carte e poi rinunciarci. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo composto dal dire a se stessi, o anche ad alta voce, “chissà se mi conviene farmi un’altra carta”. Magari però un simile pensiero non è passato per la mente di nessuno dei giocatori. È possibile che l’intero divario tra una mano del gioco limitato e una mano del gioco illimitato si riduca in ciò che si è detto prima di iniziare a giocare, per esempio “facciamo una partita al gioco limitato”.
“Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci.
Confrontiamo ora dei giochi linguistici di cui diremmo che si svolgono con una quantità limitata di numerali con altri di cui invece diremmo che si svolgono con una serie infinita di numerali.
23). Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1”, “2”, etc…. “9”, ognuno dei quali è scritto su una carta. A dispone di una pila di queste carte e per dare l’ordine a B gliene mostra una e pronuncia una parola quale “lastra”, “colonna”, ecc.
24). Come 23), solo che non c’è la pila di carte numerate. La serie dei numerali 1… 9 va imparata a memoria. Negli ordini vengono pronunciati i numerali e il bambino li impara sentendoli scandire a voce.
25). Si usa un pallottoliere. A sistema il pallottoliere e lo passa a B, che se lo porta dove sono disposte le lastre, ecc.
26). B deve contare le piastre in una pila. Lo fa con un pallottoliere di 20 palline. Nella pila non ci sono mai più di 20 piastre. B sistema il pallottoliere in modo da fargli mostrare il numero corrispondente a quello della lastra nella pila e fa vedere il pallottoliere ad A.
27). Come 26). Il pallottoliere ha 20 palline e una sfera più grossa. Se la pila contiene più di 20 lastre, si sposta la sfera più grossa. (Quindi in qualche modo quest’ultima corrisponde a “molti”).
28). Come 26). Se la pila contiene n piastre, n essendo più di 20 ma meno di 40, B muove n-20 palline, mostra il pallottoliere ad A e applaude una sola volta.
29). A e B utilizzano i numerali del sistema decimale (scritto o parlato) fino a 20. Il bambino che apprende questo linguaggio impara tali numerali a memoria, come in 2).
30). Una certa tribù ha un linguaggio del tipo 2). I numerali adoperati sono quelli del nostro sistema decimale. Nessun numerale impiegato sembra rivestito del ruolo predominante degli ultimi numerali in alcuni dei giochi di cui sopra (27), 28)). (Si è tentati di proseguire la frase precedente dicendo “anche se naturalmente esiste un numerale utilizzato maggiore”). I bambini della tribù imparano i numerali nel modo seguente: come in 2) gli si insegnano i segni da 1 a 20 e, con l’ordine di “contale”, a contare file di non più di 20 palline. Quando contando l’allievo arriva al numerale 20, gli si fa un gesto a significare “prosegui”, dopo il quale il bambino dice (quasi sempre, perlomeno) “21”. Analogamente, i bambini vengono fatti contare fino a 22 e oltre, senza che in questi esercizi ci sia una cifra specifica a esercitare il ruolo conclusivo predominante. Per l’ultimo stadio dell’addestramento si ordina all’allievo di contare un gruppo di oggetti, ben superiore a 20, senza alcun gesto a suggerirgli di oltrepassare la cifra 20. Se un bambino non reagisce a tale gesto di incoraggiamento, lo si separa dagli altri e lo si tratta come un folle.
31). Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Nella vita di questa tribù il numerale 159 riveste un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto “trattano questo numero come se fosse il più alto”… ma che cosa significa? Possiamo rispondere “dicono che è il più alto”? – Pronunciano certe parole, ma come facciamo a sapere che cosa intendono utilizzandole? Un criterio per definire ciò che intendono sarebbero le occasioni in cui costoro impiegano la parola che noi saremmo propensi a tradurre con “il più alto”, ovvero il ruolo, diremmo, che ci è parso di veder svolgere a tale parola nella vita della tribù. In effetti si può agevolmente immaginare che in tali circostanze venga impiegato il numerale 159, insieme a gesti e costumi i quali ci porterebbero a dire che, pur non disponendo la tribù di un’espressione corrispondente al nostro “”il più alto” e pur non consistendo il criterio per cui il numerale 159 è il più alto in nulla di detto su di esso, tale numerale funge da limite insormontabile.
32). Una tribù ha due sistemi per contare. La gente ha imparato a contare con l’alfabeto dalla A alla Z e anche, come in 30), con il sistema decimale. Se un uomo si accinge a contare oggetti con il primo sistema, gli si ordina di contare “nella maniera chiusa”, nel secondo caso invece “nella maniera aperta”; la tribù si serve dei termini “aperta” e “chiusa” anche in riferimento a una porta chiusa e aperta.
(Osservazione: 23 è limitata in modo ovvio dal mazzo di carte. 24): nota l’analogia e la mancanza di analogia tra il rifornimento limitato di carte in 23) e le parole nella nostra memoria in 24). Osserva che in 26) la limitazione da un lato risiede nello strumento (il pallottoliere con venti palline) e nel suo utilizzo all’interno del gioco e dall’altro lato (in maniera completamente diversa) nel fatto che nella pratica concreta del gioco non dovranno mai essere contati più di venti oggetti. In 27) quest’ultimo tipo di limitazione era assente, ma la sfera più grossa fungeva come da sottolineatura della limitatezza dei nostri mezzi. 28) è un gioco limitato o illimitato? La pratica che abbiamo descritto fornisce il limite 40. Siamo propensi a dire che tale gioco “contiene in sé” la possibilità di continuare indefinitamente, ma ricorda che abbiamo anche costruito i giochi precedenti come degli inizi di sistemi. In 29) l’aspetto sistematico dei numerali impiegati è perfino più evidente che in 28). Se non fosse che i numerali fino a 20 vanno appresi a memoria, si potrebbe dire che gli strumenti di suddetto gioco non pongono alcuna limitazione. Ciò suggerisce l’idea che al bambino non si insegni a “capire” il sistema che scorgiamo nella notazione decimale. Dei membri della tribù di 30) si dovrebbe certamente dire che sono addestrati a costruire numerali indefinitamente, che l’aritmetica del loro linguaggio non è finita, che le loro serie di numeri non hanno termine. (È solo nei casi in cui i numeri sono costruiti “indefinitamente” che diciamo che le persone hanno serie infinite di numeri.) 31) potrebbe mostrarci che si può immaginare una gran quantità di casi in cui saremmo portati a dire che, nonostante il fatto che l’addestramento per i numerali a cui si sottopongono i bambini indica l’assenza di un limite superiore, l’aritmetica della tribù si rapporta a serie finite di numeri. In 32) i termini “chiusa” e “aperta” (che con una lieve variazione dell’esempio potrebbero trasformarsi in “limitato” e “illimitato”) sono inseriti nel linguaggio della tribù stessa. Se lo si introduce in un tale gioco semplice e chiaramente circoscritto, non c’è naturalmente nulla di misterioso nell’uso della parola “aperta”. Ma la parola in questione corrisponde al nostro “infinita” e i giochi per cui la adoperiamo differiscono da 31) solo in quanto estremamente più complicati. Cioè il nostro impiego del termine “infinita” è trasparente come l’utilizzo di “aperta” in 32) e la nostra idea che il suo significato sia trascendente si fonda su un’incomprensione.)
Potremmo dire in parole povere che i casi illimitati si caratterizzano così: non sono giocati con un rifornimento definito di numerali, bensì con un sistema per costruire numerali (indefinitamente). Quando diciamo che qualcuno ha ricevuto un sistema per costruire numerali, generalmente pensiamo a una delle tre occorrenze seguenti: a) a dargli un addestramento simile a 30), il che, se l’esperienza ci insegna qualcosa, gli farà superare prove analoghe a quelle menzionate qui; b) a creare una disposizione nella mente del soggetto in questione, o nel suo cervello, a reagire in tale modo; c) a fornirgli una regola generale per la costruzione di numerali.
Cos’è che chiamiamo una regola? Considera l’esempio seguente:
33). B si muove in base alle regole che A gli fornisce. B riceve la seguente tabella:
a | → |
b | ← |
c | ↑ |
d | ↓ |
A dà un ordine composto dalle lettere nella tabella, per esempio “a a c c d d d”. B guarda la freccia corrispondente a ogni lettera presente nell’ordine e si muove come ordinatogli; per esempio così:
La tabella 33) la chiameremo una regola (oppure “l’espressione di una regola”. Perché fornisco queste due espressioni sinonimiche verrà chiarito in seguito). Non saremo invece portati a chiamare la frase stessa “a a c a d d d” una regola. È naturalmente la descrizione del percorso che B deve compiere. Tuttavia in alcune circostanze tale descrizione verrebbe chiamata regola, per esempio nel caso seguente:
34). B deve tracciare vari disegni lineari ornamentali. Ogni disegno è la ripetizione del solo elemento che A gli fornisce. Quindi se A dà l’ordine “c a d a”, B traccia una linea così:
In questo caso credo che si debba dire che “c a d a” è la regola per tracciare il disegno. Approssimando, diremo che a caratterizzare ciò che chiamiamo regola è il fatto di essere applicata ripetutamente, in un numero indefinito di occorrenze. Confronta con 34), per esempio, il caso seguente:
35). Un gioco svolto con pezzi di varie forme su una scacchiera. Come ogni pezzo può muoversi lo stabilisce da una regola. Quindi la regola per un pezzo specifico è “ac”, per un altro “acaa” e avanti così. Il primo pezzo può dunque muoversi così: , il secondo in questo modo:. Sia una formula come “ac” sia un diagramma che le corrisponda qui possono venire considerati una regola.
36). Immagina che dopo aver giocato a 33) varie volte come descritto sopra, si continui con la variazione seguente: B non guarda più la tabella, ma, mentre legge gli ordini di A, le lettere gli richiamano alla mente le immagini delle frecce (per associazione) e B agisce seguendo tali frecce immaginarie.
37). Dopo aver giocato varie volte nel modo spiegato sopra, B si sposta seguendo l’ordine scritto come avrebbe fatto guardando o immaginando le frecce, tuttavia senza l’intervento di alcuna immagine. Considera la variazione seguente:
38). Mentre B viene addestrato a eseguire un ordine diretto, gli si mostra una sola volta la tabella di 33), dopodiché senza più guardare la tabella B obbedisce agli ordini di A nello stesso modo in cui, ogni volta con l’aiuto della tabella, obbediva in 33).
In tutti questi casi, diremmo che la tabella 33) è una regola del gioco. Ma in ciascuno dei casi la regola svolge un ruolo diverso. In 33) la tabella è uno strumento utilizzato in quella che chiameremmo la pratica del gioco. In 36) la rimpiazza invece il lavoro dell’associazione. In 37) perfino l’ombra della tabella è uscita dalla pratica del gioco e in 38) la tabella è dichiaratamente uno strumento utile solo all’addestramento di B.
Immagina però quest’altro caso:
39). Una tribù si serve di un certo sistema di comunicazione. Lo descriverò dicendo che assomiglia al nostro gioco 38), tranne che per l’assenza dell’uso di una tabella da adoperare durante l’addestramento. L’addestramento potrebbe consistere nell’accompagnare per mano l’allievo lungo il percorso per cui lo si vuole far camminare. Ci si potrebbe però immaginare anche un altro caso:
40). in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “se gli si mostra la lettera a, lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Che in 38) e in 39) l’addestramento precede l’esecuzione dell’ordine non cambia il processo della sua esecuzione. Ovverossia “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Un tale meccanismo non potrebbe essere congenito?” Hai però riscontrato una qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato un tale meccanismo, che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o la spiegazione dei segni abcd data in 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire a sua volta una tabella, e avanti così. (Cfr. 21)
Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “va’ da questa parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada costui)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Tale esempio mostra gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
Torniamo a 39). Qualcuno visita la tribù e osserva l’uso dei segni nel loro linguaggio. Descrive tale linguaggio dicendo che le sue frasi sono composte dalle lettere abcd utilizzate secondo la tabella 33). Notiamo che l’espressione “un gioco si svolge secondo la regola così-e-così” si impiega non solo nella varietà dei casi esemplificata da 36), 37) e 38) ma anche in casi in cui la regola non è uno strumento dell’addestramento e nemmeno della pratica del nostro gioco, con cui però intrattiene la stessa relazione intercorrente tra la nostra tabella e la pratica del gioco 39). In tale circostanza si potrebbe chiamare la tabella una legge naturale che descrive il comportamento dei membri della tribù. Oppure stabilire che la tabella è un registro appartenente alla storia naturale della tribù.
Rammenta che nel gioco 33) ho operato una distinzione netta tra l’ordine da eseguire e la regola impiegata. In 34) invece abbiamo chiamato regola la frase “c a d a” che costituiva l’ordine. Immagina anche la variazione seguente:
41). Il gioco assomiglia a 33), ma l’allievo non è addestrato soltanto a servirsi di un’unica tabella; l’addestramento si prefigge fargli impiegare qualunque tabella che correla lettere e frecce. Con ciò intendo semplicemente dire che si tratta di un tipo particolare di addestramento, per certi versi analogo a quello descritto in 30). Definisco un addestramento simile a quello di 30) “addestramento generico”. L’addestramento generico forma una famiglia i cui membri sono molto diversi l’uno dall’altro. Quello a cui penso consiste soprattutto: a) in un addestramento a una gamma limitata di azioni, b) nel dare all’allievo un’opportunità di estendere tale gamma, e c) di esercizi e prove a caso. Dopo l’addestramento generico l’ordine dovrà consistere nel fornirgli un segno di questo tipo:
rrtst
r | ↗ |
s | ↖ |
t | ↓ |
Lui esegue l’ordine muovendosi così:
Qui mi pare che si debba affermare che la tabella, la regola, fa parte dell’ordine.
Attenzione, non stiamo dicendo “che cos’è una regola”, ma solo elencando diverse applicazioni della parola “regola”; di certo ciò consiste nel fornire applicazioni della formula “espressione di una regola”.
Nota anche che in 41), in cui pure si potrebbe distinguere tra la frase e la tabella, non c’è un’obiezione rigida che, data la frase, ci impedisca di chiamare il simbolo intero. Ciò che qui ci tenta particolarmente a formulare una simile distinzione è la scrittura lineare della parte fuori dalla tabella. Seppure per certi versi bisognerebbe considerare meramente esterno e inessenziale il carattere lineare della frase, tale elemento e altri analoghi giocano un ruolo in ciò che in quanto logici siamo portati a dire su frasi e proposizioni. E quindi concepire il simbolo di 41) come un’unità ci aiuterebbe a comprendere quale aspetto può avere una frase.
Prendiamo ora in considerazione questi due giochi:
42). A dà ordini a B: tali ordini consistono in segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “-” va espletato facendo prima un passo e poi un saltello; l’ordine “..---” alternando due saltelli e tre passi, ecc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini”. – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Qualunque ordine si dia nella pratica di gioco contribuisce a costituire tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire che è limitato sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30)). Cfr. questo gioco con il seguente:
43). Gli ordini e la loro esecuzione come in 42); ma si usano solo i tre segni “-”, “-..”, “.--”. Diciamo che in 42) nell’esecuzione dell’ordine B è guidato dal segno fornitogli. Se però ci chiediamo se i tre segni in 43) guidano B nell’esecuzione degli ordini, a seconda del modo in cui guardiamo tale esecuzione, ci sembra di poter rispondere sia sì che no.
Se cerchiamo di decidere se in 43) B è guidato dai segni o meno, siamo portati a dare risposte come la seguente: a) B è guidato se non si limita a guardare a un ordine, per esempio “.--” come a un’unità per poi agire e invece lo legge “parola per parola” (i termini impiegati nel nostro linguaggio essendo “.” e “-”) e agisce in base alle parole lette.
Per rendere tali casi più chiari potremmo immaginare che “leggere parola per parola” consista nell’indicare ogni parola della frase a turno con il dito invece di indicare, magari sfiorandone l’inizio con il dito, contemporaneamente l’intera frase. Per amor di semplicità ipotizzeremo che “agire in base alle parole” consista nell’agire (compiendo un passo o un saltello) di volta in volta dopo ciascuna parola della frase. – b) B è guidato se espleta un processo conscio che istituisce una connessione tra l’atto di indicare una parola e l’atto di compiere un saltello o un passo. Possiamo raffigurarci tale connessione in vari modi. Per esempio, B dispone di una tabella in cui un trattino è correlato all’immagine di un uomo che compie un passo e un puntino è correlato all’immagine di un uomo saltellante. Allora gli atti coscienti che connettono il leggere l’ordine all’eseguirlo potrebbero consistere nel fatto di consultare la tabella o nel fatto di consultarne un’immagine mnemonica “con l’occhio della mente”. c) B è guidato se non reagisce soltanto a ogni parola nell’ordine, ma sperimenta lo sforzo specifico del “cercare di ricordare cosa significa il segno” e poi, quando il significato, l’azione giusta, gli sorge nella mente, percepisce l’allentarsi dello sforzo.
Tutte queste spiegazioni paiono in un certo senso insoddisfacenti ed è la limitazione del nostro gioco a renderle tali. Ciò si esprime con la spiegazione che B è guidato dalla particolare combinazione delle parole in una delle nostre tre frasi, se fosse in grado di espletare ordini composti da altre combinazioni di puntini e trattini. Nell’affermarlo ci sembra che l’“abilità” di eseguire ordini sia uno stato particolare della persona intenta a eseguire gli ordini di 42). Al contempo non riusciamo a trovare in un simile caso nulla che potremmo considerare suddetto stato.
Vediamo che ruolo hanno le parole “potere” o “essere in grado di” nel nostro linguaggio. Consideriamo gli esempi seguenti:
44). Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o di un attrezzo, che consiste in una tavola con una fessura per guidare il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, ecc. Il linguaggio di colore che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muovere in cerchio, in linea retta, ecc. Hanno anche un mezzo specifico per descrivere la tavola impiegata. A riguardo si esprimono così: “questa è una tavola il cui il piolo può essere mosso circolarmente”. In questo caso si potrebbe chiamare la parola “può” un operatore per mezzo del quale una forma di espressione che descrive un’azione si trasforma nella descrizione di uno strumento.
45). Immagina un popolo nel cui linguaggio non esistono forme proposizionali quali “il libro è nel cassetto” o “l’acqua è nel bicchiere”, perciò ogniqualvolta noi utilizziamo espressioni simili loro invece dicono “il libro può essere preso dal cassetto” o “l’acqua può essere presa dal bicchiere”.
46). Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare suddetti bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma di “questo bastone può essere piegato facilmente” oppure di “questo bastone può essere piegato con difficoltà”. Di tali espressioni si servono nel modo in cui noi affermiamo “questo bastone è elastico” o “questo bastone è duro”. Cioè non utilizzano la frase “questo bastone può essere piegato facilmente” come noi ci serviremo della proposizione “mi riesce facile piegare questo bastone”. Invece la impiegano in maniera tale che noi diremmo che stanno descrivendo uno stato del bastone. Per esempio si servono di frasi come “questa capanna è fatta di bastoni che possono essere piegati facilmente”. (Pensa a come noi formiamo gli aggettivi apponendo ai verbi dei suffissi: “-bile”, per esempio in “deformabile”).
Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra suddetti esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Ci siamo accorti che la tavola ha una fessura circolare o lineare, ecc. In 45) per certi versi le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, ecc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo che corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensoria statica.
Per quanto riguarda però lo stato del bastone in 46), nota che a tale “stato” non corrisponde un’esperienza sensoria che si protrae finché dura tale stato. Invece il criterio per stabilire se qualcosa si trova o meno nello stato in questione consiste in delle prove.
Anche se viaggia solo per mezz’ora, possiamo dire che un’automobile va a quaranta kilometri all’ora. Per spiegare tale modo di esprimerci asseriremmo che la macchina si sposta con una velocità tale che in un’ora le permette di compiere quaranta kilometri. Qui siamo portati a parlare della velocità della macchina come di uno stato del suo moto. Credo che, se non avessimo altre “esperienze di moto” oltre a quelle di un corpo che si trova in un luogo specifico in un dato momento e in un altro momento in un luogo diverso, non impiegheremmo tale espressione; se per esempio le nostre esperienze di moto si riducessero a quelle che intratteniamo nel vedere che la lancetta delle ore dell’orologio si è spostata da un punto all’altro del quadrante.
47). Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio “spara!”, “corri!”, “striscia!”, ecc. Costoro dispongono anche di una maniera particolare di descrivere la corporatura di un uomo. Tale descrizione ha la forma di “può correre veloce”, “può scagliare la lancia lontano”. Ciò che mi autorizza a dire che delle frasi siffatte sono descrizioni della corporatura di un uomo è il loro impiego. Quindi, se vedono un uomo con le gambe molto muscolose ma che, per così dire, ha per qualche ragione perso la mobilità degli arti inferiori, dicono che si tratta di un uomo che può correre veloce. L’immagine disegnata di un uomo dai bicipiti robusti la descriverebbero come la rappresentazione di “uno che può scagliare la lancia lontano”.
48). Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standard. Li fa sollevare certi pesi, dondolare le braccia, saltellare, ecc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali può scagliare la lancia” o “può lanciare il boomerang” o “ha la salute necessaria per inseguire il nemico”, ecc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce però solo in quanto prove per certe attività militari.
Riguardo al presente esempio e ad altri casi, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli forniti del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole. Dunque se asserisco che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere la prova” e “lanciare il boomerang” per giustificare la sostituzione di queste espressioni italiane al posto di quelle originali. A ciò noi ribatteremmo che abbiamo fornito solo una descrizione meramente abbozzata delle pratiche del nostro linguaggio inventato e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far seguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con “fa’ la prova”. A quest’espressione ne segue un’altra che durante le battaglie si impiega per certe azioni militari. In guerra c’è un comando al sentire il quale i membri della tribù scagliano i boomerang e che io dovrei tradurre con “scaglia il boomerang!” Inoltre se un uomo racconta una battaglia al suo capo, utilizza ancora l’espressione che io ho tradotto con “scagliare il boomerang”, stavolta in una descrizione. Ora ciò che caratterizza un ordine in quanto tale o una descrizione in quanto tale o una domanda in quanto tale, ecc. è – come abbiamo spiegato – il ruolo giocato dall’enunciazione di tali segni nella pratica complessiva del linguaggio. Ovverosia se una parola del linguaggio della nostra tribù è tradotta correttamente o meno in italiano dipende dal ruolo che tale termine riveste nell’esistenza complessiva della tribù; le occasioni in cui la si usa, le espressioni emotive con cui di solito la si accompagna, le idee che sentirla pronunciare generalmente ridesta o suggerisce negli astanti, ecc. A mo’ di esercizio chiediti: in quali casi affermeresti che una certa parola enunciata dai membri della tribù è un saluto? In quali casi diresti che corrisponde al nostro “arrivederci”, in quali invece a “ciao”? In quali casi diresti che una parola straniera corrisponde al nostro “magari”… alle nostre espressioni di dubbio, fiducia, certezza? Ti accorgerai che le giustificazioni per considerare qualcosa come un’espressione di dubbio, convinzione, ecc., in gran parte ma ovviamente non sempre, consistono in descrizioni di gesti, del gioco della mimica facciale e perfino del tono di voce. Rammenta allora che l’esperienza personale delle emozioni deve essere in parte un’esperienza assolutamente localizzata; se faccio una smorfia di rabbia, percepisco la tensione muscolare nella mia fronte aggrottata, se piango le sensazioni che sperimento attorno agli occhi sono naturalmente parte, e parte importante, di ciò che provo. Credo sia a questo che si riferisse William James con l’affermazione secondo la quale un uomo non piange perché è triste ma è triste perché piange. Il motivo per cui tale punto resta spesso incompreso è il nostro pensare all’enunciazione di un’emozione come se si trattasse di un qualche espediente artificioso per far sapere agli altri che ne siamo affetti. Invece non c’è confine netto tra tali “espedienti artificiosi” e ciò che si potrebbe chiamare l’espressione emotiva naturale. Cfr. a riguardo: a) piangere, b) alzare la voce per la rabbia, c) scrivere una lettera furiosa, d) suonare il campanello per sgridare un servitore.
49). Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “lui ha fatto così-e-così” e un’altra corrispondente a “lui può fare così-e-così” e che tuttavia la seconda la si impieghi solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche l’altra. Che cosa mi può portare ad affermare ciò? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui la si adopera, bisognerebbe chiamare narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “può Tal-dei-tali fare questo?” Si possono descrivere tali circostanze, per esempio dicendo che un capo sceglie degli uomini adatti per certe azioni come attraversare un fiume, scalare una montagna, ecc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo che sceglie uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione le parole dette dal capo ma solo gli altri elementi del contesto. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, si tradurrebbe nel nostro “può Tal-dei-tali attraversare il fiume?” A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente guadato il fiume a nuoto. Non si dà la risposta negli stessi termini in cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha guadato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non si risponde invece così nei casi in cui dovrei certamente rispondere “so guadare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese più ardue rispetto al nuoto e non soltanto all’attraversare a nuoto questo particolare fiume.
In suddetto linguaggio però le due espressioni “ha fatto così-e-così” e “può fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, vedrai che qualcosa ti porterà ad affermare la prima ipotesi, qualcos’altro invece la seconda. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato definito chiaramente. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “lui può…” se lui ha fatto… è il tuo criterio per stabilire uno stesso significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a creare il significato delle due espressioni, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego della parola “può” – l’espressione di possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere.
Prima di continuare a riflettere sull’uso “dell’espressione di possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima ho fatto questo”, ecc. Considera l’esempio seguente:
50). Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati”. Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Faceva parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose”. Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si porgano) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre oggetti (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come “aveva una palla, un bastone e un sonaglio”. In una situazione simile l’adulto interrompe l’elencazione e induce il bambino a completarla. In un’altra occasione magari dice solo “ha avuto…” e lascia che sia il bambino a compiere l’intera elencazione. Il modo per “indurre il bambino a proseguire” potrebbe essere questo: interrompere l’elencazione con una certa espressione facciale e un tono di voce in levare che chiameremmo di aspettativa. Tutto allora dipende dal reagire o meno del bambino a tale “induzione”. C’è però un curioso malinteso in cui è facile cadere, ovvero il considerare “i mezzi esteriori” di cui il maestro si serve per indurre il bambino a proseguire come ciò che potremmo chiamare una maniera indiretta di farsi capire dal bambino. Guardiamo alla situazione come se il bambino già possedesse un linguaggio in cui pensare e il compito dell’insegnante consistesse nell’indurlo a indovinare il significato nel regime dei significati presente nella sua mente, come se nel proprio linguaggio privato l’infante potesse porsi una domanda quale “vuole che continui, che ripeta quel che ha appena detto o qualcos’altro ancora?” (Cfr. 30))
51). Un altro esempio di un tipo primitivo di narrazione di eventi passati: viviamo in un paesaggio con dei punti di riferimento naturali all’orizzonte. È facile quindi ricordare il luogo in cui il sole sorge in una particolare stagione, o quello in cui si libra allo zenit, o quello in cui tramonta. Abbiamo delle immagini caratteristiche del sole in posizioni diverse nel nostro paesaggio. Chiamiamo tale serie di immagini la serie del sole. Disponiamo anche di immagini caratteristiche delle attività di un bambino, sdraiato a letto, intento ad alzarsi, a vestirsi, a pranzare, ecc. Questo gruppo lo chiamerò la serie della vita. Immagino che il bambino, nel corso delle proprie attività quotidiane, sia spesso in grado di notare la posizione del sole. Attiriamo l’attenzione del bambino, intento a fare una certa cosa, sul sole situato in un certo punto. Poi guardiamo sia un’immagine che rappresenta l’attività che sta compiendo sia un’immagine che mostra dove si trova il sole in quel momento. Possiamo quindi abbozzare la storia della giornata del bambino schierando in sequenza sotto le immagini della vita e sopra quella che ho chiamato la serie del sole, le due file nella loro giusta correlazione. Lasceremo poi che sia il bambino a concludere tale storia per immagini, che noi lasceremo incompiuta. A questo punto vorrei dire che tale forma di addestramento (vedi 50) e 30)) è una delle caratteristiche salienti nell’uso del linguaggio o nel pensare.
52). Una variazione di 51). Nella stanza del bebè c’è un grande orologio e per evitare complicazioni immaginiamo che abbia solo la lancetta delle ore. La storia della giornata del bambino è narrata come sopra, ma non c’è la serie del sole; invece scriviamo una delle cifre del quadrante su ognuna delle immagini della vita.
53). Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile in cui pure, per così dire, c’andrebbe di mezzo il tempo, quello in cui disporremmo solo la serie delle immagini della vita. Potremmo giocare a tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo”. In tal senso si potrebbe affermare che in 53) emergono le idee di prima e di dopo ma non l’idea della misurazione del tempo. Non c’è bisogno di stigmatizzare che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve.
Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che la vera idea del tempo non c’entri ancora nulla, ma solo un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non contenga in sé un orologio, che l’orologio sia solo lo strumento volgare indicante quando sono le cinque o che esista un’idea di ora che in sé non includa uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto”, “un’ora”. E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai si serve del termine “cinque in punto”, “un’ora”, “tanto tempo”, “poco tempo”, ecc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, adesso però abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno di loro è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò diventerà più chiaro considerando l’esempio seguente:
54). Se a qualcuno diamo l’ordine “di’ un numero, qualunque numero ti venga in mente”, di solito l’interlocutore è in grado di eseguirlo subito. Immagina che si scopra che i numeri pronunciati in seguito a tale richiesta aumentano – in ogni persona normale – con il passare del giorno; un uomo comincia al mattino con un numero basso e la sera, prima di addormentarsi, arriva al più alto. Considera ciò che potrebbe portare qualcuno a chiamare le reazioni così descritte “un mezzo di misurazione del tempo” o perfino a dire che, mentre le meridiane, ecc. sarebbero solo segnali indiretti, tali reazioni sono gli elementi distintivi reali del passaggio del tempo. (Rifletti sull’affermazione secondo cui il cuore umano è il vero orologio dietro tutti gli altri).
Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali.
55). Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come “lastra!”, “colonna!”, ecc., B è addestrato a eseguirlo immediatamente. In questo gioco introduciamo un orologio, un ordine viene pronunciato e noi addestriamo il bambino a non eseguirlo finché la lancetta del nostro orologio raggiunge il punto che prima abbiamo indicato con un dito. (Si potrebbe fare per esempio così: tu prima hai addestrato il bambino a eseguire l’ordine immediatamente. Poi dai l’ordine, ma trattieni il bambino e, solo quando la lancetta dell’orologio ha raggiunto un punto specifico del quadrante che indichi con il dito, lo lasci andare).
Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso”. Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti dai primi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo genere e dire, per esempio “piastra, adesso!”
Ormai sarebbe facile descrivere i giochi linguistici presenti in espressioni quali “in cinque minuti”, “mezz’ora fa”.
56). Prendiamo adesso in considerazione una descrizione del futuro. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco.
Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Che cos’è tale aspetto e come mai ci appare così lo si può caratterizzare in maniera emblematica riflettendo sulla domanda “quando diventa passato, dove va il presente, e il passato dove si trova?”… in quali circostanze ci affascina un simile interrogativo? In altre circostanze non ci attira affatto e lo liquideremo come un’insensatezza.
È evidente che una domanda del genere tende a sorgere facilmente se ci si occupa di casi in cui le cose ci oltrepassano in un flusso… come tronchi portati dalla corrente. In tal caso possiamo dire che i legni che ci hanno superato sono laggiù a sinistra e quelli che ci supereranno sono lassù a destra. Poi ci serviamo di una situazione del genere come di un modello per tutto ciò che accade nel tempo e la incorporiamo perfino nel nostro linguaggio, dicendo per esempio che “l’evento presente ci oltrepassa” (un tronco ci oltrepassa), “l’evento futuro deve arrivare” (il tronco deve arrivare). Parliamo di flusso degli eventi; ma anche di flusso del tempo… cioè del fiume in cui si spostano i legni.
Qui si annida una delle fonti più fertili di perplessità filosofica: parliamo dell’evento futuro di qualcosa che entra nella mia stanza e anche dell’avvento futuro di tale evento.
Diciamo “la tal cosa accadrà” e anche “la tal cosa mi viene incontro”; con “la tal cosa” ci riferiamo al tronco, ma anche al fatto che mi viene incontro.
Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come “dove va la fiamma della candela spenta con un soffio?”, “dove va la luce?”, “dove va il passato?” Ci siamo lasciati ossessionare dal nostro simbolismo. Si può dire che a condurci nella perplessità è un’analogia che ci trascina inesorabilmente. – Questo accade anche quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. Nel nostro esempio 55) sembra che la funzione di “adesso” non sia affatto paragonabile alla funzione di un’espressione come “le cinque in punto”, “mezzogiorno”, “il momento in cui il sole tramonta”, ecc. Le espressioni appartenenti a quest’ultimo gruppo le chiamerei “determinazioni di tempo” o “specificazioni di tempo”. Il nostro linguaggio ordinario però si serve della parola “adesso” e delle determinazioni di tempo in contesti simili. Diciamo infatti “il sole tramonta adesso”, “il sole tramonta alle sei”. Siamo propensi a dire che sia “adesso” sia “alle sei” “si riferiscono a punti del tempo”. Tale impiego delle parole produce una perplessità esprimibile con la domanda “che cos’è tale ‘adesso’… perché è un momento del tempo, eppure non si può dire che sia né ‘il momento in cui parlo’ né ‘il momento in cui batte l’orologio’, ecc. ecc.”. - - La nostra risposta è: la funzione della parola “adesso” è completamente diversa da quella di una specificazione di tempo. – Ce ne si accorge facilmente se si osserva il ruolo svolto da suddetta parola nel nostro uso linguistico, eppure tale aspetto resta oscuro quando, invece di guardare al gioco linguistico nel suo complesso, ci concentriamo sui contesti e le combinazioni linguistiche in cui si impiega tale parola. (La parola “oggi” non è una data, ma non è nemmeno alcunché di paragonabile a una data. Non differisce da una data come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo; sicuramente potremmo dire che c’è una qualche connessione sia tra un martello e un mazzuolo sia tra un martello e un chiodo).
Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di una località, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio… mi riferisco ai giochi svolti con tali parole, non alle espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo “questo è piccolo” e “Jack è piccolo”; ricorda però che, senza il gesto d’indicare e la cosa che stiamo indicando, “questo è piccolo” non significherebbe niente. – Ciò che si può paragonare a un nome non è la parola “questo” ma, per così dire, il simbolo in cui tale parola consiste, il gesto, il campione. Diremmo: niente è più tipico di un nome proprio A del nostro poterlo utilizzare in espressioni quali: “questo è A”; invece non ha senso dire “questo è questo” o “adesso è adesso” o “qui è qui”.
L’idea di una proposizione che dica qualcosa su ciò che accadrà in futuro è ancora più foriera di perplessità dell’idea di una proposizione sul passato. Per paragonare eventi futuri a eventi passati, si potrebbe quasi arrivare a dire che, sebbene gli eventi passati non esistano davvero nella piena luce del giorno, pure ristanno in un qualche aldilà in cui sono trapassati uscendo dal mondo reale, d’altro canto agli eventi futuri non pertiene nemmeno una simile vita umbratile. Certamente si potrebbe immaginare un reame di accadimenti non ancora nati e futuri, da cui poi questi eventi giungerebbero nella realtà per poi finire nel reame del passato; noi, per rimanere all’interno di questa metafora, potremmo rimanere sorpresi di come il futuro sembri meno tangibile del passato. Ricorda tuttavia che la grammatica delle nostre espressioni temporali è asimmetrica rispetto all’origine che corrisponde al momento presente. Quindi la grammatica delle espressioni legate alla memoria non riappare “di segno opposto” nella grammatica temporale del futuro. Dunque nella grammatica del futuro non c’è nulla che corrisponda alla grammatica della parola “memoria”. Questa è la ragione per cui si è detto che le proposizioni su eventi futuri non sono davvero delle proposizioni. Tale giudizio regge a patto però di non considerarlo altro che una decisione in merito all’utilizzo del termine “proposizione”; una decisione che, seppure discordante dall’uso comune della parola “proposizione”, in determinate circostanze può venire spontanea a degli esseri umani. Se un filosofo dice che le proposizioni sul futuro non sono vere proposizioni, è perché è rimasto colpito dall’asimmetria nella grammatica delle espressioni temporali. Il pericolo comunque è che immagini di aver fatto un’asserzione scientifica “sulla natura del futuro”.
57). Un gioco si svolge così: un uomo getta un dado e prima di gettarlo disegna su un foglio alcune delle sue sei facce. Se, dopo il tiro, la faccia in cima al dado è una di quelle tratteggiate, costui prova (esprime) soddisfazione. Se invece la faccia visibile è un’altra, il soggetto resta insoddisfatto. Oppure facciamo che i giocatori sono due e, ogni volta che il primo indovina il tiro, il secondo gli dà un centesimo, oppure, in caso di previsione errata, è il primo a pagare il secondo. Nelle circostanze di un gioco simile, disegnare la faccia del dado va chiamato “tirare a indovinare” o “fare una congettura”.
58). In una certa tribù si tengono gare di corsa, di sollevamento pesi, ecc. e gli spettatori puntano soldi o possedimenti materiali sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono poste in fila e quelli che ho chiamato ‘spettatori’ puntano posando i propri averi (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha posto il proprio oro sull’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto ha messo giù. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica, anche se la si osserva in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità”, “chances”, ecc., la chiameremo indubbiamente scommessa. Presuppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo la scoperta del risultato della scommessa. Immagino inoltre che nell’esaminare la disposizione delle scommesse sarei in grado di capire il “perché” di tali posizionamenti. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che quello più massiccio sia convalescente o abbia trascurato gli allenamenti, ecc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per la disposizione delle scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro “scommetto su di lui perché si è tenuto in forma, l’avversario si è allenato male”, e simili. Potrei descrivere tale situazione dicendo che la mia osservazione mi ha insegnato certe cause della disposizione delle loro scommesse, ma che, per agire come hanno agito, gli scommettitori avevano invece delle ragioni.
Ma la tribù potrebbe disporre di un linguaggio che include il “fornire ragioni”. Tale gioco di fornire la ragione del perché si agisce in un tal modo non comporta però lo scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente:
59). Se un uomo della tribù viene deriso o sgridato per aver perso la scommessa, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta.
Si potrebbe affermare che fornire ragioni in questo modo presuppone che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei rispettivi regimi di allenamento dei suddetti. Questo però è un assunto che, ragionevole o meno, certamente non ho esplicitato nella descrizione del caso. (E non ho nemmeno stabilito che gli scommettitori debbano fornire ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) - È facile immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con “credo che Tal-dei-tali possa battere Tal-dei-tali in un combattimento”, ecc.
60). Immagina analogamente che si ipotizzino congetture sul fatto che un certo carico di polvere da sparo riesca o meno a sbriciolare una determinata roccia e che le congetture siano espresse in forme quali: “questa quantità di polvere da sparo può sbriciolare questa roccia”.
61). Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo’, stringendo questo peso la mia mano salirà”. Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da non contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… ecc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
62). Facciamo questo gioco: A scrive una fila di numeri. B lo guarda e cerca di trovare un sistema nella sequenza di cifre. Quando ci riesce dice: “ora posso continuare”. Tale esempio è particolarmente istruttivo perché “poter continuare” qui sembra essere qualcosa che si instaura all’improvviso sotto forma di un evento chiaramente definito. – Immagina allora che A abbia scritto in fila 1, 5, 11, 19, 29. A quel punto B esclama “adesso posso continuare”. Che cosa è accaduto quando tutt’a un tratto ha visto come continuare? Potrebbero essere accadute molte cose. Supponiamo che nel presente caso, mentre A scriveva un numero dopo l’altro, B si sia sforzato di provare ad applicare varie formule algebriche. Quando A ha scritto “19” B ha avuto l’impulso di tentare la formula aₙ = n² + n – 1. Che poi A abbia aggiunto 29 ha comprovato l’intuizione di B.
63). Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e di idee pigre fluttuanti nella mente, si è detto tra sé “li mette al quadrato e poi aggiunge sempre una cifra in più”; poi ha pensato al numero successivo della sequenza e ha scoperto che concordava con le cifre che andava annotando A. –
64). Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che posso continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 stilata da A, ha provato una qualche sensazione, o delle sensazioni che spesso accompagnano parole quali “facile!” Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento.
Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula aₙ = n² + n – 1 sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti agli occhi della mente, o l’esperienza di scrivere o recitare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule annotate in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi propendiamo per l’affermazione secondo cui “poter…” deve significare qualcosa in più del mero atto di recitare la formula… e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “poter continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi ci porta fuori strada. Quando diciamo “di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché non potremmo chiamare soltanto questo ‘potere…’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B può continuare…” non equivale esattamente a dire “B recita la formula…” ma da ciò non consegue che l’espressione “B può continuare” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B recita la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata e lui allora perlustra con lo sguardo la stanza alla ricerca dell’oggetto denotato dalla parola “sedia”. (L’esempio sarebbe ancora più calzante se costui frugasse dentro la sedia alla ricerca del vero significato della parola “sedia”). È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula ecc., ci serviamo della frase “costui può continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però rischia di suggerirci che la frase “B può continuare…” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie”. Ma davvero affermando “adesso posso continuare” B intende qualcosa come “adesso faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, ecc., ecc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato preparato a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B può continuare…” è utilizzata correttamente in occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B può continuare…” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva costituente lo sfondo del nostro gioco.
E invece in alcune circostanze dovremmo essere pronti a sostituire “B può continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha recitato la formula”. Come nel chiedere al medico “il paziente può camminare?”, dobbiamo essere pronti a sostituire la frase con “gli è guarita la gamba?” – “Può parlare” in certe circostanze significa “la sua gola sta bene?”, in altre invece (per esempio se si tratta di un bambino piccolo) significa “ha imparato a parlare?” – Alla domanda “il paziente può camminare?” il dottore può rispondere “la gamba è a posto”. – Ci serviamo dell’espressione “per quanto riguarda le condizioni della gamba, può camminare”, soprattutto quando vogliamo distinguere, in merito all’atto di camminare, tale condizione da un’altra dello stesso soggetto, per esempio quella della sua spina dorsale. Qui dobbiamo fare attenzione a non credere che nella natura del caso ci sia ciò che potremmo chiamare un insieme completo di condizioni, per esempio per quanto riguarda il fatto di camminare; in modo che se tutte queste condizioni fossero assolte, il paziente, per così dire, non potrebbe fare a meno di camminare.
Possiamo dire: l’espressione “B può continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo a) tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure b) tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure c) (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova in uno stato di choc da combattimento; oppure d) tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia.
Alla domanda se “può continuare…” ha lo stesso significato di “conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi, come per esempio le espressioni ‘sto bene’ e ‘godo di buona salute;’” oppure possiamo dire “in alcune circostanze ‘il soggetto può continuare’ significa che conosce la formula”. Immagina il caso di un linguaggio (per certi versi analogo a 49)) in cui due forme di espressione, due frasi diverse, sono impiegate per affermare che le gambe di una persona funzionano bene. Una delle due forme enunciative la si utilizza solo nelle circostanze in cui si sta preparando una spedizione, un viaggio a piedi o qualcosa di simile; dell’altra ci si serve in casi in cui preparativi del genere non sono contemplati. Qui non sapremo se dire che le due frasi hanno lo stesso significato o significati diversi. In ogni caso è solo osservando nel dettaglio l’utilizzo di suddette espressioni che riusciamo a scorgere lo stato reale delle cose. – Ed è evidente che se nel caso presente decideremo di dire che le due espressioni hanno diversi significati, di sicuro non saremo in grado di dire che la differenza è che il fatto che rende vera la seconda frase è diverso da quello che rende vera la prima.
Siamo giustificati a dire che la frase “lui può continuare…” ha un significato diverso da quello di “lui sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui si riferisce la prima frase”, come se tale stato risiedesse in un piano superiore a quello in cui hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, ecc.)
Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto “posso continuare la serie” ma che una volta invitato a proseguire la sequenza se ne sia mostrato incapace… diremo che ciò ha dimostrato che la sua asserzione, secondo la quale era in grado di continuare, era sbagliata o sosterremo che, mentre affermava di esserne capace, era davvero in grado di continuare? Sarebbe B stesso a dire “mi rendo conto di essermi sbagliato”, oppure “ciò che ho detto era vero, in quel momento ne ero capace, ma adesso non più”? – Ci sono casi in cui sarebbe giusto dire la prima frase e casi in cui sarebbe giusto dire la seconda. Immagina a) quando ha detto di poter continuare, vedeva la formula nella propria mente, ma una volta che gli hanno chiesto di proseguire ha scoperto di essersela scordata; - oppure b) quando ha detto di poter continuare stava pronunciando tra sé e sé i cinque termini successivi della serie, ma adesso scopre di non rammentarseli più; - oppure c) prima ha continuato la serie calcolando altri cinque numeri, adesso ricorda solo le cifre ma non come ha fatto a calcolarle; - oppure d) dice “prima avevo l’impressione di poter continuare, adesso no”; oppure e) “quando ho detto di essere in grado sollevare il peso, il braccio non mi faceva male, adesso invece sì”; ecc.
D’altro canto diciamo “pensavo di poter sollevare questo carico, adesso mi accorgo che non ci riesco”, “pensavo di essere in grado di ricordarmi questa parte a memoria, ora mi rendo conto che mi sbagliavo”.
A queste illustrazioni dell’utilizzo della parola “può” bisognerebbe accompagnarne altre che mostrino la varietà dei nostri usi dei termini “dimenticare” e “tentare”, poiché tali impieghi sono strettamente connessi con la parola “può”. Considera i seguenti casi: a) prima B ha recitato la formula tra sé, adesso “ha un vuoto mentale assoluto”. b) Prima B ha recitato la formula tra sé, adesso per un attimo non sa più “se era 2ⁿ o 3ⁿ”. c) Si è scordato un nome e ce l’ha “sulla punta della lingua”. Oppure d) non si ricorda se il nome non l’ha mai saputo o se l’è solo dimenticato.
Adesso prestiamo attenzione a come ci serviamo della parola “tentare:” a) un uomo tenta di aprire la porta tirandola più forte che può. b) Tenta di aprire l’anta di una cassaforte tentando di indovinarne la combinazione. c) Tenta di trovare la combinazione tentando di ricordarsela, oppure d) girando la manopola e auscultando con uno stetoscopio. Confronta i vari processi che chiamiamo “tentare di ricordare”. Paragona e) tentare di muovere il dito contro una resistenza (per esempio qualcuno che lo trattiene) e f) quando hai intrecciato le mani in un modo particolare e hai l’impressione di “non sapere cosa fare per muovere il dito in un determinato modo”.
(Considera anche la classe di casi in cui diciamo “posso fare così-e-così ma non lo farò”; “se potessi, lo farei”… per esempio sollevare cinquanta kili; “se volessi, potrei”… per esempio recitare l’alfabeto).
Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che posso fare una certa cosa è quello in cui, mentre dico che posso farla, effettivamente la faccio e che altrimenti sarebbe meglio affermare: “per quanto riguarda… lo posso fare”. Si potrebbe essere propensi a credere che solo nel caso di cui sopra una persona ha dato davvero prova di essere in grado di fare una certa cosa.
65). Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “io posso…” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra suddetto gioco e uno in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “posso fare così-e-così” non c’è una differenza metafisica. Un gioco del tipo di 65) comunque ci mostra il vero impiego dell’espressione “se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali, salvo che in casi molto particolari, risulta priva di significato.
66). Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti kili”; una delle due la si utilizza ogni volta che l’azione eseguita è una prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione eseguita non è una prova.
Vediamo che una vasta rete di parentele familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa andrà in futuro in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che in futuro andrà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. - -
Ci sono comunque ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. In parole povere, ciò ci fa dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente propensi ad adottare, oppure, per esprimerci in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora di qualcosa che è in un particolare stato per dire che qualcosa può andare in un particolare modo. Tale maniera di rappresentazione, o metafora, si estrinseca in espressioni quali “lui è capace di…”, “lui è in grado di moltiplicare grosse cifre a mente”, “lui sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo al tempo presente indica che si tratta di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla.
La stessa tendenza emerge nella nostra abitudine di chiamare l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., certi stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. In questo senso uno stato mentale è invece lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello mentale concepito per spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al modello mentale.) In questo modo siamo quasi costretti a considerare la memoria una specie di magazzino. Nota anche con quanta sicurezza le persone, pur non sapendo nulla di tali corrispondenze fisiopsicologiche, credono che alla capacità di compiere addizioni, o moltiplicazioni, o di recitare una poesia a memoria, ecc. debba per forza corrispondere un particolare stato del cervello del soggetto in questione. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo le cui manifestazioni sono tali fenomeni; consideriamo suddetti fenomeni le manifestazioni di tale meccanismo. La loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.
Tornando ora alla nostra discussione di 43), notiamo che, l’affermazione per la quale, se B avrebbe potuto anche espletare ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quella scritta in 43), allora era guidato, in realtà non era una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni. Infatti nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui avremmo potuto stabilirlo con certezza solo se fossimo stati in grado di guardare nel meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo dovremmo chiamare il fatto che certe parti sono guidate da altre. In realtà il meccanismo che, quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “meccanismo guidato dai segni”, ci si suggerisce subito è un meccanismo del tipo della pianola. Nell’ingranaggio della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, guidate dagli schemi dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe dire “la pianola legge la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi chiameremmo gli schemi di tali perforazioni segni complessi o frasi, contrapponendo la loro funzione in una pianola dalla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il bullone di una serratura, ma non bisognerebbe dire che il movimento del bullone è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e nocche, cioè non bisognerebbe dire che il bullone si muoveva in base allo schema del profilo della chiave. Osserva qui la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: perché diremo che la pianola può leggere qualunque schema di perforazioni, a patto che siano sempre dello stesso tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme specifico di melodie (come un carillon)… mentre il bullone della serratura reagisce solo allo schema della chiave, predeterminato dalla costruzione del meccanismo. Diremmo che le nocche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che costituiscono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.
È evidente che seppure se ne serviamo a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), meccanismi del genere non sono effettivamente coinvolti in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto di espressioni quali “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura - che pure possono fungere da metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi - è solo un impiego in una famiglia di impieghi.
Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” concentrandoci sull’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica nulla di analogo alla comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere il proprio linguaggio, poi a leggere libri, riviste, lettere, ecc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono lungo i termini stampati li pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremo anche che ha letto una frase, se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come una mera macchina da lettura, ovvero non riporre alcuna attenzione in ciò che ha detto, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, se ha agito con la stessa assenza di errori di una macchina da lettura, diremo che ha letto. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se riflettendo su quest’esempio ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo “solo lui sa se sta leggendo; nessun altro può saperlo davvero”. Eppure bisogna ammettere che, per quanto riguarda la lettura di una parola determinata, nella mente del principiante che “fingeva” di leggere potrebbe essere accaduta la stessa identica cosa verificatasi nella mente della persona istruita, intenta a leggere la parola in questione. Quando parliamo del lettore esperto, utilizziamo la parola “leggere” in modo diverso rispetto a quando parliamo del principiante. Ciò che in un caso chiamiamo un esempio di lettura, nell’altro caso non lo consideriamo tale. – Ovviamente siamo portati a dire che ciò che è accaduto nel lettore esperto e nel principiante, quando hanno pronunciato la parola, non avrebbe potuto essere la stessa cosa. Se non nel loro stato cosciente, la differenza deve risiedere nelle regioni inconsce delle rispettive menti, o cervelli. Immaginiamo qui due meccanismi, di cui possiamo vedere il lavorio interno, che è il vero criterio per stabilire se una persona sta leggendo o no. In realtà però in simili casi nessuno di questi meccanismi ci è noto. Consideriamo la questione così:
67). Immagina che degli esseri umani o degli animali siano impiegati come macchine di lettura, presupponi che per diventare macchine di lettura abbiano bisogno di un addestramento particolare. L’uomo che li addestra dice di alcuni di loro che sanno già leggere, di altri che non sanno leggere. Prendiamo il caso di uno che finora non ha risposto all’addestramento. Se lo si mette davanti a una parola stampata talvolta emetterà dei suoni e ogni tanto capiterà “per caso” che tali suoni corrispondano più o meno alla parola stampata. Un terzo sente l’allievo in corso di addestramento pronunciare il suono giusto mentre guarda la parola “tavolo”. La terza persona dice “lui legge”, ma l’insegnate ribatte “no, non legge, è solo un caso”. Immaginiamo però che, quando gli si mostrino altre parole e frasi, l’allievo continui a leggerle correttamente. Dopo un po’ l’insegnante dice “adesso sì che sa leggere”. Ma com’è la questione per quanto riguarda la prima parola “tavolo?” L’insegnante dovrebbe dire “mi sbagliavo; ha letto anche quella”, oppure dovrebbe dire “no, è solo dopo che ha cominciato a leggere”? Quand’è che ha davvero iniziato a leggere, oppure: qual è stata la prima parola, o la prima lettera, che ha letto? È evidente che la presente domanda resta priva di senso a meno che io non aggiunga una spiegazione “artificiale” come la seguente: “la prima parola che legge = la prima parola delle prime cento parole consecutive che legge correttamente”. – Supponiamo invece di servirci della parola “leggere” per distinguere tra il caso in cui un particolare processo conscio di scandire le parole ha luogo nella mente di una persona dal caso in cui invece non ha luogo: - allora, almeno la persona che legge saprebbe dire che la tale-o-talaltra parola è stata la prima che ha effettivamente letto. – Invece nel caso diverso di una macchina di lettura che è un meccanismo di connessione tra segni e reazioni a tali segni, quindi per esempio in quello della pianola, diremmo “solo dopo che alla macchina è stata fatta questa-e-questa cosa, per esempio dopo che certe parti sono state connesse con dei cavi, la macchina ha davvero letto; la prima lettera che ha letto è stata una d”. - -
Nel caso 67) con il definire certe creature “macchine da lettura” abbiamo inteso soltanto affermare che reagiscono in una maniera specifica al vedere dei segni stampati. Nessuna connessione tra vedere e reagire, nessun meccanismo interno fa il suo ingresso qui. Sarebbe assurdo se, alla domanda in merito al fatto che se il suo allievo abbia letto o meno l’allievo la parola “tavolo”, l’addestratore avesse risposto “magari l’ha letta”, perché in questo caso non ci sono dubbi su quel che ha fatto. Il cambiamento che ha avuto luogo lo chiameremmo un cambiamento del comportamento generale dell’allievo e in questo caso non abbiamo fornito un significato all’espressione “la prima parola di una nuova era”. (Paragona questo al caso seguente:
…………………. . . . . . . . . . .
Nella figura una fila di puntini separati da ampi intervalli segue una fila di puntini separati da intervalli brevi. Qual è l’ultimo puntino della prima sequenza e qual è il primo della seconda? Immagina che i puntini siano fori nel disco rotante di una sirena. In tal caso dovremmo sentire un suono di timbro basso seguito da un suono di timbro alto (o il contrario). Chiediti: in quale momento comincia il tono di timbro basso e finisce l’altro?)
Tuttavia si è fortemente tentati di considerare l’atto mentale conscio quale unico vero criterio per distinguere il fatto di leggere dal fatto di non leggere. Poiché siamo propensi a dire “di sicuro un uomo sa sempre se sta leggendo o fingendo di leggere”, oppure “di sicuro uno lo sa se sta leggendo davvero”. Se A nel tentativo di far credere a B di essere in grado di leggere un testo in cirillico lo imbroglia imparando una frase russa a memoria e pronunciandola guardando il suo equivalente scritto, possiamo certo dire che A sa di fingere e che il non leggere in questo caso si caratterizza per una specifica esperienza personale, cioè quella del recitare la frase a memoria. Inoltre, se nel recitare a memoria A commette un errore, l’esperienza sarà diversa da quella di una persona che inciampa nella lettura.
68). Supponiamo però che un uomo perfettamente in grado di leggere, a cui si facciano leggere frasi che non ha mai letto prima, le legga sperimentando per tutto il tempo la strana sensazione di sapere a memoria la sequenza di parole in questione. In tal caso diremo che non sta leggendo, cioè considereremo la sua esperienza personale quale criterio distintivo tra il fatto di leggere e il fatto di non leggere?
69). Oppure immagina il caso seguente: a un uomo sotto effetto di una certa droga si mostra un insieme di cinque segni che non sono lettere di alcun alfabeto esistente; guardandoli con tutti i segni esteriori e le esperienze personali dello scandire una parola costui pronuncia “SOPRA”. (Simili situazioni accadono nei sogni. Al risveglio diciamo “mi sembrava di leggere dei segni, ma in realtà non erano affatto dei segni”). In tal caso alcuni sarebbero propensi a dire che il soggetto legge, altri che non legge. Potremmo immaginare che, dopo che l’uomo ha scandito la parola “sopra”, gli si mostrino altre combinazioni di cinque segni e che lui le legga in un modo coerente con quello con cui ha letto la prima sequenza di segni che gli abbiamo fatto vedere. Con una serie di prove simili potremmo scoprire che si è servito di quello che chiameremmo un alfabeto immaginario. Se fosse davvero andata così, saremo inclini a dire “legge” piuttosto che “immagina di leggere, ma in realtà non legge”.
Osserva anche che esiste una serie continua di casi intermedi tra il caso in cui una persona sa a memoria la scritta stampata che si trova davanti e il caso in cui scandisce le lettere di ogni parola senza mai aiutarsi indovinando in base al contesto, in base a ciò che sa a memoria e altri simili stratagemmi.
Fa’ questo: recita a memoria la serie dei numeri cardinali da uno a dodici. – Adesso guarda il quadrante dell’orologio e leggi la sequenza dei numeri. Chiediti in questo caso cosa hai chiamato leggere, cioè che ha cosa hai fatto per far sì che fosse un atto di lettura.
Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se deriva la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere che ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “- - . . -” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o lo spartito in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, gli spostamenti fatti seguendo segni come “”--..-” e i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.) Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo dire “gli abbiamo insegnato la regola dell’alfabeto”).
Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha derivato le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo in dono non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in un modo, quest’altra in un altro, ecc., e che lui poi ha letto le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene automaticamente è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà più chiaro se modifichiamo l’esempio e
70). presupponiamo che il nostro soggetto legga da un testo trascrivendolo, diciamo, dallo stampatello al corsivo. In questo caso possiamo immaginare che costui abbia ricevuto la regola dell’alfabeto sotto forma di tabella che mostra l’alfabeto in stampatello e quello in corsivo in colonne parallele. Allora l’atto di derivare la copia del testo lo concepiremo così: per ogni lettera la persona che copia guarda la tabella a intervalli frequenti, oppure dice tra sé cose quali “com’è la a minuscola?”, oppure cerca di visualizzare la tabella senza però guardarla.
71). E se invece nell’eseguire il compito il soggetto ha trascritto una “A” in una “b”, una “B” in una “c” e avanti così? Anche questo non dovremmo chiamarlo “leggere” o “derivare”? In tal caso si potrebbe descrivere la procedura che ha impiegato dicendo che ha utilizzato la tabella come noi l’avremmo adoperata se, invece di guardarla da sinistra a destra nel modo seguente:
l’avessimo guardata così:
anche se effettivamente lui, nel controllare la tabella, ha passato gli occhi o il dito orizzontalmente da sinistra a destra. – Supponiamo adesso invece
72). che compiendo il processo normale del “controllare” il soggetto abbia trascritto una “A” in una “n”, una B in una “x” agendo dunque, in sintesi, secondo uno schema di frecce che, diremmo, non mostrava alcuna regolarità. Immaginiamo però che
73). non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n”, la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo che “nel caso 71) tu hai ovviamente ipotizzato che avesse compreso la tabella in maniera diversa; non l’ha capita nel modo normale”. Ma cos’è che chiamiamo “comprendere la tabella in una maniera particolare?” Qualunque processo tu immagini con “comprendere”, è solo un altro legame inserito tra i processi esterni e i processi interni di derivazione che ho descritto nella trascrizione effettiva. In realtà questo processo di comprensione lo si potrebbe naturalmente descrivere per mezzo di uno schema del tipo di quello impiegato in 71) e si potrebbe dire che in un caso specifico il nostro soggetto abbia guardato la tabella così:
ma capita così:
e trascritta così:
Ma questo allora significa che in realtà la parola “derivare” (o “comprendere”) è priva di significato, visto che se proviamo a seguirlo tale significato pare affievolirsi nel nulla? In 70) il significato di “derivare” emergeva con una certa chiarezza, però ci siamo detti che si trattava solo di un caso speciale di derivazione. Ci è sembrato che l’essenza del processo di derivare fosse presentato in una veste particolare e che levandogliela saremmo giunti all’essenza. In 71), 72), 73) abbiamo cercato di spogliare il caso di quel che sembrava il suo costume particolare, solo per poi scoprire che quelli che ci erano parsi meri rivestimenti ne erano invece gli elementi essenziali. (Abbiamo agito come quando, per trovare il vero carciofo, gli si levano le foglie.) L’impiego della parola “derivare” è in realtà elucidato in 70), ossia tale esempio ci ha mostrato una delle famiglie di casi in cui si impiega suddetta parola. La spiegazione dell’uso di questo termine, come quella dell’uso della parola “leggere” o di “essere guidati da simboli”, essenzialmente consiste nel descrivere una selezione di esempi che ne esibiscono gli elementi caratteristici. Alcuni di tali casi esibiscono questi elementi in maniera smodata, altri ne mostrano le transizioni, certe altre serie di esempi ne mostrano invece l’affievolirsi. Immagina che qualcuno volesse darti un’idea dei lineamenti facciali della famiglia Tal-dei-tali e lo facesse mostrandoti dei ritratti di famiglia e dirigendo la tua attenzione su certi tratti salienti; il suo compito principale consisterebbe nell’organizzazione di tali immagini, che per esempio ti metterebbe in condizione di vedere come certe influenze gradualmente hanno sovvertito i tratti, in quali modi specifici sono invecchiati i membri della famiglia in questione e quali lineamenti con l’età sono divenuti più prominenti.
La funzione dei nostri esempi non era mostrarci l’essenza del “derivare”, “leggere” e avanti così, sepolta sotto un velo di elementi inessenziali; tali casi non erano descrizioni di un fuori per farci indovinare un dentro che per un motivo o per l’altro non si mostrava nella sua nudità. Siamo tentati di pensare ai nostri esempi come un mezzo indiretto di generare una certa immagine o idea nella mente di qualcuno… siamo tentati di pensare che alludano a qualcosa che non possono mostrare. Ciò sarebbe vero in casi come il seguente: immagina che io voglia produrre in un soggetto l’immagine mentale di una stanza del Settecento in cui costui non ha il permesso di entrare. Adotto dunque questo metodo: gli mostro la casa da fuori, gli indico le finestre della camera, lo conduco in altre stanze dello stesso periodo storico. - -
Il nostro metodo è puramente descrittivo; le descrizioni che forniamo non sono allusioni di spiegazioni.
(Intervallo. Vacanze di San Michele)
Parte II
Ogni volta che guardiamo oggetti familiari, proviamo un senso di familiarità? Oppure solo di norma?
Quand’è che lo proviamo?
Ci aiuta chiederci: da che cosa differenziamo il sentimento di familiarità?
Una delle cose da cui lo differenziamo è la sorpresa.
Si potrebbe dire: “L’assenza di familiarità è ben più un’esperienza della familiarità”.
Diciamo: A mostra a B una serie di oggetti. B deve dire ad A se l’oggetto gli è familiare o no. a) La domanda potrebbe essere “B sa che oggetti sono?” Oppure b) “riconosce B un particolare oggetto?”
1). Immaginiamo di mostrare a B una serie di strumenti: una bilancia, un termometro, uno spettroscopio, ecc.
2). Si mostra a B una matita, una penna, un calamaio e un ciottolo. Oppure:
3). Oltre a vari oggetti familiari gliene si mostra uno di cui lui asserisce “questo sembra sia stato utilizzato per un qualche scopo, ma non saprei dire quale”.
Che cosa succede quando B riconosce una matita?
Immagina che A gli abbia mostrato un oggetto che sembrava un bastoncino. B lo prende in mano e all’improvviso si sfascia e da una parte è un cappuccio, dall’altra una matita. B dice “ah, è una matita”. Ho riconosciuto l’oggetto in quanto matita.
4). Diremmo “B ha sempre saputo qual era l’aspetto di una matita; per esempio, se glielo avessero chiesto sarebbe stato in grado di disegnarne una. Non sapeva che l’oggetto che gli avevano dato era una matita che lui non avrebbe avuto difficoltà disegnare”.
Paragonalo con il caso 5).
5). Si mostra a B una parola scritta su un foglio tenuto rovesciato. Lui non riconosce la parola. Lentamente si gira il foglio finché B dice “adesso vedo cosa c’è scritto. È ‘matita’”.
Diremmo “ha sempre saputo che aspetto aveva la parola ‘matita.’ Non sapeva che la parola che gli si mostrava, una volta girata, avrebbe avuto l’aspetto di ‘matita’”.
Sia in 4) sia in 5) potresti dire che c’era qualcosa di nascosto. Nota però la diversa applicazione di “nascosto”.
6). Confronta tale caso con il seguente: nel leggere una lettera non riesci a leggere una parola. In base al contesto indovini di cosa debba trattarsi e adesso sei in grado di leggerla. Riconosci il primo scarabocchio per una c, il secondo per una i, il terzo per una b, il quarto per una o. Questo caso è diverso da quello in cui il termine “cibo” era coperto da una macchia d’inchiostro e tu hai solo ipotizzato che lì avrebbe dovuto trovarsi la parola “cibo”.
7). Paragona: Vedi una parola e non riesci a leggerla. Qualcuno lo modifica leggermente aggiungendo un trattino, allungando una lineetta, ecc. Adesso sei in grado di leggerla. Paragona tale alterazione con il ribaltamento di 5) e osserva come in un certo senso si può dire che, mentre la parola era capovolta, tu hai visto che non era alterata. Cioè esiste un caso in cui dici “ho guardato la parola mentre era girata e so che adesso è sempre la stessa di quando non l’ho riconosciuta”.
8). Immagina che il gioco tra A e B consista nel fatto che B deve dire se conosce l’oggetto o no ma non di che cosa si tratta. Immagina che, dopo un igrometro che non ha mai visto prima, gli si mostri una normale matita. Nello scorgere l’igrometro B ha detto che non gli era familiare, nel vedere la matita che sapeva che cos’era. Anche se ad A non l’ha detto, a se stesso deve aver detto che si trattava di una matita? Perché dovremmo presupporlo?
E allora, quando ha riconosciuto la matita, in quanto che cosa l’ha riconosciuta?
9). Perfino supponendo che abbia davvero detto a se stesso “ah, questa è una matita”, paragoneresti tale esempio a 4) o 5)? In questi casi si potrebbe dire “ha riconosciuto questo come quello” (per esempio indicando la matita coperta mentre pronuncia “questo” e mentre pronuncia “quello” indicando la penna normale, e operando in 5) in modo analogo)
In 8) la matita non ha subito cambiamenti e le parole “ah, questa è una matita” non si riferivano a un paradigma, di cui B avrebbe riconosciuto la somiglianza con la matita mostratagli.
Se gli si avessimo chiesto “che cos’è una matita?”, B non avrebbe indicato un altro oggetto come paradigma o campione, ma avrebbe subito indicato la matita mostratagli.
“Nel dire però ‘ah, questa è una matita’, come faceva a sapere che lo era se non l’ha riconosciuta come qualcosa?” – Ciò in fondo equivale a dire: “come ha riconosciuto ‘matita’ in quanto nome di una cosa di quella specie?” Be’, come ha fatto? Ha semplicemente reagito in questa maniera particolare, cioè ha pronunciato suddetta parola.
10). Immagina che qualcuno ti mostri dei colori e ti chieda di nominarli. Indicando un certo oggetto tu dici “questo è rosso”. Se ti chiedessero “come fai a sapere che è rosso?”, che cosa risponderesti?
Naturalmente può essere che B abbia ricevuto una spiegazione generica quale “chiameremo ‘matita’ qualunque oggetto tramite cui si scrive agevolmente su una tavoletta di cera”. Poi A gli mostra, tra gli altri, un piccolo oggetto appuntito e, dopo aver pensato “con questo sarebbe facile scrivere”, B dice “ah, questa è una matita”. In questo caso, diremmo, ha luogo una derivazione. In 8), 9), 10) non ci sono derivazioni. In 4) si potrebbe dire che B ha derivato che l’oggetto mostratogli è una matita per mezzo di un paradigma, oppure che non è avvenuta alcuna derivazione di questo tipo.
Diremo dunque che, scorgendo la matita dopo aver visto degli strumenti sconosciuti, B ha provato un senso di familiarità? Immaginiamo cosa potrebbe davvero essere successo. Ha visto una matita, ha sorriso, si è sentito sollevato e il nome dell’oggetto davanti ai suoi occhi gli è comparso nella mente o sulle labbra.
Il senso di sollievo non è proprio ciò che caratterizza l’esperienza del passaggio dall’estraneo al familiare?
Diciamo di provare tensione e rilassamento, sollievo, sforzo e riposo in casi diversi come i seguenti: un uomo regge un carico con il braccio disteso; il braccio e tutto il corpo sono in uno stato di tensione. Gli permettiamo di abbassare il peso, la tensione scema. Un uomo corre, poi riposa. Pensa intensamente alla soluzione di un problema di Euclide, la trova e si rilassa. Cerca di ricordare un nome e rammentandoselo si rilassa.
Se gli chiedessimo “tutti questi casi che cos’hanno in comune che ci fa dire che si tratta sempre di casi di sforzo e di rilassamento?”
Quando tentiamo di ricordare una parola, che cosa ci porta a impiegare l’espressione “cercare nella memoria?”
Chiediamoci “qual è la somiglianza tra cercare una parola nella memoria e cercare un amico nel parco?” Quale sarebbe la risposta a una simile domanda?
Un certo tipo di risposta comporterebbe certamente la descrizione di una serie di casi intermedi. Diremmo che il caso a cui più assomiglia il cercare qualcosa nella memoria non è il cercare un amico nel parco, bensì per esempio quello di cercare in un dizionario come si scrive una parola. Si potrebbe proseguire elencando altri casi. Un altro modo di indicare la somiglianza consisterebbe nell’affermare, per esempio, “in entrambi i casi all’inizio non possiamo scrivere la parola, poi invece sì”. Questo è ciò che chiamiamo indicare un elemento comune.
È importante osservare che, quando nel caso del tentare di ricordare siamo indotti a servirci di parole quali “cercare”, “rintracciare”, ecc., non dobbiamo per forza essere consapevoli delle affinità così indicate.
Si potrebbe pensare di affermare che “di certo una qualche somiglianza ci colpisce, altrimenti non saremmo propensi a impiegare la stessa parola”. Paragona quest’affermazione con “una somiglianza tra questi due casi deve colpirci in modo tale che saremo portati a utilizzare la stessa immagine per rappresentare entrambi”. Questo ci dice che un qualche atto deve precedere quello di impiegare l’immagine. Ma perché quella che chiamiamo “la somiglianza che ci colpisce” non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che usiamo la stessa immagine? E perché non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che siamo indotti a servirci della stessa espressione?
Diciamo “questa immagine (o quest’espressione) ci si suggerisce irresistibilmente”. Be’, non è questa un’esperienza?
Qui ci occupiamo di esempi in cui, per esprimerci rozzamente, la grammatica di una parola, utilizzata in casi in cui non c’è un passaggio intermedio, pare suggerirci “la necessità” di un certo passaggio intermedio. Quindi siamo portati a dire “prima di obbedire a un ordine, un uomo deve per forza averlo capito”, “prima di poterlo indicare, deve sapere dov’è che il punto che gli fa male”, “prima di poterlo cantare, deve conoscere il brano in questione”.
Poniamoci un’altra domanda: immagina che, per elucidare a qualcuno la parola “rosso” (o il significato della parola “rosso”), tu gli abbia indicato vari oggetti rossi e abbia fornito la spiegazione ostensiva. – Che cosa significa dire “se ha capito il significato, se glielo chiederò mi porterà un oggetto rosso?” Ciò assomiglia a dire: se ha davvero capito cos’hanno in comune gli oggetti che gli ho mostrato, sarà nelle condizioni di eseguire tale ordine. Ma che cos’è che hanno in comune suddetti oggetti?
Potresti dirmi cosa hanno in comune un rosso chiaro e un rosso scuro? Confronta questo con il caso seguente: ti mostro due immagini di due paesaggi diversi. In entrambe le raffigurazioni, tra vari altri oggetti, c’è la figura di un cespuglio, identica nei due casi. Ti chiedo “indica ciò che hanno in comune le due immagini” e a mo’ di risposta tu indichi il cespuglio.
Consideriamo adesso la spiegazione seguente: do a qualcuno due scatole contenenti varie cose e dico “l’oggetto in comune tra le due scatole è chiamato forchettone da pane”. La persona a cui fornisco tale spiegazione deve frugare tra gli oggetti dentro le due scatole fino a trovare quello in comune ed è allora, si direbbe, che giunge alla spiegazione ostensiva. Oppure pensiamo a una spiegazione come questa: “nei due casi che ti mostro vedi macchie di molti colori; il solo colore che trovi in entrambi è il rosa malva”. – In tale esempio ha chiaramente senso dire “se ha visto (o trovato) ciò che hanno in comune le due immagini, adesso sarà in grado di portarmi un oggetto rosa malva”.
C’è questo gioco: dico a qualcuno “ti spiegherò la parola ‘w’ mostrandoti vari oggetti. Ciò che hanno tutti in comune è il significato di ‘w.’ Prima gli mostro due libri e lui si chiede “‘w’ vorrà dire libro?” Io allora accenno a un mattone e lui si dice “forse ‘w’ significa parallelepipedo”. Infine gli indico un carbone ardente e lui si dice “ah, è ‘rosso’ che intende, poiché tutti questi oggetti avevano qualcosa di rosso”. Sarebbe interessante considerare una forma alternativa di questo gioco, in cui l’interlocutore di volta in volta deve disegnare o dipingere ciò che crede che io intenda. Il fascino di questa versione risiede nel fatto che in certi casi, per esempio quando l’altro vede che tutti gli oggetti che gli ho mostrato finora esibiscono un qualche segno distintivo (; ed è proprio tale segno distintivo che lui disegnerebbe), sarebbe assolutamente ovvio che cosa costui debba raffigurare. – D’altra parte, se riconosce che in ciascuno degli oggetti c’è qualcosa di rosso, che cosa dovrebbe dipingere?
Una macchia rossa? Di quale forma e di che tonalità? Qui bisognerebbe stabilire una convenzione, per esempio che disegnare una macchia rossa dai contorni frastagliati non significa che gli oggetti contengono una macchia rossa dai contorni frastagliati bensì qualcosa di rosso.
Se, indicando macchie di varie sfumature di rosso, tu chiedessi a qualcuno “che cos’hanno in comune che te le fa chiamare rosse?”, costui sarebbe portato a dirti “non vedi?” Naturalmente una tale risposta non equivarrebbe al fatto di indicare un elemento in comune.
Ci sono casi in cui l’esperienza insegna che, se qualcuno non ha visto cosa avevano in comune i vari oggetti che gli ho indicato a mo’ di spiegazione di “x”, costui non è in grado di eseguire un ordine, per esempio, della forma di “portami x”. “Vedere che cos’hanno in comune” in certi casi consiste nell’indicarlo, nel lasciare che, dopo un processo di analisi e di confronto, lo sguardo si posi su una macchia colorata, nel dire a se stessi “ah, è rosso che intende” e magari al contempo nel dare un’occhiata a tutte le macchie rosse sui vari oggetti, e avanti così. – Tuttavia ci sono casi in cui non ha luogo nessun processo intermedio paragonabile a suddetto “vedere cos’hanno in comune” e in cui ci serviamo ancora di tale espressione, anche se qui bisognerebbe affermare “se dopo che gli ho mostrato queste cose, lui mi porta qualcos’altro di rosso, allora dovrò dire che ha scorto l’elemento comune tra gli oggetti che gli ho mostrato”. Eseguire l’ordine è ora il criterio per stabilire se il soggetto ha compreso o meno.
((Dopo aver cominciato, Wittgenstein riprende la dettatura formale.))
“Perché chiamiamo ‘sforzo’ tutte queste esperienze?” – “Perché hanno un qualche elemento in comune”. – “Che cos’è che hanno in comune lo sforzo fisico e quello mentale?” – “Non lo so, ma ovviamente una somiglianza dev’esserci”.
Allora perché hai detto che le due esperienze hanno qualcosa in comune? Tale espressione non si limitava a paragonare il caso presente con quelli in cui per prima cosa abbiamo detto che due esperienze hanno qualcosa in comune? (Quindi potremmo sostenere che alcune esperienze di gioia e di paura sono accomunate dalla sensazione del batticuore). Ma quando hai detto che le due esperienze di sforzo avevano qualcosa in comune, si trattava di un’espressione lievemente diversa per affermare che erano simili: dunque asserire che la somiglianza consisteva nella presenza di un elemento comune non era una spiegazione.
Inoltre diremo che nel paragonare le due esperienze hai provato un senso di somiglianza e che è questo che ti ha fatto utilizzare la stessa parola per entrambi? Se affermi di provare un senso di somiglianza, allora in merito ti faremo qualche domanda:
Potresti dire se la sensazione era localizzata qui o lì?
Quando di preciso hai provato questa sensazione? In realtà ciò che chiamiamo confrontare le due esperienze è un’attività piuttosto complessa: forse hai evocato le due esperienze nella tua mente e sia l’immaginare uno sforzo fisico sia l’immaginare uno sforzo mentale consisteva di per sé nell’immaginare un processo e non uno stato uniforme nel tempo. Poi chiediti a che punto, nel corso di un simile processo, hai provato una sensazione di somiglianza.
“Se non disponessi dell’esperienza della loro somiglianza, di sicuro non direi che sono simili”. – Ma tale esperienza dev’essere per forza qualche cosa che chiami una sensazione? Immagina per un attimo che si tratti dell’esperienza del venirti in mente della parola “simile”. La chiameresti una sensazione?
“Ma non ci sono sensazioni di somiglianza?” Io credo che ci siano sensazioni che si potrebbero chiamare sensazioni di somiglianza. Se però tu “ti accorgi della somiglianza”, non percepisci costantemente una simile sensazione. Considera alcune delle varie esperienze che provi nel percepirla.
a) C’è un tipo di esperienza che potremmo chiamare non essere quasi in grado di distinguere. Vedi per esempio due lunghezze, due colori, quasi esattamente identici. Ma se mi chiedessi “questa esperienza consiste in una sensazione specifica?”, dovrei dire che certamente non è caratterizzata da nessuna sensazione simile da sola, che la parte più importante dell’esperienza consiste nel lasciar oscillare lo sguardo tra i due oggetti, fissando attentamente ora l’uno ora l’altro, magari pronunciando parole che esprimono dubbio, scuotendo la testa, ecc., ecc. Si direbbe che tra queste molteplici esperienze non rimane quasi nessuno spazio per una sensazione di somiglianza.
b) Confronta questo caso con quello in cui è impossibile fare fatica a distinguere i due oggetti. Supponiamo che io dica “in questa aiuola, per evitare un contrasto stridente, preferisco avere due tipi di fiori di colori simili”. L’esperienza qui la si può descrivere come uno spostare agevolmente lo sguardo dall’uno all’altro.
c) Ascolto la variazione di un tema e dico “per il momento non vedo come possa trattarsi di una variazione dello stesso tema, ma noto una certa somiglianza”. Ciò che è accaduto è che in certi punti della variazione, in certi cambi di tonalità, ho avuto l’esperienza di “sapere dove mi trovavo nel tema”. Tale esperienza sarebbe potuta consistere anche nell’immaginare certe figure del tema o nel vederle scritte nella mente o nell’indicarle effettivamente sullo spartito, ecc.
“Quando però due colori sono simili, l’esperienza della somiglianza dovrebbe certamente consistere nel fatto di accorgersi della somiglianza esistente tra i due”. – Ma un verde bluastro è simile oppure no a un verde giallino? In certi casi diremmo che sono simili e in altri diremmo che sono del tutto dissimili. Sarebbe corretto dire che nei due casi abbiamo considerato relazioni diverse tra i due colori? Immagina che io abbia osservato un processo in cui un verde bluastro lentamente si trasforma in verde puro, in verde giallino, poi in giallo, infine in arancione. Dico “ci vuole poco a passare dal verde bluastro al verde giallino, perché questi due colori sono simili”. - Ma per affermare una cosa simile, non devi per forza aver avuto una qualche esperienza di somiglianza? – L’esperienza può ridursi a questo, cioè al fatto di scorgere i due colori e di dire che sono entrambi verdi. Oppure può consistere nel vedere un nastro il cui colore cambia da un estremo all’altro e nell’avere alcune delle esperienze che si potrebbero chiamare accorgersi di quanto siano vicini, rispetto al verde bluastro e all’arancione, il verde bluastro e il verde giallino.
Ci serviamo del termine “simile” in un’enorme famiglia di casi.
Nel dire che utilizziamo la parola “sforzo” sia per lo sforzo fisico sia per quello mentale, perché tra i due esiste una somiglianza, c’è qualcosa di notevole. Dovremmo dire che impieghiamo la parola “blu” tanto per il blu chiaro che per il blu scuro perché tra di loro c’è una somiglianza? Se ti chiedessero “perché questo lo chiami blu?” tu diresti “perché anche questo è blu”.
Si potrebbe suggerire che la spiegazione è che in questo caso chiami “blu” ciò che i due colori hanno in comune e che se tu chiamassi “sforzo” ciò che hanno in comune le due esperienze di sforzo sarebbe stato sbagliato sostenere “le chiamo entrambe ‘sforzo’ perché tra di loro c’è una qualche somiglianza”, ma che invece avresti dovuto dire “nei due casi mi servo della parola ‘sforzo’ perché in entrambi è presente uno sforzo”.
Allora cosa dovremmo rispondere alla domanda “cos’hanno in comune il blu chiaro e il blu scuro?” Di primo acchito la risposta pare ovvia: “sono due sfumature di blu”. Questa però è una tautologia. Chiediamoci quindi “cos’hanno in comune questi due colori che sto indicando?” (Immagina che uno sia blu chiaro, l’altro blu scuro). Qui bisognerebbe rispondere “non so a quale gioco tu stia giocando”. Se devo dire oppure no che hanno qualcosa in comune, e che cosa nello specifico hanno in comune, dipende dal tipo di gioco in corso.
Immagina il gioco seguente: A mostra a B varie macchie di colore e gli chiede che cos’hanno in comune. B deve rispondere indicando un particolare colore primario. Quindi se A indica rosa e arancio, B deve indicare il rosso magenta. Se A indica due sfumature di blu verdognolo, B deve indicare il verde puro e il cobalto, ecc. Se in gioco simile A mostrasse a B un blu chiaro e un blu scuro e gli chiedesse che cos’hanno in comune, la risposta sarebbe ovvia. Se gli indicasse il rosso magenta e il verde puro, la risposta sarebbe che non hanno nulla in comune. Potrei però immaginare facilmente delle circostanze in cui dovremmo dire che hanno qualcosa in comune e asserire senza esitare di che cosa si tratta: immagina un uso linguistico (una cultura) in cui il verde e il rosso hanno lo stesso nome, e anche giallo e il blu. Poniamo per esempio che ci siano due caste, quella nobile che indossa abiti rossi e verdi, quella plebea vestita sempre in blu e in giallo. Al giallo e al blu ci si riferirebbe solo in quanto colori plebei, al verde e al rosso solo in quanto colori nobili. Se gli si chiedesse cos’hanno in comune una macchia rossa e una macchia verde, senza esitare un membro della tribù risponderebbe che si tratta di colori nobili.
Si potrebbe anche immaginare facilmente un linguaggio (quindi, come già detto, una cultura) sprovvisto di un’espressione comune per il blu chiaro e il blu scuro e nel quale per esempio il primo lo si chiama “Cambridge” e il secondo “Oxford”. Se chiedi a un membro della tribù cos’hanno in comune Cambridge e Oxford, lui sarebbe portato a risponderti “niente”.
Paragona questo gioco con il seguente. Si mostrano a B certe immagini, combinazioni di macchie colorate. Quando gli si chiede cos’hanno in comune tali immagini, se per esempio in entrambe è presente una macchia rossa, lui deve indicare un campione di rosso, oppure indicare il verde se in entrambe c’è una macchia verde, ecc. Ciò mostra in quali modi diversi può venir impiegata questa stessa risposta.
Considera una spiegazione come “con ‘blu’ intendo ciò che hanno in comune questi due colori”. – Non è possibile che qualcuno una spiegazione del genere la capisca? Per esempio gli si chiederebbe di portare un altro oggetto blu e lui eseguirebbe l’ordine nella maniera corretta. Magari però porterà un oggetto rosso e noi allora diremo “sembra notare una qualche somiglianza tra i campioni che gli abbiamo mostrato e questa cosa rossa”.
Osserva: certi individui, quando gli chiediamo di intonare la nota che gli suoniamo con il pianoforte, cantano la quinta della nota in questione. Ciò ci rende agevole immaginare che un certo linguaggio possa disporre di un solo nome per una nota e la sua quinta. Invece ci metterebbe in imbarazzo dover rispondere alla domanda seguente: cos’hanno in comune una nota e la sua quinta? Perché di certo la frase “hanno in comune una certa affinità” non è una risposta.
Uno dei nostri compiti qui è fornire un’immagine della grammatica (dell’impiego) della parola “un certo”.
Dire che ci serviamo della parola “blu” per indicare “ciò che hanno in comune tutte queste tinte” in sé equivale semplicemente a dire che utilizziamo il termine “blu” in tutti i suddetti casi.
L’espressione “lui vede cos’hanno in comune tutte queste tinte” può riferirsi a un vasto insieme di fenomeni diversi, ovverosia fenomeni di vario genere sono impiegati come criteri per “lui vede che…” O tutto quel che accade può essere che, quando gli si chiede di portare un’altra tinta di blu, il soggetto esegue l’ordine in maniera soddisfacente. Oppure, quando gli mostriamo diversi campioni di blu, una macchia blu cobalto gli appare nell’occhio della mente: oppure costui volta istintivamente la testa verso qualche altra sfumatura di blu che non gli abbiamo mostrato, servendosene a mo’ di campione, ecc. ecc.
Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono esempi di questo tipo in cui non dovremmo avere dubbi sulla risposta.
Considera il caso seguente: abbiamo insegnato a qualcuno l’uso delle espressioni “più scuro” e “più chiaro”. Costui sarebbe in grado, per esempio, di eseguire ordini quali “dipingimi una macchia di colore più scura di quella che ti mostro”. Immagina che io gli dica: “ascolta le cinque vocali a, e, i, o, u e mettile in ordine dalla più chiara alla più scura”. Lui può rimanere perplesso e non fare nulla, ma può anche (e alcuni al suo posto lo farebbero) disporre le vocali in un certo ordine (i, e, a, o, u, di solito). Si potrebbe suppore che ordinare le vocali per oscurità presupponga il fatto che sentir pronunciare una vocale sia comparso un certo colore nella mente del soggetto, che poi ha organizzato suddetti colori in ordine di oscurità e ti ha comunicato la disposizione corrispondente delle vocali. Questo però non è necessario che accada. Qualcuno eseguirà il comando “metti le vocali in ordine di oscurità” senza veder comparire nessun colore nell’occhio della mente.
Se a quest’ultimo individuo si chiedesse se la u era “davvero” più scura della e, lui quasi certamente fornirebbe una risposta analoga a “non è che sia proprio più scura, ma in qualche modo mi dà un’impressione di maggiore oscurità”.
E se però gli chiedessimo “in questo caso che cosa ti ha portato a servirti della parola ‘scuro?’”
Di nuovo potremmo arrivare ad affermare “deve aver visto qualcosa di comune tra la relazione fra i due colori e la relazione fra le due vocali”. Se però costui non è in grado di specificare tale elemento comune, a noi rimane il fatto che in entrambi i casi è stato indotto a impiegare le espressioni “più scura”, “più chiara”.
In “deve aver visto qualcosa…” nota la presenza del termine “deve”. Quando ti sei espresso così, non intendevi affermare che sulla base di esperienze pregresse concludi che probabilmente lui ha davvero visto qualcosa ed è per questo che tale frase non aggiunge nulla a ciò che sappiamo ma in realtà si limita suggerire altre parole per descriverlo.
Se qualcuno dicesse: “vedo una certa somiglianza, solo che non riesco a descriverla”, io risponderei “questo è sufficiente a caratterizzare la tua esperienza”.
Immagina di guardare due visi e dire “sono simili, ma non so che cos’hanno di simile”. Immagina di aggiungere dopo qualche minuto: “adesso lo so; è la forma degli occhi”, io poi ti risponderei “ora la tua esperienza della somiglianza dei due volti è diversa da quando scorgevi sì la somiglianza ma non sapevi in che cosa consistesse”. Tornando alla domanda “che cosa ti ha fatto utilizzare l’espressione ‘più scura…’”, la riposta potrebbe essere “nulla mi ha fatto utilizzare l’espressione ‘più scura…’”, sempre che tu mi abbia chiesto la ragione del mio impiego. Mi sono limitato ad adoperarla e soprattutto l’ho utilizzata con la stessa intonazione e magari perfino con la stessa mimica facciale e lo stesso gesto che in certi casi sarei propenso a impiegare applicando la parola in questione a dei colori. – È più facile rendersene conto quando parliamo di un dolore profondo, di un suono profondo, di un pozzo profondo. Certe persone sanno distinguere tra giorni grassi e giorni magri della settimana. Quando concepiscono un giorno come grasso, la loro esperienza consiste nel servirsi di tale parola, magari accompagnandola con un gesto indicante grassezza e un senso generico di comodità.
Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e solo in seguito possono esprimere tale concezione con parole e gesti.
Come mai però impieghi l’espressione “devono?” In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, ecc.”? Altrimenti, non potrebbe essere stato ciò che chiameremmo un pregiudizio linguistico a farti dire “prima di tutto doveva concepire che…”?
Invece da questo esempio e da altri apprendiamo che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui per parlare di una qualche esperienza legata al concepire bisogna applicare tale parola all’esperienza dell’impiego di certe parole, certi gesti, ecc.
Quando il nostro soggetto ha detto “la u non è davvero più scura della e…”, era essenziale che intendesse affermare che, quando si parlava di una vocale in quanto più scura di un’altra, rispetto a quando invece si definiva un colore più scuro di un altro, l’espressione “più scura” fosse impiegata in un senso diverso.
Considera questo esempio: immagina che abbiamo insegnato a un uomo a servirsi delle parole “verde”, “rosso”, “blu” indicandogli macchie dei suddetti colori. Gli abbiamo insegnato a riportare oggetti di un certo colore in risposta all’ordine “dammi qualcosa di rosso!”, a riordinare oggetti impilati di vari colori, ecc. Immagina che gli mostriamo una pila di foglie, alcune di un marrone lievemente rossiccio, altre di un giallo venato di verde, e che gli ordiniamo “dividi in due pile le foglie rosse e quelle verdi”. È molto probabile che lui eseguirebbe scostando le foglie giallo verdognole da quelle marrone rossicce. Diremo qui di aver impiegato le parole “rosso” e “verde” nello stesso senso dei casi precedenti oppure in un senso simile ma diverso? Che ragioni si potrebbero fornire per adottare il secondo punto di vista? Si potrebbe osservare che, se ci avessero chiesto di dipingere una macchia rossa, di certo non l’avremmo dipinta di un marroncino lievemente rossiccio e perciò si potrebbe dire che “rosso” nei due casi abbia significati diversi. Perché però non dovrei sostenere che in realtà aveva un solo significato, ma ovviamente lo si è utilizzato in base alle circostanze?
La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui una parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che un termine ha due significati, potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono i paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “il termine ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se fornire entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una, dipenderebbe dalle reazioni naturali delle persone che adottano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo, a cui diamo la spiegazione ostensiva “questo è chiamato rosso” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece ci riporta oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso, commisurata a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Diremmo che costui “non scorge cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.
Considera il caso seguente: a B hanno insegnato l’impiego delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno sppiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a eseguire l’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” riportando un oggetto determinato e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, ecc., ecc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine di scurezza. Lui esegue disponendo dei libri in fila, trascrivendo i nomi di certi animali e annotando le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la o è più chiara della u e la e è più chiara della o”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la e non è più chiara della o nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la e è comunque più chiara della o, no?” Saremmo portati a considerare un simile caso come una specie di eccezione e di affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale dispone sia gli oggetti colorati sia le vocali”. Se volessimo rendere tale idea (la nostra) più palese, faremmo così: in un senso analogo a quello in cui si potrebbe dire che registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura, una persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visivi con uno strumento e con un altro strumento registra invece ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali). B allora, vorremmo dire, organizza suoni e colori con uno strumento (senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica registrerebbe raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).
Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa da una persona normale. Adesso invece poniamo accanto a tale raffigurazione il fatto che in questo caso non ci sono prove per “un altro senso”. – E in realtà quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare al fenomeno in questione dopo aver osservato l’immagine tratteggiata nella frase.
“Di sicuro però nel dire che la e era più chiara della u ha impiegato ‘più chiara’ in un senso diverso”. – Che cosa significa? Distingui tra il senso in cui B utilizza l’espressione e l’utilizzo dell’espressione? Quello che vuoi dire, cioè, è che, se qualcuno adopera la parola in un certo modo, ad accompagnare tale differenza nell’impiego deve esserci una qualche diversità, poniamo, nella mente di costui? Oppure dici soltanto che di certo, nell’applicare tale espressione alle vocali, B si è servito di un impiego diverso di “più chiara”?
Ma il fatto che gli usi differiscano è qualcosa in più, di ulteriore, rispetto a ciò che descrivi indicando le differenze specifiche?
E se, accennando alle due macchie che ho chiamato rosse, qualcuno dicesse “di certo stai usando la parola ‘rosso’ in due modi diversi”. Io direi “questo è rosso chiaro e quest’altro è rosso scuro… ma perché dovrei parlare di due usi diversi?” - -
È sicuramente facile indicare le differenze tra la parte del gioco in cui abbiamo applicato “più chiaro” e “più scuro” agli oggetti colorati e quella in cui abbiamo applicato le stesse espressioni alle vocali. Nella prima parte si trattava di confrontare due oggetti avvicinandoli e spostando lo sguardo dall’uno all’altro, si trattava di dipingere una tinta più scura o più chiara del campione dato; nella seconda parte non c’erano paragoni a occhio, nulla di dipinto, ecc. Ma nell’indicare tali differenze siamo ancora liberi di parlare di due parti dello stesso gioco (come abbiamo appena fatto) oppure di due giochi diversi.
“Non percepisco però come la relazione tra un pezzo di materiale più chiaro e uno più scuro sia diversa da quella tra le vocali e e u… mentre vedo che la relazione tra u ed e è la stessa di quella tra e e i.” In certe circostanze saremo portati a parlare in questi casi di relazioni diverse, in altre circostanze di relazioni analoghe. “Dipende da come le confronti” si potrebbe dire.
Chiediamoci “diremo che le frecce → e ← indicano nella stessa direzione o in due direzioni diverse?” - Inizialmente saresti forse propenso a dire “in direzioni diverse, è ovvio”. Considera però il seguente punto di vista: se guardandomi allo specchio osservo il riflesso del mio volto, lo posso considerare un criterio per il fatto di vedere la mia testa. Se invece scorgessi una nuca potrei dire “ciò che vedo non può essere la mia testa, ma una testa che guarda nella direzione opposta”. Ciò dunque potrebbe indurmi a dire che una freccia e il suo riflesso in un vetro, quando si indicano l’un l’altra, vanno nella stessa direzione e, quando invece la testa di una delle due punta verso la coda dell’altra, in due direzioni opposte. Immagina il caso di un uomo a cui abbiano impartito l’uso ordinario dell’espressione “lo stesso” nei casi di “lo stesso colore”, “la stessa forma”, “la stessa lunghezza”. Gli hanno anche insegnato l’impiego dell’espressione “indicare verso” in contesti quali “la freccia indica verso l’albero”. Ora gli mostriamo due frecce puntate l’una verso l’altra, poi due frecce che si inseguono e gli chiediamo in quale dei due casi applicherebbe l’espressione “le frecce indicano nella stessa direzione”. Non è facile immaginare che se nella sua mente certi impieghi fossero predominanti, lui sarebbe propenso a rispondere che le frecce → ← indicano “nella stessa direzione”?
Nel sentire la scala diatonica siamo portati a dire che, dopo ogni sette note, ritorna la stessa nota e se ci chiedessero come mai la chiamiamo la stessa nota si potrebbe rispondere “be’, è di nuovo un do”. Non è questa però la spiegazione che volevo, poiché allora dovrei domandare “che cosa ti porta a chiamarlo di nuovo do?” A questo punto mi pare che la risposta sarebbe “be’, non senti che è la stessa tonalità, solo di un’ottava più alta?” – Anche in tal caso si potrebbe immaginare che a un uomo abbiano insegnato il nostro utilizzo dell’espressione “lo stesso” quando applicata a colori, lunghezze, direzioni ecc. e che adesso gli suoniamo la scala diatonica e gli chiediamo se direbbe di aver sentito le stesse note riproporsi continuamente a certi intervalli; sarebbe facile ipotizzare varie risposte, in particolare, per esempio, quella secondo la quale costui ha sentito la stessa nota alternativamente dopo ogni quartetto o terzetto di note (il nostro soggetto chiama la tonica, la dominante e l’ottava la stessa nota).
Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo un qualche motivo per affermare che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se propendiamo per una risposta affermativa, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure se non è questo che vogliamo asserire.
Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero n maggior del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “addizionare n”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini -, --, ---, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel fornire spiegazioni generiche ed esempi. – Suddetti esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “addiziona 1”. Dopo un po’ notiamo che passato 100 lui ha fatto quello che noi chiameremo addizionare 2; passato 300 quello che chiameremo addizionare 3. Noi lo sgridiamo “non ti ho detto di addizionare 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capite che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi forniti, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) così: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”.
(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto che indica in una direzione, muovendosi nella direzione accennata, bensì in quella contraria. Comprendere qui significa lo stesso di reagire).
“Suppongo che ciò che dici implichi questo, ovvero che, per seguire correttamente la regola ‘addiziona 1’, a ogni passo c’è bisogno di una nuova comprensione o intuizione”. – Ma che cosa significa seguire la regola correttamente? Come e quando bisogna decidere qual è il passo giusto da compiere in un momento specifico? – “Il passo giusto da compiere in ogni momento è quello in accordo con la regola per come è stata intesa, significata. “… con il significato, l’intenzione della regola”. – Immagino che l’idea sia questa: nel dargli la regola “addiziona 1”, e nell’intenderla, tu intendevi che lui scrivesse 101 dopo 100, 199 dopo 198, 1041 dopo 1040 e avanti così. Nel fornirgli la regola però come hai compiuto tutti questi atti di intendere (ne immagino una quantità infinita)? Oppure si tratta di una rappresentazione sbagliata? E diresti che c’è stato un solo atto di intendere, dal quale comunque tutti questi altri, o qualunque altro, sono conseguiti? Ma il punto non è solo “che cosa consegue dalla regola generale?” Tu potresti affermare “di certo nel dargli la regola sapevo di intendere che dopo 100 avrebbe dovuto scrivere 101”. Qui però si è sviati dalla grammatica del termine “sapere”. Sapere ciò era un qualche atto mentale con il quale tu in quel momento hai compiuto la transizione da 100 a 101, per esempio un atto come il dire a te stesso: “voglio che lui scriva 101 dopo 100”? In questo caso chiediti quanti atti simili hai operato nel fornirgli la regola. Oppure intendi l’essere a conoscenza di un qualche tipo di disposizione… in tal caso solo l’esperienza può insegnarci a che cosa fosse atta tale disposizione. – “Certamente però se tu mi avessi chiesto quale numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1568, io ti avrei risposto 1569.” – Suppongo di sì, ma come fai a esserne sicuro? La tua idea è che in qualche modo nell’atto misterioso dell’intendere la regola tu abbia compiuto delle transizioni senza operarle davvero. Ti sei fasciato la testa prima di essertela rotta. Questa strana prospettiva è legata all’utilizzo particolare della parola “intendere”. Immagina che il soggetto sia arrivato a 100, a cui poi faccia seguire 102. In tal caso diremo “intendevo che tu dovessi scrivere 101”. Il tempo passato nella parola “intendere” suggerisce che, quando è stata data la regola, abbia avuto luogo un particolare atto di intendere, anche se in concreto tale espressione non allude ad alcun atto. Si potrebbe spiegare il verbo al passato trasponendo la frase nella forma “se tu prima mi avessi chiesto che cosa volessi che tu facessi a questo punto, io ti avrei detto…” Che tu però in tal caso gli avresti detto così resta comunque un’ipotesi.
Per capire meglio, pensa all’esempio seguente: qualcuno dice “Napoleone è stato incoronato nel 1804”. Io gli chiedo “intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?” Costui risponde “sì, è lui che intendevo”. – Ciò significa che nell’atto di “intendere lui” il soggetto ha in qualche modo pensato a Napoleone in quanto vincitore della battaglia di Austerlitz?
L’espressione “la regola intendeva che dopo 100 scrivesse 101” fa sembrare che la regola in questione, per come la si è concepita, prevedesse tutte le transizioni che si sarebbero dovute compiere seguendola. Ma presuppore il fantasma di una transizione non ci aiuta a procedere, perché non accorcia il divario tra tale spettro e la transizione in sé. Se le semplici parole della regola non potevano anticipare una transizione futura, non poteva farlo nemmeno un atto mentale con cui accompagnare alle parole.
Di continuo ci imbattiamo in questa bizzarra superstizione, come si potrebbe essere portati a chiamarla, secondo la quale l’atto mentale sarebbe in grado di fasciarsi la testa prima di rompersela. Tale intoppo sorge ogniqualvolta proviamo a riflettere su idee come pensare, desiderare, aspettarci, credere, sapere, cercare di risolvere un’equazione matematica, l’induzione matematica, e avanti così.
Non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo in un punto determinato della serie. Ci confonderebbe di meno chiamarla un atto di decisione, anche qui però si tratterebbe di una definizione equivocante, perché non deve avere luogo nulla di simile a una decisione, bensì ipoteticamente solo l’atto di scrivere o di parlare. L’errore che in questo e in migliaia di altri casi siamo propensi a commettere si estrinseca nella parola “fare” per come ce ne siamo serviti nella frase “non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo”, perché sottintende l’idea che “qualcosa debba farci fare” quello che dobbiamo fare. E questo aumenta ulteriormente la confusione tra causa e ragione. Non dobbiamo avere una ragione per seguire la regola nel modo in cui la seguiamo. La catena di ragioni ha un termine.
Adesso confronta le frasi “se dopo 100 scrivi 102, 104, ecc., di sicuro si tratta di un uso diverso della regola ‘addiziona 1’” e “certamente si tratta di un uso diverso dell’espressione ‘più scura’, se dopo averla applicata alle macchie di colore la adoperiamo per le vocali”. – Dovrei replicare: “dipende da che cosa intendi con ‘un uso diverso’”. –
Certamente affermerò di dover chiamare l’applicazione di “più chiara” e “più scura” alle vocali “un altro uso delle parole”; e dovrei continuare la serie “addiziona 1” nella maniera 101, 102, ecc., ma non – o non necessariamente – a causa di qualche altro atto mentale che lo giustifichi.
C’è una sorta di malattia del pensiero che cerca sempre (e lo trova) ciò che chiameremmo uno stato mentale, da cui tutti i nostri atti sprizzano come da un serbatoio. Perciò si dice “la moda cambia perché cambia il gusto della gente”. Il gusto è il serbatoio mentale. Ma se oggi un sarto disegna un abito di taglio diverso da quello che ha disegnato l’anno scorso, ciò che chiamiamo il suo cambio di gusto non può essere consistito, in parte o integralmente, nel limitarsi a disegnare un abito diverso?
A questo punto ribattiamo “ma di certo disegnare una nuova forma in sé non equivale cambiare il proprio gusto – e dire una parola non è lo stesso di intenderla – e dire che credo non equivale a credere; devono esserci sentimenti, atti mentali, ad accompagnare queste frasi e queste parole”. – La ragione che forniamo per tali asserzioni è che sicuramente un uomo sarebbe in grado di disegnare una forma nuova senza cambiare il proprio gusto, dire che crede qualcosa senza crederlo, ecc. Questo ovviamente è vero. Ma non ne consegue che ciò che distingue il caso in cui il mio gusto è cambiato dal caso in cui non è cambiato non possa ridursi in certe circostanze a disegnare ciò che non avevo mai disegnato prima. Non ne consegue nemmeno che nei casi in cui disegnare una nuova forma non è un criterio per stabilire un cambio di gusto, tale criterio debba essere invece un cambiamento in qualche regione particolare della mente.
Ovverosia, non ci serviamo della parola “gusto” come del nome di un sentimento. Pensare invece che sia così significa rappresentare la pratica del nostro linguaggio con una semplificazione indebita. Questo naturalmente è il modo in cui di solito sorgono le perplessità filosofiche; il nostro caso è del tutto analogo all’idea che ogniqualvolta facciamo un’affermazione predicativa asseriamo che il soggetto contiene un certo ingrediente (come accade davvero nel caso di “la birra è alcolica”).
Per esaminare il nostro problema è utile considerare in parallelo con il sentimento o i sentimenti che accompagnano il fatto di avere un certo gusto, o di cambiarlo, o di intendere ciò che si dice, ecc. ecc. le espressioni facciali (mimica o tono di voce) caratterizzanti gli stessi stati di cose. Se qualcuno dovesse obiettare che sentimenti ed espressioni facciali non si possono paragonare, poiché i primi sono esperienze e le seconde no, lo si faccia riflettere sulle esperienze muscolari, cinestetiche e tattili legate ai gesti e alle espressioni facciali.
Pensiamo alla proposizione “credere in qualcosa non può consistere soltanto nel dire che ci credi, lo devi dire con una particolare espressione facciale, gestualità, tono di voce”. È indubbio che consideriamo certe espressioni, gesti, ecc. come caratteristici dell’espressione di credenza. Diciamo “in tono convinto”. Eppure è evidente che suddetto tono convinto non è presente ogniqualvolta si parla giustamente di convinzione. “Infatti” potresti rispondermi tu “ciò mostra che c’è qualcos’altro, qualcosa dietro a questi gesti, ecc. che è la vera credenza, distinta dalle mere espressioni di credenza”. “Niente affatto” ti risponderei, “molti criteri diversi distinguono, in diverse circostanze, casi in cui si crede a ciò che si dice da casi in cui non si crede a ciò che si dice”. Possono esserci casi in cui la presenza di una sensazione diversa da quelle connesse a gesti, al tono di voce, ecc. distingue il fatto di intendere ciò che si dice dal fatto di non intenderlo. Qualche volta però a operare tale distinzione non è qualcosa che succede mentre si parla, ma uno stuolo di azioni ed esperienze di vario genere che accadono sia prima sia dopo.
Per comprendere questa famiglia di casi ci sarà nuovamente d’aiuto considerare un caso analogo preso dall’ambito delle espressioni facciali. Esiste una famiglia di espressioni facciali amichevoli. Immagina che avessimo chiesto “qual è l’elemento che caratterizza un viso amichevole?” All’inizio si potrebbe pensare che ci siano certi tratti che si potrebbero chiamare tratti amichevoli, ognuno dei quali conferisce al volto un certo grado di amichevolezza e che quando presenti in gran quantità rendono un viso amichevole. Tale idea sembra confermata dal nostro linguaggio comune, in cui si parla di “sguardo amichevole”, “sorriso amichevole”, ecc. È facile però vedere che lo stesso sguardo di cui diciamo che rende un volto amichevole, se accompagnato da certe rughe sulla fronte, o da certe linee attorno alla bocca, ecc. non sembra più amichevole né ostile. Perché allora ci viene da dire che è questo sguardo a parerci amichevole? Visto che, se sosteniamo che lo sguardo opera così “in alcune circostanze” (tali circostanze essendo gli altri elementi del viso) è solo perché abbiamo individuato un unico tratto a scapito degli altri, non è quindi sbagliato dire che è tale sguardo a determinare l’amichevolezza del volto? La risposta è che nella grande famiglia delle facce amichevoli c’è quello che potremmo chiamare un ramo principale, caratterizzato da un certo tipo di sguardo, un altro da un certo tipo di sorriso, ecc.; anche se nell’ampia famiglia di facce ostili ci imbattiamo in quello stesso sguardo, quest’ultimo non mitiga l’ostilità dell’espressione. – Bisogna inoltre considerare che, quando si nota l’espressione amichevole di un volto, la nostra attenzione, i nostri occhi, si soffermano su un suo elemento specifico, cioè “lo sguardo amichevole” o “il sorriso amichevole”, ecc. e non invece su altri tratti, che pure sono a loro volta responsabili dell’espressione amichevole.
“Non c’è quindi differenza tra dire qualche cosa e intenderla davvero e dirla senza intenderla?” Non deve esserci per forza una differenza mentre lo si dice, e se esiste, tale differenza potrebbe essere sempre diversa a seconda delle circostanze. Dal fatto che c’è ciò che chiamiamo un’espressione amichevole e un’espressione ostile dello sguardo non ne consegue che debba esserci una differenza tra lo sguardo di una faccia amichevole e lo sguardo di una faccia ostile.
Si sarebbe tentati di affermare “non si può dire che sia il tale tratto a rendere il viso amichevole, perché un altro elemento potrebbe smentirlo”. Ciò equivale ad affermare “dire qualcosa in tono convinto non può essere la caratteristica discriminante della convinzione, poiché in merito delle esperienze future potrebbero smentirti”. Nessuna di queste due frasi però è corretta. È vero che altri tratti facciali potrebbero smorzare l’amichevolezza dello sguardo, eppure in questo volto è proprio lo sguardo l’elemento amichevole più evidente.
Sono espressioni quali “l’ha detto sul serio” a rischiare maggiormente di portarci fuori strada. Confronta il fatto di intendere “non vedo l’ora di vederti” con il fatto di intendere “il treno parte alle 3.30”. Immagina che tu dica la prima frase a qualcuno e che poi ti chiedano “dicevi sul serio?”, in tal caso tu probabilmente penseresti ai sentimenti, alle esperienze che hai provato nell’affermarlo. E di conseguenza saresti portato ad asserire “non ti sei accorto che dicevo sul serio?” Immagina che invece, dopo aver dato a qualcuno l’informazione “il treno parte alle 3.30”, costui ti chieda “dici sul serio?”, a te verrebbe da rispondere “certamente. Perché non avrei dovuto dirlo sul serio?”
Nel primo caso saremo propensi a parlare di un sentimento caratterizzante l’intendere ciò che si dice, ma non nel secondo. Confronta anche cosa comporterebbe, nei due casi, il fatto di mentire. Nel primo diremo che la bugia è consistita nel dire ciò che abbiamo detto senza i sentimenti appropriati o addirittura provando il sentimento opposto. Se invece avessimo mentito nel dare informazioni sul treno, è probabile che parlando avremmo avuto esperienze diverse rispetto a quelle che avremmo avuto fornendo informazioni veritiere, ma la differenza qui non starebbe nell’assenza di un sentimento caratteristico bensì forse nella presenza di una sensazione di disagio.
È addirittura possibile mentire e avere al contempo un’esperienza netta di ciò che potremmo chiamare la caratterizzazione dell’intendere ciò che si dice… eppure in certe circostanze, e magari in circostanze ordinarie, affermando “dicevo sul serio” è proprio a una tale esperienza che ci si riferisce, poiché i casi in cui qualcosa potrebbe svelare il carattere menzognero di tali esperienze non vengono nemmeno presi in considerazione. In molti casi allora siamo propensi ad affermare che “dico sul serio” significa avere, mentre lo si dice, la tale-o-tal-altra esperienza.
Se per “credere” intendiamo una qualche attività, un processo avente luogo mentre affermiamo di credere, diremmo che credere è simile o equivalente a esprimere una credenza.
Obiezione interessante in proposito: poniamo che io dica “credo che pioverà” (e lo intenda davvero) e si voglia spiegare a un francese che non sa l’italiano che cosa ho creduto. Allora, affermeresti, se tutto quello che è accaduto mentre credevo ciò che credevo si riduce al fatto che ho pronunciato la frase, se gli si spiegassero tutte le parole che ho impiegato oppure gliele si traducessero con “il croit ‘pioverà’”, il francese dovrebbe comprendere. È evidente però che questo non gli illustrerebbe ciò che credo e di conseguenza, si potrebbe dire, non saremmo riusciti a comunicargli l’essenziale, cioè il mio vero e proprio atto mentale di credere. – Ma la risposta è che, anche se ad accompagnare le mie parole ci fosse stata tutta una serie di esperienze, e se queste esperienze avessimo potute trasmetterle al francese, ciononostante lui non avrebbe saputo che cosa io credevo. Perché “sapere quello che credo” non significa soltanto: provare ciò che provo io nel dirlo; proprio come sapere con quale intenzione ho fatto questa mossa nel gioco degli scacchi non significa conoscere il mio esatto stato mentale mentre la compio. Al contempo però, in certi casi, conoscere il mio stato mentale ti fornirebbe tutte le informazioni possibili sulla mia intenzione.
Diremo che per spiegare al francese che cosa credevo avremmo dovuto tradurgli le mie parole in francese. Non si può escludere che così facendo non gli avremmo detto nulla – neppure indirettamente – su ciò che, mentre esprimevo tale credenza, è accaduto “dentro di me”. Invece gli avremmo indicato una frase che nel suo linguaggio occupa una posizione simile a quella della mia frase nella lingua italiana. – Comunque si potrebbe dire che, almeno in certi casi, se lui fosse stato a suo agio con la lingua italiana, avremmo potuto spiegargli con esattezza molto maggiore ciò che credevo, poiché in tal caso lui avrebbe saputo precisamente che cosa accadeva in me mentre dicevo la tal cosa.
Impieghiamo le parole “significare”, “credere”, “intendere” in modo che si riferiscano a certi atti o stati mentali in circostanze determinate; come con l’espressione “farti scacco matto” ci riferiamo all’atto di mangiare il re. Se però qualcuno, per esempio un bambino intento a cincischiare con i pezzi degli scacchi, ne mettesse alcuni sulla scacchiera e compisse il gesto di sbarazzarsi del re, non diremo che ha fatto scacco matto. Anche qui si potrebbe pensare che ciò che distingue un caso simile da un vero scacco matto è quanto ha avuto luogo nella mente del bambino.
Immagina che io abbia compiuto una mossa a scacchi e mi si chieda “intendevi fargli scacco matto?” Rispondo “sì” e allora mi domandano “come facevi a saperlo, se tutto ciò che sapevi era quel che accadeva dentro di te mentre facevi la mossa?” Io risponderei “in queste circostanze ciò equivaleva all’intenzione di fargli scacco matto”.
Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non ci fosse la coppia di verbi “parlare”: :“pensare” e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.
Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, ecc., tutti fattori che chiameremmo mezzi di espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mezzi di espressività come il gioco della mimica facciale o dei gesti, e che possono essere considerati accompagnamenti del discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.
Torniamo all’esempio sull’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due impieghi diversi è la seguente: “non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una vaga somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari o più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine di oscurità”. Nel pronunciare tale frase, dovrei di certo adoperare un tono diverso rispetto a quello che impiegherei nel dire “disponi questi libri dal più chiaro al più scuro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero tu riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
Ciò mi porta al punto successivo: quando mi si chiede “di che colore è quel libro?”, io rispondo “rosso” e poi mi si domanda “che cosa ti ha portato a chiamare ‘rosso’ tale colore?”, nella maggior parte dei casi io dovrei rispondere “nulla mi porta a chiamarlo rosso; cioè nessuna ragione. L’ho soltanto guardato e ho detto ‘è rosso.’” Allora si è propensi a dire “di sicuro non è successo soltanto questo; perché io potrei guardare un colore, pronunciare una parola e non nominare comunque il colore”. Poi si si sarebbe tentati di proseguire “quando la pronunciamo per nominare il colore che abbiamo davanti, la parola ‘rosso’ arriva in una maniera particolare”. Se però ci dicessero “descrivi questa particolare maniera” noi non ci sentiremmo preparati a fornire alcuna descrizione. Immagina che chiedessimo “tu, in ogni caso, ricordi che, ogniqualvolta in passato hai nominato un qualche colore, il nome del colore ti è arrivato in quella maniera particolare?” – L’’interlocutore sarebbe costretto ad ammettere che non ricorda il modo specifico in cui ciò si è verificato in ciascuno dei casi. Infatti si potrebbe facilmente mostrargli l’atto di nominare un colore insieme a tutta una serie di esperienze diverse. Paragona casi come i seguenti: a) metto un ferro nel fuoco per riscaldarlo finché la temperatura lo fa diventare rosso chiaro. Ti chiedo di guardare il ferro e voglio che tu mi dica di volta in volta quale stadio di calore ha raggiunto. Tu osservi e dici “comincia a farsi rosso chiaro”. b) Siamo a un incrocio di strade e io dico “aspetta che diventi rosso. Quando arriva, avvertimi che attraverso”. Poniti la domanda: se in un caso gridi “verde!” e in un altro “corri!”, queste due parole ti giungono nello stesso modo o in modi diversi? A riguardo puoi dire qualcosa in termini generici? c) Ti chiedo “qual è il colore del pezzo di materiale che tieni in mano?” (e che io non riesco a vedere). Tu pensi “com’è che si chiama questo? ‘Blu di Prussia’ o ‘indaco?’”
È estremamente degno di nota che, quando durante una conversazione filosofica diciamo “il nome di un colore ci giunge in una maniera particolare”, non ci preoccupiamo di pensare ai molti casi e modi diversi in cui tale nome ci giunge. - La nostra tesi principale è che l’atto di nominare è diverso dall’atto di pronunciare una parola in un’altra occasione in cui si guarda un colore. Quindi diremmo: “immagina che abbiamo contato degli oggetti posati su un tavolo, uno blu, uno rosso, uno bianco, uno nero… osservandoli uno dopo l’altro diciamo ‘uno, due, tre, quattro.’ Non è piuttosto facile rendersi conto che in questo caso, mentre pronunciamo le parole, accade qualcosa di diverso rispetto a ciò che succederebbe se dovessimo comunicare a qualcuno il colore degli oggetti? E non potremmo, con lo stesso diritto di prima, aver affermato ‘quando diciamo i numerali non succede nulla di più del fatto che li diciamo nel guardare l’oggetto’?” A ciò si può rispondere in due modi: primo, indubbiamente, perlomeno nella stragrande maggioranza dei casi, l’atto di contare gli oggetti sarà accompagnato da esperienze diverse da quelle che accompagnano l’atto di nominare i colori. Sarebbe agevole abbozzare una descrizione di tale differenza. Nel contare conosciamo un certo gesto, che consiste nello scandire il numero battendo il dito sul tavolo o nell’annuire con la testa. Nell’altro caso c’è invece un’esperienza che si potrebbe chiamare “concentrare la propria attenzione sul colore”, farsene un’impressione complessiva. Questo è il genere di cose a cui si fa riferimento dicendo “è facile scorgere che, rispetto a quando nominiamo i colori, nell’atto di contare gli oggetti accade qualcosa di diverso”. Ma non è affatto necessario che, mentre contiamo, abbiano luogo certe esperienze più o meno caratteristiche del contare e neppure che quando guardando l’oggetto ne nominiamo il colore, si verifichi il fenomeno particolare dell’atto di fissare tale colore. È vero che i processi rispettivamente del contare quattro oggetti e del nominarne i colori saranno, perlomeno nella maggioranza dei casi, diversi se presi nel loro insieme, ed è questo che ci colpisce; ma ciò non significa affatto che sappiamo che ogni volta, nei due casi in cui da un lato pronunciamo un numerale e nell’altro nominiamo un colore, accade per forza qualcosa di diverso.
Quando filosofiamo su simili argomenti finiamo quasi sempre per compiere operazioni di questo genere: ripetiamo a noi stessi una certa esperienza, per esempio fissiamo un certo oggetto e tentiamo di “leggervi scritto”, per così dire, il nome del suo colore. Ed è del tutto naturale che a forza di fare e rifare la stessa prova saremo portati a dire “quando pronuncio la parola ‘blu’, accade qualcosa di specifico”. Perché siamo sempre consapevoli di stare ripetendo continuamente lo stesso processo. Chiediti però: si tratta dello stesso processo che, quando in varie occasioni – non mentre siamo intenti a filosofare – nominiamo il colore di un oggetto, compiamo normalmente?
In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, si direbbe, abbiamo un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confrontalo con l’esempio in cui passo a un uomo, che ho intento a cercare di accendersi la sigaretta, un fiammifero acceso con la mia sigaretta; oppure ancora il caso di muovere la mano per scrivere una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, ecc. per parlare. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, mi sono servito apposta di un’espressione equivocabile. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere dell’intenzionalità. Da questo tipo di esempi sulla volontà si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio e si crede di poterli applicare – magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si potrebbero chiamare casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, ecc. ecc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso inequivocabile di lettura. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione di cui è l’intenzione e nel primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere il caso in questione da quello in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del fatto di ponderare e del fatto di decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli esempi restanti e in infiniti altri che avremmo potuto fare?
D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: costui rimugina “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto si ritrova intento ad alzarsi. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto intenzionale. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto siffatto? Penso che il paradigma dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a confutarla; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di un qualche azione riflessa. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso del palmo che sfiora l’intonaco, se mantenendo l’arto rigido premo le nocche contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano di fretta dalla parete lasciando il braccio molle, tale braccio, senza da parte mia alcuna azione, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di casi in cui sarebbe corretto dire “ritrovo il mio braccio intento a sollevarsi”.
Qui è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso di ritrovare me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa, inoltre non guardo i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira sotto le coperte, magari dicendomi “si sta per alzare?” Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del braccio c’è una differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”.
La descrizione di un risveglio in cui si dice “mi sono semplicemente ritrovato ad alzarmi dal letto” suggerisce che il soggetto intenda di essersi osservato intento ad alzarsi. Senza dubbio si può dire che un atteggiamento di osservazione è in questo caso assente. L’atteggiamento di osservazione però non è uno stato mentale continuo oppure un atto in cui noi, mentre per così dire compiamo l’osservazione, risiediamo per tutto il tempo. Esiste invece una famiglia di insiemi di attività ed esperienze che noi chiamiamo atteggiamenti di osservazione. In parole povere si potrebbe dire che nell’osservazione ci sono elementi di curiosità, di aspettativa, di sorpresa e anche, affermeremo, espressioni facciali e gesti di curiosità, di aspettativa e di sorpresa; e se sei d’accordo che per ognuno di tali casi c’è più di una sola espressione facciale e che possono esserci casi privi di un’espressione facciale caratteristica, ammetterai che a ciascuna delle tre parole corrisponde una famiglia di fenomeni.
Se avessi detto “mentre lo informavo che il treno partiva alle 3.30 e mentre credevo che le cose stessero così, non è accaduto nient’altro oltre al fatto che ho pronunciato la tale frase”, poi qualcuno mi avesse ribattuto “di certo non può ridursi tutto a questo, dato che ci si può ‘limitare a dire una frase’ senza crederci”, io avrei risposto “non volevo dire che tra parlare credendo ciò che si dice e parlare senza credere ciò che si dice non c’è differenza; ma la coppia ‘credere’: :‘non credere’ si riferisce a differenze in casi diversi (le differenze formano una famiglia), non a un’unica differenza, ovvero quella tra la presenza e l’assenza di un certo stato mentale”.
Consideriamo alcune caratteristiche di atti volontari e involontari. Nel caso del sollevamento del carico pesante, le varie esperienze dello sforzo sono naturalmente quelle che caratterizzano in maniera più netta il sollevamento volontario del peso. Confronta invece con quello appena tratteggiato il caso di scrivere volontariamente, qui nella maggioranza dei casi non ci sarà sforzo; anche se abbiamo l’impressione che scrivere stanchi la mano e tenda i muscoli, non si tratta dell’esperienza di “tirare” e “spingere” che noi chiameremmo tipiche azioni volontarie. Paragona inoltre il modo in cui sollevi la mano per alzare un peso dal modo in cui la sollevi, per esempio, per indicare qualcosa sopra di te. Quest’ultimo va certamente annoverato tra gli atti volontari, anche se quasi certamente l’elemento dello sforzo resterà del tutto assente; infatti il sollevare il braccio per indicare un oggetto è molto simile al sollevare un occhio per guardarlo e qui ci riesce quasi impossibile concepire un qualche sforzo. – Descriviamo ora un atto involontario di sollevare il braccio. C’è il caso del nostro esperimento, caratterizzato dall’assenza totale di tensione muscolare e dal nostro atteggiamento di osservazione nei confronti dell’alzarsi del braccio. Abbiamo però appena esaminato un esempio in cui non c’era tensione muscolare e ci sono casi in cui, nonostante il fatto che assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti dell’azione in corso, quest’ultima la chiameremmo volontaria. Ma in un’ampia classe di casi è proprio la specifica impossibilità ad assumere un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione a caratterizzarla in quanto volontaria: prova per esempio, nell’atto di sollevarla volontariamente, a osservare la tua mano alzarsi. Naturalmente, mentre per così dire compi l’esperimento, la vedi alzarsi, ma non riesci a seguirla con gli occhi nello stesso modo. Ciò potrebbe diventare più chiaro se confronti due casi in cui si seguono con gli occhi due linee su un foglio; A) essendo una linea irregolare come questa e B) essendo una frase scritta. Scoprirai che soffermandosi su A) lo sguardo, per così dire, tende continuamente a cadere e a intopparsi e invece nel leggere la frase B) scivola con scorrevolezza.
Adesso prendi in considerazione un caso in cui assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione volontaria, intendo il caso molto istruttivo del disegnare un quadrato con le sue diagonali mettendo uno specchio sul foglio e muovendo la mano assecondando ciò che si vede nello specchio. Qui si è propensi a dire che le nostre vere azioni, quelle a cui la volizione si applica immediatamente, non sono i movimenti della mano ma qualcosa che li precede, come le azioni dei muscoli. Siamo portati a paragonare tale caso con il seguente: immagina di avere davanti una serie di leve, con le quali, per mezzo di un ingranaggio nascosto, dirigi i movimenti di una matita su un foglio. Avremmo quindi dei dubbi su quale leva tirare per produrre i movimenti desiderati della matita e potremmo dire di aver tirato apposta tale leva, pur non volendo d’altronde produrre il risultato sbagliato che ne è conseguito. Nonostante ci si suggerisca da solo facilmente, un simile paragone è foriero di molti equivoci. Perché nel caso in cui ci troviamo di fronte delle leve, prima di tirarne una c’è stato qualcosa come l’atto di decidere quale tirare. Ma la nostra volizione agisce per così dire su una tastiera di muscoli, scegliendo quale sarà il prossimo da utilizzare? – A caratterizzare alcune delle azioni che chiamiamo volontarie è il fatto che, in qualche modo, “sappiamo cosa stiamo per fare” prima di farlo. In questo senso diciamo di sapere qual è l’oggetto che indicheremo e quello che chiameremmo “l’atto di sapere” potrebbe consistere nel guardare l’oggetto prima di indicarlo e nel descrivere la sua posizione con parole o immagini. Potremmo descrivere il processo di disegnare il quadrato guardando lo specchio dicendo che i nostri atti erano intenzionali per quanto riguarda l’aspetto motorio ma non per quanto concerne l’aspetto visivo. In quanto prova di tale affermazione, per esempio, potremmo indicare la nostra abilità di ripetere a comando un movimento della mano che ha generato un risultato sbagliato. Ovviamente però sarebbe assurdo dire che il carattere motorio di questo movimento volontario consisteva nel fatto che prima sapevamo ciò che avremo fatto, come se avessimo avuto nella mente un’immagine della sensazione cinestetica e avessimo deciso di generare tale sensazione. Ricorda l’esperimento p. 62; se qui, invece di indicare da lontano il dito che ordini al soggetto di muovere, glielo tocchi, costui lo muoverà sempre senza alcuna difficoltà. Qui si è tentati di dire “certo che ora lo posso muovere, perché adesso so quale dito mi è stato chiesto di muovere”. Questo ci dà l’idea che adesso io ti abbia mostrato che muscolo contrarre per causare il risultato desiderato. La parola “certo” dà l’impressione che, toccandoti il dito io, ti abbia fornito un’unità di informazione per dirti cosa fare. (Come se di solito, quando dici a un uomo di muovere il tale dito, lui potesse eseguire l’ordine perché sa come causare suddetto movimento).
(Qui è interessante pensare al caso in cui succhia un liquido da un tubo; se ti chiedessero con quale parte del corpo hai succhiato, tu saresti propenso a dire la bocca, ma in realtà si è trattato degli stessi muscoli che impieghi per respirare).
Chiediamoci ora cosa dovremmo chiamare “parlare in maniera involontaria”. Innanzitutto osserva che di norma quando ti esprimi volontariamente poi faticheresti molto a descrivere l’accaduto dicendo che con un atto di volizione hai mosso la bocca, la lingua, la laringe, ecc. in quanto mezzi per produrre certi suoni. Qualunque cosa accada nella tua bocca, laringe, ecc. e qualunque sensazione tu parlando sperimenti in tali zone, sembrerebbe trattarsi quasi di un fenomeno secondario che accompagna la produzione dei suoni e la volizione, vorremmo dire, opera sui suoni stessi senza meccanismi intermedi. Ciò mostra la vaghezza della nostra idea di tale “volizione” attiva.
Passiamo al parlare in modo involontario. Immagina di dover descrivere un esempio del genere… come faresti? C’è ovviamente il caso del parlare nel sonno; qui la caratteristica saliente è che, mentre accade, non ne sai nulla e in seguito non ti ricordi niente. Di certo però questa non la chiameresti la caratterizzazione di un’azione involontaria.
Un esempio migliore di discorso involontario immagino che possa essere quello delle esclamazioni involontarie: “oh!”, “aiuto!” e simili; tali enunciazioni sono analoghe a gemiti di dolore. (Ciò per esempio potrebbe farci riflettere “sulle parole in quanto espressioni emotive”). Si potrebbe dire “di certo questi sono dei buoni esempi di discorso involontario, perché non solo in suddetti casi non c’è un atto di volizione tramite cui parliamo, ma in molte circostanze siffatte parole le pronunciamo contro la nostra volontà”. Io direi: certamente ciò lo chiamerei parlare in maniera involontaria; concordo anche sull’assenza di un atto di volizione che preceda o accompagni tali parole… se per “atto di volizione” tu intendi certi atti di intenzione, premeditazione o sforzo. Eppure in molti casi di discorso volontario io non percepisco alcuno sforzo, molto di quello che dico volontariamente non è premeditato e non conosco nessun atto di intenzione che preceda le mie enunciazioni.
Urlare di dolore contro la propria volontà lo si potrebbe paragonare a sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno, pungolandoci con una pistola tra le costole e ordinando “mani in alto!”, ci costringesse a sollevare le braccia.
Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, in parte appartenenti al tuo idioma natio, in parte a lingue straniere a te più o meno familiari, in parte a linguaggi che ti sono completamente sconosciuti (oppure –in fondo qui è lo stesso – termini senza senso inventati apposta.) Alcune delle parole della mia madrelingua sono ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo” sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime imparate da un bambino, e alcune di queste, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici quali “carburatore”, “dinamo”, “fuso”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette e dopo ognuna io, a seconda del fatto che la capisco oppure no, devo dire “sì” o “no”. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso i termini che ho compreso e quando non ho capito le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostra una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non porterà alla luce nessuna esperienza che saremo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze simili a queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo”. Oppure sento “corroborazione”… dico a me stesso “vediamo un po’”, mi sovviene il vago ricordo di un caso inerente e dico “sì”. Sento “aggeggio”, immagino l’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo… “sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di rintracciarne il significato per etimologia, ma non ci riesco e affermo “no”. In un altro caso dire a me stesso “sembra cinese… no”. ecc. D’altra parte ci sarà una grande varietà di casi in cui, oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta, non sarò consapevole di altro. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non avevano assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci sarà una classe che potremmo chiamare esperienze tipiche del capire ed esperienze tipiche del non capire. In contrasto con tale classe di casi ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrò dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.
Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo “sì” tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’, qualcosa è accaduto”, sarei portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento grezzo?” Tuttavia, quando sento o impiego tale parola, provo sempre il sentimento a cui mi riferivo, rammento di averlo sempre provato, mi ricordo addirittura una serie di, poniamo, cinque sensazioni, alcune delle quali ho sperimentato in ciascuna delle occasioni in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento grezzo” appena menzionato non è un’esperienza caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero dell’atto di filosofare sul “capire?”
Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare “sì” o “no” esperienze caratterizzanti il fatto di capire o il fatto di non capire, ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? Ci troviamo qui in una difficoltà bizzarra: da un lato sembriamo non avere ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze – ha luogo. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato affermare che in un tale sempio tutto ciò che succede è che sento o dico la parola in questione. Perché così parrebbe che stia affermando che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso ciò è vero e in un altro senso ciò è falso.
Se qualcuno mi parlasse con una mimica facciale gentile, è necessario che in qualsiasi intervallo di tempo il suo viso debba mostrarsi in modo tale che vendendolo in qualunque altra circostanza io dovrei chiamarlo un viso dall’espressione inequivocabilmente gentile? Altrimenti significa che a interrompere tale “mimica facciale gentile” ci sono stati dei momenti di inespressività? – Certamente nelle circostanze che ho presupposto non bisognerebbe affermare ciò e noi non abbiamo l’impressione che l’apparenza del viso in questo preciso istante, che pure presa da sola sarebbe da considerarsi inespressiva, interrompa la sua espressività complessiva.
Analogamente, con la locuzione “capire una parola” non per forza ci riferiamo a ciò che succede mentre la diciamo o la sentiamo pronunciare, ma al contesto complessivo dell’evento della sua enunciazione. Ciò si applica anche all’asserire che qualcuno parla come un automa o un pappagallo. Parlare comprendendo ciò che si dice è sicuramente diverso dal parlare come un automa, ma ciò non significa che parlare nel primo caso sia sempre accompagnato da qualcosa che invece manca nel secondo caso. Proprio come, quando diciamo che due persone si muovono seguendo diversi percorsi circolari, non significa che per strada non possano incrociarsi.
E quindi in molti casi agire in maniera volontaria (o involontaria), piuttosto che per un’esperienza che chiameremo caratteristica di un’azione volontaria, si caratterizza in quanto tale per via di un vasto numero di circostanze in cui l’azione ha luogo. In questo senso è vera l’affermazione secondo la quale ciò che è successo quando mi sono alzato dal letto – negli esempi in cui certamente non lo chiamerò un atto involontario – è che mi sono ritrovato intento ad alzarmi. O meglio che questo è un caso possibile, poiché naturalmente ogni giorno succede qualcosa di diverso.
I problemi di cui discutiamo da ) erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando riconosciamo il colore come rosso la parola “rosso” ci arriva in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza.
L’impiego della parola “particolare” è atta a produrre una specie di delusione e in termini approssimativi tale delusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, affermeremmo, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare enfasi. Il primo impiego lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato asserisco “questo viso mi procura un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “il tale volto mi dà una forte impressione”. Questi esempi riuscirebbero più notevoli se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché a quest’ultima possiamo applicare le stesse osservazioni. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere impiegata semplicemente alla stregua di un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ti dirò di cosa sa questo sapone…”. Se invece dico “questo sapone ha un odore peculiare” oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” significa un’espressione come “fuori dal comune”, “straordinario”, “degno di nota”.
Potremmo domandare “intendevi che ha un odore peculiare per distinguerlo da un sapone neutro, oppure che aveva questo odore, diverso da qualche altro odore, oppure intendevi entrambe le cose?” – Ora di cosa si è trattato quando filosofando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso e ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare? Stavo per descrivere il modo in cui mi è sovvenuta la parola “rosso”, come per affermare “quando conto degli oggetti colorati, mi viene sempre più in fretta della parola due” oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi giunge in una maniera notevole? No, non è esattamente nemmeno questo. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati durante un’attività qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e, nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”, di’ a te stesso “ora mi trovo in un atteggiamento particolare”. Scoprirai di poterlo asserire in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in un atteggiamento particolare? E di certo non intendevi affermare che proprio allora ti trovavi in atteggiamento particolarmente degno di nota. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato, come è stato osservato, sulle tue sensazioni. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” Tu magari intendevi così, ma l’espressione “mi giungono in modi diversi” è in sé passibile di malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così le loro maniere di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto cercando di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in maniere diverse e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari affermeresti “certo che arrivano in modi diversi; sono semplicemente diversi”. – Si potrebbe descrivere il problema dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo decidere quale utilizzo farne, anzi senza avere alcuna intenzione di impiegarla in alcun modo. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho la sensazione di poter dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome come “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco in tale modo quello in cui in simili occasioni “rosso” mi si è sempre presentato alla mente, nemmeno per sostenere che ci sono, poniamo, quattro modi, per esempio A, B, C, D, in uno dei quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui giungono “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” quale nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il tuo sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui giungono tali parole” indipendentemente dai rispettivi modi di impiego… ovvero dai modi appena descritti. Volevi dire che nell’esperienza, quando utilizzata in questo modo, la parola viene sempre nel modo A, ma la prossima volta può giungere invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi affermare nulla del genere.
Ciò che è particolare nel modo in cui “rosso” ti si presenta è che arriva mentre tu stai filosofando su di esso, proprio come, quanto ti sei concentrato, quel che era particolare nella posizione del tuo corpo era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun’altra modalità. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se l’enfasi fosse davvero un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza” e se mi si chiede “che modo è?” risponderei “prima di entrare, sporge sempre la testa nella porta”. Qui mi riferisco a un elemento definito e potrei dire che B adotta la stessa maniera o che A invece non la adotta più. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire descrizioni di un qualche elemento specifico del suo atteggiamento e la mia frase potrebbe significare solo “sto osservando A che è seduto e fuma”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo dovrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, questo modo” e magari la si potrebbe accompagnare con un abbozzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. Invece la mia espressione “ha un modo particolare…” la si potrebbe tradurre semplicemente in “sto studiando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la proposizione; nella forma originaria sembrava descrivere un circolo vizioso, ovvero la parola “particolare” qui pare essere impiegata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, ovverosia guardiamo al suo utilizzo come a un caso specifico dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in questo modo” piuttosto che “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione ha fatto sembrare che stessi indicando qualcosa sul suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui è arrivata la parola “rosso”, mentre invece ciò che mi porta a impiegare la parola “particolare” qui è il fatto che il mio atteggiamento nei confronti del fenomeno che sto enfatizzando è: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc.
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa riflettendo su problemi filosofici. Molti intoppi sorgono in tale modo, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo per poi spiegarlo, quando il termine è impiegato intransitivamente, ricorrendo a una costruzione riflessiva.
Quindi diciamo “con ‘kilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua”, “con ‘A’ intendo ‘B’”, dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “ho detto che ero malato e lo intendevo”. Qui di nuovo intendere ciò che si dice lo si potrebbe chiamare “ripercorrerlo”, “enfatizzarlo”. Ma l’impiego di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “che cosa intendevi?” e rispondere “con quello che ho detto intendevo quello che ho detto”; ovvero trattando il caso di “intendo ciò che dico” come un caso speciale di “dicendo ‘A’ intendo ‘B’”. Infatti ci si serve dell’espressione “intendo ciò che intendo” per dire “non ho una spiegazione in merito”. La domanda “che cosa significa questa frase p?”, se non chiede una traduzione di p in altri simboli, non ha più senso di “quale frase viene formata con questa sequenza di parole?”
Immagina che alla domanda “che cos’è un kilogrammo?” io risponda “è ciò che pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “be’, quanto pesa un litro d’acqua?”
Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per sottolineare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso”, “sono quello che sono”, “le cose sono quelle che sono”, oppure “è andata così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la questione è chiusa”, ma perché dovremmo rimpiazzare “la questione è chiusa” con “è andata così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “è andata così” dirò “la questione è chiusa”. Questo modo di esprimerci, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. Archiviarla è un atto analogo al disegnarci attorno una linea, come a volte si fa attorno al risultato di un calcolo per rimarcarne la definitività. Ma è anche un modo di metterlo in rilievo, di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “è andata così” è sottolineare il “così”.
Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!” Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di stigmatizzare delle alternative, come nel caso di “o piove o non piove; se piove resterò nella mia stanza, se non piove…” La prima parte della frase non contiene informazioni (e nemmeno “prendere o lasciare”). Invece di “o piove o non piove” avremmo potuto dire “considera i due casi…” La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione.
A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) (?) si è tentati di adoperare l’espressione “naturalmente c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…” Raddrizzandola otterremo: “stabiliamo che il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato sia…” Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sulla gamma più alta dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.
Consideriamo il caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare” in cui tale termine, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi… il caso in cui studiamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: . Lascia che tale viso ti susciti delle impressioni. Puoi essere portato a dire: “di sicuro non vedo meri tratteggi. Vedo una faccia con un’espressione particolare”. Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto a mo’ d’introduzione della descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire e dire per esempio “sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni”. Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione della faccia. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa”, diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che possa venire staccato dal disegno del volto. È come se potessimo dire “questo viso ha un’espressione particolare: proprio questa” (indichiamo qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, indicherei il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti invece di uno solo.) A contribuisce all’illusione è il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “la faccia ha un’espressione particolare”. Quando invece diciamo “questo è un volto peculiare”, le cose assumono un altro aspetto. (Ciò che una cosa è, intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato).
“Questo viso ha un’espressione particolare”. Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
Ciò che è in corso qui è l’atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è il volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori dalla faccia che vediamo, bensì che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che la faccia eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse un prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del viso fosse trovare il prototipo a cui corrisponde… come se nella nostra mente ci fosse un calco e l’immagine che scorgiamo fosse caduta in tale calco, combaciandoci. Invece abbiamo fatto sprofondare l’immagine nella mente, in cui ha lsciato un calco.
Ovviamente, quando diciamo “questa è una faccia, non solo dei tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così e uno così . Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, ecc. Se invece gli chiedi: “questo che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee a casaccio”. Ora pensa a cercare un uomo in un mosaico di immagini; in tal caso accade spesso che quello che a prima vista sembra “solo linee a casaccio” poi ci appaia come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è una faccia”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che riconosciamo il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo come una faccia” va paragonato invece al fatto di scorgere il disegno seguente
o come un cubo o come una figura piana consistente di un quadrato e due rombi; oppure con il vedere questo
“come un quadrato con le diagonali” o “come una svastica”, ovvero caso un caso limite di
oppure ancora con il fatto di vedere i quattro puntini …. come due paia di punti uno accanto all’altro o due paia alternate, o un paio circoscritto dall’altro paio, ecc.
Il caso di “vedere
come una svastica” è di speciale interesse perché tale espressione potrebbe significare che noi siamo, in qualche modo, affetti dall’illusione ottica secondo la quale il quadrato non sarebbe del tutto chiuso e si scorgerebbero i pertugi che distinguono la svastica dal nostro disegno. D’altronde è evidente che non è questo che intendevamo affermando “vedere il disegno come una svastica”. L’abbiamo osservata in un modo che suggeriva la descrizione “la vedo come una svastica”. Forse sarebbe stato meglio dire “la vedo come una svastica chiusa”… ma allora qual è la differenza tra una svastica chiusa è un quadrato con le diagonali? Penso che in questo caso sia facile riconoscere “ciò che accade quando vediamo la figura come una svastica”. Credo che si tratti del fatto che ripercorriamo la figura con gli occhi in un modo particolare, cioè del fatto di fissarne il centro, di seguirne un raggio con il suo lato adiacente, di tornare verso il centro, di prendere il raggio successivo con il suo lato connesso operando dunque una rotazione verso destra, ecc. Ma questa spiegazione del fenomeno di vedere la figura come una svastica non è per noi di rilevanza fondamentale. Ci interessa solo nella misura in cui contribuisce a mostrarci che l’espressione “scorgere la figura come una svastica” non significa vedere questo per quello, vedere una cosa come un’altra cosa quando cioè, in sostanza, due oggetti visivi sono entrati nel processo in corso. – Quindi anche vedere la prima figura come un cubo non significava “prenderla per un cubo”. (Poiché potremmo non aver mai visto un cubo e comunque avere l’esperienza di “vederlo come un cubo”).
In tal modo “vedere dei trattini come un volto” non comporta un confronto tra un gruppo di trattini e un vero volto umano; tuttavia tale forma di espressione suggerisce nella maniera più stringente che si si stia alludendo a un qualche confronto.
Considera anche l’esempio: guarda la W prima “come una doppia U maiuscola” e poi come una M maiuscola rovesciata. Osserva in che cosa consiste fare l’una e l’altra cosa.
Distinguiamo tra vedere il disegno di un viso e vederlo come qualcos’altro oppure “dei trattini a casaccio”. Distinguiamo anche tra il fatto dare un’occhiata superficiale a un disegno (vedendolo come un volto) e il fatto di lasciare che il viso eserciti su di noi la sua piena impressione. Sarebbe però bizzarro dire “sto lasciando che la faccia eserciti su di me una particolare impressione” (salvo in quei casi in cui si potrebbe dire di poter fare in modo che lo stesso volto produca in noi diverse impressioni). Nel lasciare che il viso si imprima in me e nel contemplare la sua “espressione particolare” non si paragonano l’un l’altra due cose inerenti alla molteplicità di una faccia; c’è solo una cosa che viene caricata di enfasi. Assorbendone l’espressione, non trovo nella mente un prototipo di tale espressione; invece, per così dire, da tale espressione ricavo un sigillo.
Ciò descrive anche quello che accade quando in ) diciamo a noi stessi “la parola ‘rosso’ giunge in una maniera particolare…” A questo punto si potrebbe ribattere “ho capito, continui a ripetere una qualche esperienza a te stesso e intanto la osservi”.
Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni paragonando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali… confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a fare degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, ovverosia dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che combaciano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si individua un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di affermare che, in molti dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente ciò che ci induce a fornire una tale descrizione è il fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito dopo che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo nella posizione in cui l’avevo visto per l’ultima volta dieci anni fa.
Descriverò di nuovo il tipo di processo in atto nella mente e fuori quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che diresti mentre lo riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!” Quindi affermeremmo che una delle tipologie del fatto di riconoscere qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e vediamo un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma con cui poi concorda, oppure combacia con un calco pronto per il suo ingresso nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non si staglia alcun calco né paragone, c’è solo questa forma, non altre a cui paragonarla e, per così dire, apostrofarla con un “ma certo!” Come quando mentre fai un puzzle da qualche parte resta un foro, poi vedi un pezzo palesemente combaciante e lo metti nello spazio vuoto dicendoti “ma certo!” Qui però esclamiamo “ma certo!” perché il pezzo combacia con il calco, nel caso invece in cui scorgiamo il disegno come una faccia ci troviamo in un atteggiamento analogo ma senza ragione.
La stessa strana illusione che ci affligge quando sembra che cerchiamo il qualcosa che una faccia esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai tratti posti di fronte a noi… questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci un motivo e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, affermiamo “questo motivo dice qualcosa” ed è come se dovessi trovare che cosa dice. Eppure so che non dice nulla in cui potrei esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendolo, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, sarebbe grossomodo come affermare “esprime solo se stesso”. – “Di certo però, quando lo suoni, non lo suoni in un modo qualunque bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”.
- Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando affermo “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò peraltro mostra che cos’è “una giustificazione” o “una spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare un motivo e dire “non è che così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?” L’idea che ci si suggerisce è che debba per forza esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che è per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiedesse “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettare in un modo particolare e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che il motivo effettivamente fischiettato (e non una sua immagine).
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale concepita quale contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo viso” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Considera anche l’espressione “di’ a te stesso che è un valzer e lo eseguirai correttamente”.
Ciò che chiamiamo “capire una frase” intrattiene, in molti casi, una somiglianza molto maggiore con la comprensione di un tema musicale di quel che saremmo portati a pensare. Non intendo affermare che il comprendere un tema musicale è più simile all’immagine che tendiamo a fare a noi stessi del capire una frase; ma che tale raffigurazione è sbagliata e che, rispetto a quanto ci parrebbe a un primo sguardo, capire una frase è un fatto ben più prossimo a ciò che davvero ha luogo quando comprendiamo un motivo musicale. Perché il capire una frase, per così dire, indica una realtà fuori dal linguaggio. Invece si potrebbe dire “capire una frase significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto della frase è nella frase”.
Ora possiamo tornare alle idee di “riconoscimento” e “familiarità” e proprio al casoo di riconoscimento e familiarità che ha avviato le nostre riflessioni sull’impiego di questi termini e di molti altri connessi. Mi riferisco all’esempio della lettura, diciamo, di una frase scritta in un linguaggio che si conosce bene. – Leggo tale frase per vedere com’è l’esperienza della lettura, cosa “succede davvero” quando si legge e ne ricavo un’esperienza particolare che prendo per l’esperienza della lettura. Sembrerebbe che quest’ultima non consista solo nel vedere le parole e nel pronunciarle ma anche in un’esperienza che potrei chiamare di carattere intimo. (Come se fossi in rapporti intimi con le parole “io leggo”).
Nel leggere, mi viene da dire, le parole pronunciate arrivano in una maniera particolare; anche le parole scritte che leggo non mi appaiono come dei meri scarabocchi. Al contempo non sono in grado di indicare, o afferrare, tale “maniera particolare”.
Il fenomeno di vedere e pronunciare le parole sembra avvolto da un’atmosfera particolare. Non riconosco però tale atmosfera come quella che caratterizza sempre la lettura. La avverto invece se leggo un rigo cercando di capire che cosa sia leggere.
Quando percepisco tale atmosfera, mi trovo nella stessa situazione di un uomo che lavora nella propria stanza, legge, scrive, parla ecc. e tutt’a un tratto concentra la propria attenzione su un leggero rumore ovattato, uno di quei brusii di fondo che si sentono quasi sempre, soprattutto nelle città (la lieve cacofonia generata da tutti i vari rumori della strada, il fruscio del vento, della pioggia, delle botteghe, ecc.). Potremmo immaginare che quest’uomo pensi che un rumore particolare sia un elemento comune di tutte le esperienze da lui avute nella camera in questione. Allora noi gli segnaleremmo che per la maggior parte del tempo non si è accorto di nessun rumore esterno e che il brusio che sentiva non era sempre lo stesso (a volte tirava vento, a volte no, ecc.).
Quando abbiamo detto che oltre alle esperienze di vedere e parlare c’era un’altra esperienza ecc. ci siamo espressi in maniera equivocabile. Ciò equivale ad affermare che a certe esperienze se ne aggiunge un’altra. – Prendiamo ora l’esperienza di vedere una faccia triste, poniamo, in un disegno… possiamo dire che il fatto di vedere il disegno come un volto triste non equivale “solo” a vedere un qualche insieme di tratti (pensa all’immagine di un puzzle). Ma la parola “solo” qui pare sottendere che, nell’atto di vedere il disegno della viso, all’esperienza di scorgere dei meri tratti di penna si aggiunge una qualche esperienza; come se dovessi dire che vedere il disegno come faccia consiste di due esperienze, di due elementi.
Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diversi elementi o che è composita. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Paragona questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera l’affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza di gusto è composta dal sapore dello zucchero e dal sapore del tè”. Oppure: “se sento un accordo in do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire do, poi mi, poi sol”. D’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate in corrispondenza di certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire una vocale cantata insieme alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di individuare nell’esperienza composita le sue varie esperienze costituenti?
Anche se l’espressione secondo la quale vedere un disegno come una faccia non è soltanto vedere dei tratti sembra indicare una qualche somma di esperienze, certamente non diremo che, quando scorgiamo il disegno come una faccia, abbiamo anche l’esperienza di vederla come dei meri tratti di penna e accanto qualche altra esperienza. Ciò si chiarisce ulteriormente se immaginiamo che qualcuno dica che vedere il disegno
come un cubo consisteva nel vederlo come una figura piana e in più nell’avere l’esperienza della sua profondità.
Quando ho avuto l’impressione che, sebbene durante la lettura una certa esperienza costante continuasse indefinitamente, in un certo senso non riuscivo ad afferrarla, la mia difficoltà sorgeva dall’errore di voler paragonare tale caso con quello in cui una parte della mia esperienza può essere considerato l’accompagnamento di un’altra. Dunque talvolta ci viene la tentazione di chiedere “se mentre leggo sento questo ronzio costante, dov’è?” Vorrei fare il gesto di indicare e non c’è nulla da indicare. Il termine “afferrare” esprime la stessa analogia ricca di malintesi.
Invece di “dove si trova quest’esperienza costante che sembra protrarsi mentre leggo?”, bisognerebbe domandare “con che cosa di insito nell’espressione ‘una particolare atmosfera avvolge le parole che leggo’ sto confrontando questo caso?”
Cercherò di elucidarlo per mezzo di un esempio analogo: di fronte a un oggetto tridimensionale simile al disegno
in noi tende a sorgere una perplessità esprimibile con la domanda “in che consa consiste il vederlo tridimensionalmente?” In realtà tale interrogativo significa “che cos’è che, quando lo vediamo tridimensionalmente, si aggiunge al semplice fatto di vedere l’oggetto?” Ma quale risposta possiamo aspettarci? Come dice Hertz “aber offenbar irrt die Frage in Bezug auf die Antwort, welche sie erwartet” (p. 9, Die Prinzipien der Mechanik). È la domanda stessa a tenere la mente premuta contro il muro spoglio, impedendole così di trovare l’uscita. Per mostrare a un uomo la via d’uscita bisogna innanzitutto mostrargli i malintesi generati dalla domanda.
Osserva una parola scritta, per esempio “leggere”. “Non è solo uno scarabocchio, è ‘leggere’”, diremo. “Ha una fisionomia definita”. Ma che cos’è che sto dicendo davvero su tale termine? Una volta raddrizzata, di che affermazione si tratta? “La parola cade”, si sarebbe tentati di dire “in un calco che la mia mente le ha preparato tempo prima”. Poiché però non percepisco al contempo sia la parola sia il calco, la metafora della parola adatta al calco non può alludere all’esperienza di confrontare un foro e la forma solida prima che li si faccia combaciare, bensì all’esperienza di vedere la forma solida accentuata da uno sfondo particolare.
i) ,
ii) .
i) sarebbe l’immagine del foro e della forma solida prima che li si faccia combaciare. Vediamo due cerchi e li possiamo confrontare. ii) è l’immagine di un solido posto nel foro. C’è un solo cerchio e ciò che chiamiamo il calco si limita ad accentuare oppure, come abbiamo detto talvolta, a enfatizzare.
Sono tentato di affermare “questo non è solo uno scarabocchio, è questo volto particolare”. – Al posto però di “posso vedere questo come questa faccia” dovrei dire “lo vedo come una faccia”. Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come una faccia, lo vedo come questa faccia!” Nella seconda metà di questa frase la parola “faccia” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come una faccia, lo vedo così”.
Immagina che io affermi “questo scarabocchio lo vedo così” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “così”, vedo la faccia… questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi pare questo, poi mi pare quello” e qui “questo” e “quello” si accompagnerebbero ai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco si impiega questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi mi sto rivolgendo? Supponi che la risposta sia “parlo da solo”. Ciò però è ancora insufficiente. Qui si rischia gravemente di credere di sapere cosa fare con una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’utilizzo, per esempio, delle parole “questo” e “quello?”… oppure: quali sono i diversi impieghi per cui ci serviamo di tali termini? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che viene loro appiccicato addosso indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi è un utilizzo della parola “questo” ad accompagnare il gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali in questo modo”, indicando la svastica. A proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così , poi mi appare così ”. E questo di certo non è l’impiego che facciamo della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso chiamiamo immagini delle raffigurazioni mentali, perché in certi casi sono paragonabili a immagini e in altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali dell’impiego di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto di ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze sosterremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; diciamo che non è cambiata perché è rimasta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” la si impiega in modi diversi a seconda del fatto che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con un meccanismo, e un’altra grammatica se sono invece dei ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedermi: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, nello stesso momento in cui li ho riconosciuti nelle occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per il futuro? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”
Il pericolo dell’inganno in cui ci siamo imbattuti diventa evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “questo” e “quello” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che nominare consista nel correlare in modo determinato e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con qualcosa. Come impieghiamo tale correlazione sembra pressoché secondario. (Si potrebbe quasi immaginare che il nominare comporti uno specifico atto sacramentale generante una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
Consideriamo ora a mo’ di esempio il seguente gioco linguistico: A manda B in varie case della loro città per ricevere beni di diverso tipo da molte persone. A fornisce a B delle liste. In cima a ognuna delle liste c’è un fregio e B è addestrato a recarsi nella casa sulla cui porta trova lo stesso fregio, il nome della casa. Nella prima colonna di ogni elenco trova uno o più fregi che ha imparato a leggere. Quando entra nella casa pronuncia suddette parole e tutti gli inquilini, nel sentire tali suoni che sono i loro nomi, sono stati addestrati a corrergli incontro. Poi B si rivolge a ciascuno a turno e mostra i due fregi adiacenti che sulla lista accompagnano ogni nome. Al primo dei due gli abitanti della città sono stati addestrati ad associare un tipo specifico di oggetti, per esempio delle mele. Il secondo è una fila di fregi che ogni uomo porta con sé su un pezzetto di carta. La persona apostrofata in questo modo porta, diciamo, cinque mele. Il primo scarabocchio era il nome generico degli oggetti richiesti, il secondo il nome del loro numero.
Qual è quindi la relazione tra un nome e l’oggetto nominato, per esempio la casa e il suo nome? Immagino che si potrebbero dare due risposte. La prima è che la relazione consiste nel fatto che certi tratti sono stati dipinti sulla porta della casa. La seconda risposta è che il rapporto in questione non viene stabilito solo con l’atto di dipingere tali tratti sulla porta, ma in base al ruolo particolare che questi fregi esercitano nella pratica del nostro linguaggio per come l’abbiamo abbozzata. – Ripeto, in ) la relazione del nome di un individuo con tale individuo consiste nel fatto che la persona è stata addestrata a correre incontro a chi pronuncia tale nome; oppure potremmo ripetere che consiste in questo e nell’uso complessivo del nome nel gioco linguistico.
Osserva questo gioco linguistico e vedi se riesci a trovare la relazione misteriosa tra l’oggetto e il suo nome. – La relazione di nome e oggetto, diremmo, consiste nel fatto che uno scarabocchio è scritto sopra un oggetto (o qualche altra relazione altrettanto banale) e nient’altro. Questo però non ci soddisfa, perché abbiamo l’impressione che in sé uno scarabocchio vergato su un oggetto non rivesta per noi alcuna importanza e non ci interessi affatto. Ed è vero; tutta l’importanza risiede nell’impiego particolare che facciamo dello scarabocchio scritto sull’oggetto e noi, in un certo senso, semplifichiamo la questione dicendo che il nome ha una relazione particolare con il suo oggetto, una relazione diversa dal fatto, diciamo, di essere scritto sopra suddetto oggetto, o di essere pronunciato da una persona che con un dito indica l’oggetto. Una filosofia primitiva condensa l’uso complessivo del nome nell’idea di una relazione, che dunque diviene misteriosa. (Confronta le idee di attività mentali quali desiderare, credere, pensare, ecc. che per la stessa ragione hanno in sé un che di misterioso e inesplicabile).
Ora potremmo impiegare l’espressione “la relazione tra nome e oggetto non consiste solo in questa connessione banale, ‘meramente esteriore’”, intendendo quindi che ciò che chiamiamo il rapporto tra nome e oggetto si caratterizza per l’impiego complessivo del nome, ma allora è chiaro che tra nome e oggetto non c’è una sola relazione ma tante quanti sono gli impieghi dei suoni o dei fregi che chiamiamo nomi.
Possiamo dire dunque che, se nominare dev’essere qualcosa di più del mero fatto di emettere un suono indicando un oggetto, allora in un modo o nell’altro deve entrare in gioco la conoscenza di come il suono o il fregio va usato in quel caso specifico.
Quando abbiamo proposto di dare dei nomi agli aspetti di un disegno, abbiamo fatto sembrare che nel vedere un disegno in due modi diversi e nel dire in entrambi i casi qualcosa, abbiamo fatto qualcosa di più che compiere tale azione priva di interesse; mentre ora notiamo che è l’utilizzo del “nome”, e nello specifico i dettagli di tale impiego, a elargire al nome la sua peculiare significazione.
Non si tratta allora di una domanda irrilevante, ma essenziale: “‘A’ e ‘B’ servono a ricordarmi tali aspetti; posso eseguire un ordine come ‘nota nel tale disegno l’aspetto ‘A’’; ci sono, in qualche modo, immagini di questi aspetti correlati ai nomi ‘A’ e ‘B’ (come e ); ‘A’ e ‘B’ vengono impiegati per comunicare con altre persone; di preciso quali gioco contribuiscono a instaurare?”
Quando dico “non vedo meri trattini (un mero scarabocchio) ma un volto (una parola) con questa fisionomia particolare”, non voglio asserire alcuna caratteristica generale di ciò che osservo, bensì affermare che vedo la fisionomia particolare che in effetti scorgo. È ovvio che qui la mia espressione si muove in un circolo vizioso. Ma ciò accade perché in realtà la fisionomia particolare che ho visto dovrebbe essere entrata nella mia proposizione. – Quando mi accorgo che, “mentre leggo una frase, per tutto il tempo ha luogo un’esperienza specifica”, devo in realtà proseguire piuttosto a lungo nella lettura per ricavare l’impressione specifica così enunciata.
Allora avrei potuto sostenere “osservo che la stessa esperienza ha luogo per tutto il tempo”, ma volevo dire “non mi accorgo solo che è sempre la stessa esperienza, noto proprio un’esperienza particolare”. Guardando una parete dal colore uniforme potrei affermare “non vedo solo che è ovunque dello stesso colore, vedo anche il colore specifico”. Affermandolo però presuppongo un’idea errata della funzione di una frase. – Sembra che tu voglia specificare il colore che vedi, ma non dicendo qualcosa su di esso, né paragonandolo con un campione… bensì indicandolo; impiegandolo al contempo come campione e come ciò con cui si il campione confronta.
Considera l’esempio: tu mi chiedi di scrivere alcune righe e, mentre io eseguo, dici “mentre scrivi senti qualcosa nella mano?”, io rispondo “sì, ho una sensazione particolare”. – Quando sono intento a scrivere, non posso dire a me stesso “provo questa sensazione?” Certo che posso affermarlo e, nel dire “questa sensazione”, mi concentro sulla sensazione. – Che cosa faccio però con tale frase? A che cosa mi serve? Sembra che stia indicando a me stesso ciò che provo… come se il mio atto di concentrazione fosse un atto “interiore” di indicare, di cui nessuno si accorge tranne me, quindi comunque un atto di poco conto. Non è però occupandomene che indico la sensazione. Invece occuparmi della sensazione significa produrla o modificarla. (D’altronde osservare una sedia non significa produrre o modificare la sedia).
La frase “mentre scrivo provo questa sensazione” è dello stesso tipo della frase “io vedo questo”. Non intendo la frase come quando la si usa per informare qualcuno che si sta guardando l’oggetto che si indica, e nemmeno, come la si impiega in ), per comunicare che si vede un certo disegno nel modo A e non nel modo B. Intendo la frase “vedo questo” per come talvolta la esaminiamo riflettendo su problemi filosofici. In tal caso rimaniamo, per così dire, attaccati a una particolare impressione visiva fissando un certo oggetto, e anche se non conosciamo altri possibili impieghi di suddetta frase, sentiamo con assoluta naturalezza di poter affermare a noi stessi “io vedo questo”.
“Di certo ha senso dire che cosa vedo e come potrei farlo meglio che lasciando che sia quello che vedo a parlare da solo?”
Ma le parole “io vedo” nella nostra frase sono pleonastiche. Non voglio dire a me stesso che sono io a vedere questo, né che lo vedo. Ciò equivale ad asserire che non posso indicare a me stesso quel che vedo con una mano visiva; poiché tale mano non indica ciò che vedo ma ne fa parte.
È come se la frase stesse individuando il colore specifico che ho visto; come se me lo presentasse.
È come se il colore che vedo fosse la descrizione di se stesso.
Perché l’atto di indicare con il dito era inefficace. (E guardare non è indicare, non indica per me una direzione, il che potrebbe implicare il fatto di distinguere una direzione da altre direzioni).
Ciò che vedo, o provo, entra nella frase come un campione; ma di tale campione non si fa alcun impiego; le parole della mia proposizione non paiono rilevanti, servono solo a presentarmi il campione.
In fondo non parlo di ciò che vedo, ma a ciò vedo.
In realtà sto eseguendo gli atti connessi all’essere presente che potrebbero accompagnare l’uso di un campione. Ed è questo a dare l’idea che mi stia servendo di un campione. L’errore è simile al fatto di credere che una definizione ostensiva dica qualcosa sull’oggetto verso cui dirige la nostra attenzione.
Quando ho detto “mi sbaglio sulla funzione di una frase” era perché con il suo ausilio pareva che indicassi a me stesso di che colore è, e invece osservavo un campione di colore. Mi sembrava che il campione fosse la descrizione del proprio colore.
Immagina che a qualcuno dica “osserva la luce particolare della stanza”. In certe circostanze il senso di quest’ordine sarà perfettamente chiaro, per esempio se il tramonto arrossa le pareti. Supponi però che in una qualunque altra occasione in cui non c’è nulla di notevole nell’illuminazione io dica “osserva la luce particolare di questa camera”… Be’, non c’è una particolare luce? Quindi dove sta la difficoltà nell’osservarla? La persona però a cui abbiamo detto di osservare la luce, quando questa non era per nulla particolare, probabilmente si guarderebbe in giro e direbbe “allora, che cos’ha di strano?” A questo punto io potrei rispondere “è proprio la stessa luce di ieri a quest’ora”, oppure “è la stessa identica luce un po’ fioca che si vede in quest’immagine della stanza”.
Nel primo caso, quando la camera era illuminata di un rosso suggestivo, avresti potuto indicare la peculiarità che, pur non esplicitandolo, volevo tu osservassi. Per esempio per indicarla avresti potuto utilizzare un campione di quel colore particolare. In questo caso saremo propensi a dire che la peculiarità si è aggiunta all’aspetto normale della stanza.
Nel secondo caso, quando in camera c’era soltanto una luce normale e nel suo aspetto non c’era nulla di notevole, io ti ho detto di osservare la luce nella stanza e tu non sapevi nello specifico cosa fare. Hai potuto solo guardarti attorno in attesa di una precisazione ulteriore in grado di completare il senso del comando originale.
Ma in entrambi i casi la camera non era illuminata in una maniera particolare? Be’, per come è stata formulata, questa domanda è priva di senso, come del resto la risposta “era…” L’ordine “osserva la luce particolare di questa stanza” non implica alcuna affermazione sull’aspetto della stanza. Pareva che dicesse “questa camera ha una luce particolare, non c’è bisogno che la nomini; osservala!” Si ha l’impressione che la luce a cui si fa riferimento sia fornita da un campione e che sia tu a doverlo utilizzare; come faresti per copiare la sfumatura esatta di un campione di colore esibita da una tavolozza. In realtà però l’ordine è simile al seguente: “afferra questo campione!”
Immagina di dire “C’è una luce particolare che devo osservare”. In tal caso ti troveresti intento a guardarti in giro invano, ovvero senza vedere la luce.
Avresti potuto ricevere un campione, per esempio un pezzo di materiale colorato, e poi l’ordine “osserva il colore di questo campione”. Possiamo operare una distinzione tra l’atto di osservare, di considerare la forma del campione e di considerare il suo colore. Tuttavia non si può descrivere l’atto di considerare il colore come il fatto di guardare la cosa che è connessa al campione, bensì come il fatto di guardare il campione in un modo particolare.
Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…” ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il considerare, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.
Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza…” Una tale frase parrebbe affermare che il soggetto può indicarci di che luce si tratti. Cioè può sembrare che l’ordine dica di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando la luce, invece delle dimensioni, delle forme, ecc.
(Paragona “afferra il colore di questo campione” con “afferra questa penna”, ovvero eccola qui, afferrala).
Torno alla frase “questa faccia ha un’espressione particolare”. Anche qui non ho confrontato o distinto la mia impressione da nulla, non mi sono servito del campione posto davanti a me. La frase era l’enunciazione di uno stato di attenzione.
Ciò che va spiegato è questo: perché parliamo alla nostra impressione? – Leggi, ti metti in uno stato di attenzione e dici “senza dubbio accade qualcosa di specifico”. Sei portato a proseguire “qui c’è una certa fluidità”; ma hai l’impressione che questa sia soltanto una descrizione inadeguata e che l’esperienza sia completa in se stessa. “Qualcosa di specifico senza dubbio accade” è come dire “ho avuto un’esperienza”. Tu però non vuoi esprimere un’affermazione generica indipendente dall’esperienza particolare che hai avuto, bensì un’affermazione in cui l’esperienza fa il suo ingresso.
Hai un’impressione. Questo ti porta ad affermare “ho un’impressione particolare” e questa frase sembra dire, a te stesso almeno, quale impressione hai. Come se ti riferissi a un’immagine pronta nella tua mente e dicessi “è questo”. Invece hai solo indicato la tua impressione. Nel nostro caso ) dire “noto il colore particolare di questa parete” è come disegnare, per esempio, un rettangolo nero attorno a una piccola porzione del muro e adottarlo in qualità di campione in vista di impieghi ulteriori.
Quando leggevi, mentre facevi molta attenzione a ciò che accadeva mentre leggevi, pareva che stessi osservando il fatto di leggere sotto una lente di ingrandimento e scorgessi il processo della lettura. (In realtà il caso è più simile all’osservare qualcosa attraverso un vetro colorato.) Tu pensi di aver osservato il processo della lettura, il modo particolare in cui i segni si traducono in parole pronunciate.
Ho letto questo rigo con attenzione particolare; sono colpito dalla lettura e ciò mi porta a dire che ho osservato qualcos’altro oltre al mero fatto di vedere i segni scritti e di pronunciare le parole. Ho anche espresso ciò dicendo che ho notato un’atmosfera particolare attorno all’atto di vedere e di parlare. In che modo una metafora come quella enucleata nell’ultima frase mi si può presentare lo si evince più chiaramente esaminando l’esempio seguente: se hai sentito delle frasi pronunciate in modo monocorde, sei propenso a dire che le parole erano tutte avvolte da una particolare atmosfera. Non si tratterebbe però dell’impiego di una peculiare maniera di rappresentazione per affermare che pronunciare la frase in tono monocorde era aggiungere qualcosa al dirla e basta? Non si potrebbe persino concepire tale tono monocorde quale risultato dello spogliare la frase della sua intonazione? Circostanze diverse ci farebbero adottare maniere diverse di rappresentazione. Se per esempio certe parole vanno lette in tono monocorde, poiché ce lo indica un pentagramma e una nota sostenuta posta tra le parole scritte, tale notazione suggerirebbe con grande forza l’idea che si sia aggiunto qualcosa al mero pronunciare la frase.
Sono colpito dalla lettura di una frase e dico che la frase mi ha mostrato qualcosa, che in essa ho scorto qualcosa. Questo mi ha fatto pensare all’esempio seguente: un amico e io una volta abbiamo guardato delle aiuole di viole. Ogni aiuola ne mostrava un tipo diverso, ognuno dei quali ci è rimasto impresso. A proposito il mio amico ha detto “che varietà di schemi di colore e ognuno dice qualcosa”. Era proprio la stessa osservazione che avrei voluto fare io.
Confronta tale affermazione con la seguente: “ognuno di questi uomini dice qualcosa”.
Se ci avessero chiesto cosa diceva lo schema di colore della viola, mi pare che la risposta giusta sarebbe stata che diceva se stesso. Quindi avremmo potuto impiegare una forma intransitiva di espressione come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”.
Talvolta si è detto che ciò che la musica comunica consiste in sensazioni di gioia, malinconia, trionfo, ecc. ecc. e ciò che ci urta in tale tesi è che così sembra che la musica sia uno strumento per produrre in noi una successione di sentimenti. Se ne potrebbe desumere che qualunque altro modo di generare suddetti sentimenti sarebbe in grado per noi di fare le veci della musica. A questo saremmo tentati di ribattere “la musica ci comunica se stessa!”
Vale un discorso simile per espressioni come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”. Abbiamo la sensazione di volerci proteggere dall’idea che un modello di colore sia un modo di produrre in noi una certa impressione… come se il modello di colore fosse una droga e noi fossimo interessati solo all’effetto prodotto da tale droga. (Qui lambiamo il problema dell’idealismo e del realismo e quello dell’oggettività o soggettività delle affermazioni estetiche). Dire “io vedo questo e sono colpito” tende a far sembrare che l’impressione fosse una qualche sensazione che accompagnava l’atto di vedere e che la frase dicesse qualcosa come “lo vedo e sento la pressione”.
Avrei potuto adoperare l’espressione “ognuno di questi modelli di colore ha significato…” Non ho detto “ha significato” perché così avrei innescato la domanda “quale significato?”, che nel caso in questione è priva di senso. Stiamo distinguendo tra modelli senza significato e modelli dotati di significato; nel nostro gioco però non ci sono espressioni come “questo modello ha questo-e-questo significato”. Nemmeno l’espressione “questi due modelli hanno diversi significati”, a meno di non intendere “questi sono due modelli diversi e hanno entrambi un significato”, è presente nel nostro gioco.
È facile però capire perché dovremmo essere propensi a impiegare la forma transitiva di espressione. Vediamo infatti quale uso facciamo di espressioni quali “questo volto dice qualcosa”, cioè quali sono le situazioni in cui ci serviamo di tale espressione, che genere di frase precederebbe o seguirebbe (in quale tipo di conversazione rientrerebbe). Forse dovremmo seguire un’affermazione simile dicendo “guarda la linea di queste sopracciglia!” oppure “che occhi scuri e che viso pallido!”; queste espressioni attirerebbero l’attenzione su certi elementi. Nella stessa connessione dovremmo utilizzare paragoni, per esempio “il naso è come un becco…”, ma anche espressioni quali “nel complesso il volto esprime stupefazione” e qui abbiamo impiegato “esprimere” transitivamente.
Possiamo ora considerare frasi che, diremmo, forniscono un’analisi dell’impressione che ricaviamo, per esempio, da un volto. Prendiamo un’affermazione come “la particolare impressione di questa faccia è dovuta agli occhi piccoli e alla fronte bassa”. Qui le parole “la particolare impressione” possono fare le veci di una specificazione determinata, per esempio “l’espressione stupida”. O invece tali parole possono significare “ciò che rende questa espressione notevole” (cioè straordinaria); oppure “ciò che colpisce in questo volto” (cioè “quello che attira l’attenzione”). Altrimenti la frase potrebbe significare “se alteri di pochissimo questi tratti, l’espressione cambia del tutto (mentre invece potresti modificarne altri senza che il volto cambi in maniera nemmeno paragonabile al caso precedente)”. La forma di quest’affermazione, comunque, non deve indurci erroneamente a pensare che in ogni caso ci sia un’asserzione supplementare della forma di “prima l’espressione era questa, adesso è quella”. Possiamo dire naturalmente “Smith ha aggrottato la fronte e la sua espressione è cambiata da questa a quella”, indicando per esempio due disegni del suo viso. – (Confronta con questa le seguenti due affermazioni: “ha detto queste parole” e “le sue parole dicevano qualcosa”).
Quando, cercando di vedere in che cosa consisteva leggere, ho letto una frase scritta, ho lasciato che l’atto di leggerla mi si imprimesse nella mente e ho detto di aver avuto una particolare impressione, mi si sarebbe potuto chiedere per esempio se a generare tale impressione non sia stata, poniamo, la particolare grafia dell’enunciato. Sarebbe stato come chiedermi se la mia impressione non sarebbe stata diversa se la scrittura fosse stata diversa, se per esempio ogni parola della frase fosse state scritta con una grafia diversa. In questo senso potremmo anche chiederci se l’impressione in fondo non era dovuta al senso della frase particolare che ho letto. Si potrebbe suggerire: leggi un’altra frase (o la stessa frase scritta in un’altra grafia) e vedi se dici ancora di aver avuto la stessa impressione. La risposta potrebbe essere: “sì, l’impressione che avevo era davvero dovuta alla grafia”. Questo però non implicherebbe che quando prima ho detto che la frase mi ha dato un’impressione particolare io abbia distinto un’impressione rispetto a un’altra, o che la mia affermazione non fosse del tipo di “questa frase ha la propria espressione”. Ciò diventerà più chiaro se consideriamo l’esempio seguente: immagina di avere tre facce disegnate una accanto all’altra: a) , b) , c) . Dovrebbero essere assolutamente identiche, tranne che per un tratto in più in b) e due punti in c). Contemplo la prima pensando “questo viso ha un’espressione peculiare”. Mi si mostra la seconda e mi si chiede se ha la stessa espressione. Rispondo “sì”. Poi mi mostrano la terza e dico “questa ha un’espressione diversa”. Rispondendo, nei due casi, avrei potuto dire di aver distinto il volto e la sua espressione: perché, pur essendo b) diversa da a), io dico che hanno la stessa espressione, mentre la differenza tra c) e a) corrisponde a una differenza di espressione; e questo potrebbe farci credere che anche nella mia prima enunciazione ho distinto tra volto ed espressione.
Torniamo all’idea di un senso di familiarità che sorge quando vedo oggetti familiari. Per ponderare se un tale senso esiste o no, probabilmente guardiamo un qualche oggetto e diciamo “quando osservo il mio vecchio cappotto e il cappello, non provo una sensazione particolare?” A questo però rispondiamo: con quale sensazione la confronti, oppure da quale distingui? Diresti che il tuo vecchio cappotto ti genera la stessa sensazione del tuo vecchio amico A, il cui aspetto ti è altrettanto familiare, o che ogniqualvolta guardi il cappotto in te sorge un senso di intimità e di calore?
“Non c’è quindi nulla come un senso di familiarità?” – Dovrei dire che c’è una grande quantità di esperienze diverse e che alcune di queste sono sensazioni che potremmo chiamare “esperienze (sentimenti) di familiarità”.
Diverse esperienze di familiarità: a) qualcuno entra nella mia stanza, non lo vedevo da molto tempo, non lo aspettavo. Lo guardo, dico o provo “ah, sei tu”. – (Perché nel fare l’esempio ho detto che non lo vedevo da tanto? Non mi sono accinto a descrivere esperienze di familiarità? E qualunque fosse l’esperienza a cui alludevo, non avrei potuto averla anche se avessi visto la persona mezz’ora prima? In realtà ho fornito le circostanze del riconoscere l’amico alla stregua di un mezzo per descrivere la situazione specifica del riconoscimento. A questo modo di descrivere l’esperienza si potrebbe obiettare che esplicitava aspetti irrilevanti e in fondo non era affatto una descrizione della sensazione. Per affermare ciò si assume, come prototipo di una descrizione, poniamo, la descrizione di un tavolo che ti dice la forma esatta, le dimensioni, il materiale impiegato, il colore. Si potrebbe dire che una tale descrizione assembla il tavolo. C’è però un altro tipo di descrizione del tavolo, simile a quelle che potresti trovare in un romanzo, per esempio “era un piccolo tavolo traballante decorato in stile moresco, concepito per soddisfare ogni requisito dei fumatori”. Tale descrizione la si potrebbe definire indiretta; se il suo scopo però è di evocare con rapidità nella mente un’immagine vivida del tavolo, è in grado assolverlo incomparabilmente meglio di una descrizione dettagliata “diretta”. – Ora, se devo fare una descrizione di un senso di familiarità o riconoscimento… che cosa vi aspettate che faccia? Posso assemblare il sentimento? In un certo senso ovviamente potrei, elencando molti stati diversi e il modo in cui le mie sensazioni sono cambiate. Tali descrizioni particolareggiate le trovate in alcuni grandi romanzi. Se si pensa alle descrizioni rintracciabili nei romanzi, si vede che a questo tipo di descrizione se ne può opporre un altro che si serve di disegni e misure come quelle che potremmo fornire al costruttore di un armadio. Quest’ultimo tipo si è propensi a chiamarlo l’unica descrizione diretta e completa (anche se tale modo di esprimerci mostra la nostra dimenticanza del fatto che ci sono certi scopi che la descrizione “vera” non assolve). Queste considerazioni dovrebbero mettervi in guardi dal pensare che ci sia una descrizione vera e diretta, poniamo, del senso del riconoscimento, distinta da quella “indiretta” che ho fornito).
b) stesso caso di a), ma la faccia non mi è immediatamente familiare. Dopo un po’, “sorge in me” il riconoscimento. “Ah, sei tu”, ma detto con un’intonazione completamente diversa da a). (Considera il tono di voce, l’intonazione, i gesti come parte essenziale della nostra esperienza, non come accompagnamenti inessenziali o meri espedienti comunicativi. (Confronta p. 104-5)). c) Quando all’improvviso sentiamo che sono “vecchie conoscenze” o “amici di vecchia data”, sorge una qualche un’esperienza protesa verso persone o cose che vediamo ogni giorno; un tale sentimento lo si potrebbe anche descrivere come un calore o un sentirsi a casa in loro presenza. d) La mia stanza con tutti i suoi oggetti mi è assolutamente familiare. Quando ci entro al mattino saluto le sedie familiari, i tavoli, ecc. con una sensazione di “ah, ciao!”? O provo una sensazione come quella descritta in c)? Ma il modo in cui mi ci muovo, in cui prendo qualcosa da un cassetto, mi siedo ecc. non è diverso dal comportamento che adotterei in una stanza che mi è estranea? E perché dunque non dovrei dire che ogniqualvolta ho vissuto tra questi oggetti familiari ho avuto esperienze di familiarità? e) Quando ci chiedono “chi è quell’uomo” non si tratta di un’esperienza di familiarità? Rispondo subito (o dopo un po’ di riflessione) “è Tal-dei-tali”? Confronta con l’esperienza seguente f) del fatto di guardare la parola scritta “sentimento” e di dire “questa è la grafia di A” oppure con g) l’esperienza di leggere la parola, che è pure un’esperienza di familiarità.
Al caso e) si potrebbe obiettare che l’esperienza di dire il nome di un uomo non era l’esperienza di familiarità, che perché noi potessimo sapere il suo nome lui doveva già esserci familiare e che per poterlo pronunciare dovevamo sapere tale nome. Oppure, affermeremmo, “dire il suo nome non è sufficiente, perché di certo potremmo dire il suo nome senza sapere che è il suo nome”. Tale osservazione è indubbiamente vera, se solo comprendiamo che non implica che la conoscenza del nome sia un processo che accompagna o precede l’atto di pronunciarlo.
Considera questo esempio: quale è la differenza tra un’immagine mnemonica, un’immagine che viene con un’aspettativa e, poniamo, l’immagine di una fantasticheria? Potresti sentirti portato a rispondere “tra suddette immagini c’è una differenza intrinseca”. – Hai percepito tale differenza o hai affermato che esiste solo perché hai pensato che dovesse esserci?
“Di certo però riconosco un’immagine mnemonica in quanto immagine mnemonica, l’immagine di una fantasticheria in quanto immagine di una fantasticheria, ecc.” – Rammenta che a volte non sei sicuro se un certo evento l’hai visto accadere, o l’hai sognato, o ne hai soltanto sentito parlare e l’hai immaginato in maniera vivida. Detto ciò, cosa intendi con “riconoscere un’immagine in quanto immagine mnemonica?” Concordo che (perlomeno nella maggioranza dei casi), mentre un’immagine si trova davanti all’occhio della tua mente, tu non dubiti che si tratti di un’immagine mnemonica, ecc. Inoltre alla domanda se l’immagine in questione è un’immagine mnemonica, tu (nella maggioranza dei casi) risponderesti senza esitare. E se invece ti chiedessi “quand’è che sai di che tipo di immagine si tratta?” Sapere di che tipo di immagine si tratta lo chiami non essere in uno stato di dubbio, non chiederti che cos’è? L’introspezione ti mostra uno stato o un atto mentale che chiameresti sapere che l’immagine era un’immagine mnemonica e che, quando l’immagine ti è presente nella mente, ha luogo? – E poi, se hai risposto alla domanda in merito a che tipo di immagine fosse, l’hai fatto, per così dire, guardando l’immagine e scoprendo una sua qualche caratteristica? (Come se ti avessero chiesto chi ha dipinto un certo quadro e tu guardandolo e riconoscendone lo stile dicessi che è un Rembrandt).
È facile d’altro canto indicare le esperienze caratteristiche del ricordare, aspettarsi, ecc. che accompagnano le immagini e varie altre differenze nei dintorni o alla periferia di tali esperienze. Dunque noi certamente diciamo cose diverse in casi diversi, per esempio “mi ricordo che è passato nella mia stanza”, “mi aspetto che arrivi presto”, “immagino che arrivi qui in camera”. – “Di sicuro però la differenza non può essere tutta qui!” Non è tutta qui: a circondare tali affermazioni ci sono tre diversi giochi svolti con queste tre parole.
Se messi alle strette, capiamo la parola “ricordare”, ecc.? Tra questi casi c’è davvero una differenza oltre a quella meramente verbale, al fatto che i nostri pensieri si muovono nei dintorni dell’immagine di cui disponiamo o all’espressione che impieghiamo? Ho un’immagine di una cena in Sala con T. Se mi si chiede se è un’immagine mnemonica, dico “ma certo” e i miei pensieri cominciano a muoversi su sentieri che da tale immagine si dipartono. Ricordo chi era seduto accanto a noi, su cosa verteva la conversazione, ciò che pensavo io in merito, quel è successo in seguito con T, ecc. ecc.
Immagina due giochi diversi, entrambi giocati con i pezzi degli scacchi su una scacchiera. Nei due giochi le posizioni iniziali sono identiche. Uno dei giochi si gioca sempre con pezzi rossi e verdi, l’altro con pezzi bianchi e neri. Due persone cominciano a giocare, divisi dalla scacchiera con i pezzi rossi e verdi schierati. Si chiede loro “sapete quale gioco intendete giocare?” Uno risponde “ma certo, giochiamo al gioco numero 2”. “Qual è allora la differenza tra giocare il numero 2 e il numero 1?” – “Be’, sulla scacchiera ci sono i pezzi rossi e verdi, non quelli neri e bianchi, inoltre affermiamo di giocare al numero 2”. – “Questa però non può essere l’unica differenza; non lo capisci cosa significa ‘numero 2’ e a quale gioco corrispondono le pedine rosse e verdi?” Qui siamo propensi a rispondere “certo che lo capisco” e per provarlo a noi stessi cominciamo proprio a muovere i pezzi secondo le regole del gioco numero 2. Questo è ciò che chiamerò muoversi nei dintorni della nostra posizione iniziale.
Non c’è però anche una sensazione di passato a caratterizzare le immagini in quanto immagini mnemoniche? Certamente ci sono esperienze che sarei portato a chiamare sensazioni di passato, anche se non sempre, quando ricordo qualcosa, è presente una di queste sensazioni. Per gettare luce sulla natura di tali sensazioni è ancora utilissimo rammentare che ci sono gesti di passato e intonazioni di passato che possiamo considerare corrispondenti alle esperienze del passato (Aristotele).
Esaminerò un caso particolare, quello di una sensazione di cui abbozzerò una descrizione dicendo che è la sensazione di “tanto, tanto tempo fa”. Queste parole e il tono in cui le si pronuncia sono un gesto di passato. Specificherò ulteriormente le esperienze a cui mi riferisco dicendo che corrispondono a un certo motivo (Davidsbündlertänze, “Wie aus weiter Ferne”). Immagino il brano in questione suonato con nella maniera corretta e registrato, poniamo, per un grammofono. Questa è allora è l’espressione più elaborata ed esatta di un sentimento di passato che io riesca a farmi.
Bisognerebbe dire che sentire il motivo suonato in tale maniera equivale di per sé a suddetta esperienza particolare di passato, oppure che sentire il brano innesca il sentimento di passato che poi accompagna la musica? Per esempio, posso separare ciò che chiamo l’esperienza del passato dall’esperienza di sentire il motivo? Oppure posso separare l’esperienza del passato espressa dal gesto dall’esperienza di compiere il gesto? Posso scoprire qualcosa, il sentimento essenziale del passato, che rimane dopo aver astratto tutte quelle esperienze che chiameremmo esperienze di espressione del sentimento?
Sono propenso a suggerirvi di dire che si tratta dell’espressione dell’esperienza invece che dell’esperienza. “Non sono però la stessa cosa”. Questo è sicuramente vero, perlomeno nel senso in cui è vero che un treno ferroviario e un incidente ferroviario non sono la stessa cosa. Eppure c’è una giustificazione per parlarne come se l’espressione “il gesto ‘tanto, tanto tempo fa’” e l’espressione “la sensazione ‘tanto, tanto tempo fa’” avessero lo stesso significato. Quindi potrei fornire le regole degli scacchi nella maniera seguente: ho davanti una scacchiera con i suoi pezzi. Do delle regole per muovere queste particolari pedine (questi particolari pezzi di legno) su questa particolare superficie. Possono tali regole essere le regole del gioco degli scacchi? Le si può far diventare tali utilizzando un solo operatore, per esempio la parola “ogni”. Oppure le regole per le mie particolari pedine possono rimanere quelle che sono e per trasformarle nelle regole del gioco degli scacchi si cambia il nostro punto di vista nei loro confronti.
C’è un’idea che la sensazione, poniamo, di passato sia un qualcosa di amorfo in un luogo, la mente, e che questo qualcosa sia causa o effetto di ciò che chiamiamo l’espressione del sentimento. L’espressione del sentimento allora è un modo indiretto di trasmettere il sentimento. Spesso si è parlato di una trasmissione diretta di sentimenti che rimpiazzi il mezzo esterno della comunicazione.
Supponi che ti dica di mischiare un certo colore e che te lo descriva dicendo che lo si ottiene facendo reagire con il rame l’acido solforico. Questo lo si potrebbe chiamare un modo indiretto di comunicare il colore da me inteso. Si può immaginare che la reazione dell’acido solforico sul rame in certe condizioni non produca il colore che volevo farti mischiare e che nel vedere il colore ottenuto io debba dire “no, non è questo” per poi fornirti un campione.
Possiamo dunque affermare che la comunicazione di sentimenti tramite gesti è in questo senso indiretta? Ha senso parlare di comunicazione diretta per distinguerla da quella indiretta? Ha senso dire “non sento il suo mal di denti, ma se lo sentissi saprei come si sente”.
Se parlo per comunicare un sentimento a qualcun altro, per capire ciò che dico non devo per forza conoscere ciò che chiamo il criterio per stabilire se l’atto di comunicazione è andato a segno o meno?
Siamo propensi ad affermare che, quando comunichiamo un sentimento a qualcuno, in costui accade qualcosa che noi non possiamo mai conoscere. Tutto ciò che possiamo ricevere dal nostro interlocutore è a sua volta un’espressione. Ciò è molto simile all’affermare che non possiamo mai sapere quando, nell’esperimento di Fitzeau, il raggio di luce raggiunge lo specchio.
- ↑ Ludwig Wittgenstein, Interactive Dynamic Presentation (IDP) of Ludwig Wittgenstein’s philosophical Nachlass, a cura dei Wittgenstein Archives at the University of Bergen sotto la direzione di Alois Pichler, Bergen 2016–.
This translation was made possible by the financial support of: