Libro marrone: Difference between revisions

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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “Io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “La mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (N.d.C.)</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “Io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “La mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (''N.d.C.'')</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova.


È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che... ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che... ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
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Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e poi esprimono tale concezione con parole e gesti.
Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e poi esprimono tale concezione con parole e gesti.


Come mai però impieghi l’espressione “devono”? In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, ecc.”? Altrimenti, non è solo ciò che potremmo chiamare un pregiudizio linguistico ad averti fatto dire dire “Prima di tutto doveva concepire che, ecc.”?
Come mai però impieghi l’espressione “devono”? In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, ecc.”? Altrimenti, non è solo ciò che potremmo chiamare un pregiudizio linguistico ad averti fatto dire “Prima di tutto doveva concepire che, ecc.”?


Invece da questo esempio e da altri puoi imparare che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui, se parliamo davvero di un’esperienza del concepire, dobbiamo applicare tale parola all’esperienza dell’uso di certe parole, certi gesti, ecc.
Invece da questo esempio e da altri puoi imparare che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui, se parliamo davvero di un’esperienza del concepire, dobbiamo applicare tale parola all’esperienza dell’uso di certe parole, certi gesti, ecc.
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Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo che avviene nella mente e fuori di essa quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' quando la riconosci. Può trattarsi semplicemente di “Ciao!”. Quindi possiamo dire che un tipo di evento del riconoscimento di qualcosa che vediamo consiste nel dirle “Ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e lo vediamo come un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma e troviamo che concorda, o che combacia con uno stampo pronto ad accoglierlo nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non entra alcuno stampo né confronto, c’è solo questa forma, non altre con cui confrontarla e, per così dire, esclamare un “Ma certo!”. Come quando mentre faccio un puzzle da qualche parte resta uno spazio vuoto, poi vedo un pezzo palesemente combaciante e lo metto nello spazio vuoto dicendomi “Ma certo!”. Qui però esclamiamo “Ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con lo stampo, mentre, nel caso invece in cui vediamo il disegno come un volto, assumiamo un atteggiamento analogo ''senza'' ragione.
Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo che avviene nella mente e fuori di essa quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' quando la riconosci. Può trattarsi semplicemente di “Ciao!”. Quindi possiamo dire che un tipo di evento del riconoscimento di qualcosa che vediamo consiste nel dirle “Ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e lo vediamo come un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma e troviamo che concorda, o che combacia con uno stampo pronto ad accoglierlo nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non entra alcuno stampo né confronto, c’è solo questa forma, non altre con cui confrontarla e, per così dire, esclamare un “Ma certo!”. Come quando mentre faccio un puzzle da qualche parte resta uno spazio vuoto, poi vedo un pezzo palesemente combaciante e lo metto nello spazio vuoto dicendomi “Ma certo!”. Qui però esclamiamo “Ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con lo stampo, mentre, nel caso invece in cui vediamo il disegno come un volto, assumiamo un atteggiamento analogo ''senza'' ragione.


La stessa strana illusione a cui siamo soggetti quando sembra che cerchiamo il qualcosa che un volto esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai lineamenti di fronte a noi – questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci una melodia e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, diciamo “Questa melodia dice ''qualcosa''”, ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla di tale per cui si possa esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendo che le cose stanno così, io mi arrendo e dico “Esprime soltanto un pensiero musicale”, questo non significa altro se non “Esprime se stessa”. – “Di certo però, quando la suoni, non la suoni ''in un modo qualunque'', bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”. – – Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando dico “A questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “Questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò, incidentalmente, mostra che che aspetto ha una “giustificazione” e una “spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare una melodia e dire “Non è così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “In che cosa consiste il fatto di sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?”. L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che sia per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiede “Come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettarla in un modo particolare, e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che la melodia ''effettivamente fischiettata'' (e non una ''sua'' immagine).
La stessa strana illusione a cui siamo soggetti quando sembra che cerchiamo il qualcosa che un volto esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai lineamenti di fronte a noi – questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci una melodia e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, diciamo “Questa melodia dice ''qualcosa''”, ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla di tale per cui si possa esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendo che le cose stanno così, io mi arrendo e dico “Esprime soltanto un pensiero musicale”, questo non significa altro se non “Esprime se stessa”. – “Di certo però, quando la suoni, non la suoni ''in un modo qualunque'', bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”. – – Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando dico “A questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “Questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò, incidentalmente, mostra che aspetto ha una “giustificazione” e una “spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare una melodia e dire “Non è così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “In che cosa consiste il fatto di sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?”. L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che sia per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiede “Come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettarla in un modo particolare, e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che la melodia ''effettivamente fischiettata'' (e non una ''sua'' immagine).


Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale che concepisco come il contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “Ora capisco l’espressione di questo volto” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale che concepisco come il contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “Ora capisco l’espressione di questo volto” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.