Note sulla logica: Difference between revisions

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|translation copyright=by-sa }}
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-0|Introduzione]]</div>
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-1|I. Bipolarità delle proposizioni. Senso e significato. Verità e falsità.]]</div>
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-2|II. Analisi delle proposizioni atomiche. Indefinibili generali. Predicati, etc.]]</div>
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-3|III. Analisi delle proposizioni molecolari: funzioni ab]]</div>
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-4|IV. Analisi delle proposizioni generali]]</div>
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-5|V. Principi di simbolismo: cosa simboleggia in un simbolo. Fatti tramite fatti.]]</div>
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<div style="width: 60%; margin: 0 auto;">[[#nol-6|VI. Tipi]]</div>
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Si è tentati di interpretare “non-p” come “tutto il resto, solo non p.” Che da un singolo fatto p ne derivino infiniti altri, non-non-p etc., riesce poco plausibile. [''Vedi'' 5.43] L’uomo ha l’abilità innata di costruire simboli con cui esprimere ''un qualche'' senso senza avere la minima idea di cosa significhino le singole parole. [''Cfr.'' 4.002] Un esempio preclaro è la matematica, fino a un’epoca recente ci si è serviti di simboli numerici senza sapere cosa significassero o che non significassero nulla.
Si è tentati di interpretare “non-p” come “tutto il resto, solo non p.” Che da un singolo fatto p ne derivino infiniti altri, non-non-p etc., riesce poco plausibile. [''Vedi'' 5.43] L’uomo ha l’abilità innata di costruire simboli con cui esprimere ''un qualche'' senso senza avere la minima idea di cosa significhino le singole parole. [''Cfr.'' 4.002] Un esempio preclaro è la matematica, fino a un’epoca recente ci si è serviti di simboli numerici senza sapere cosa significassero o che non significassero nulla.


Il segno di giudizio è logicamente del tutto privo di significato. Mostra solo, in Frege, Whitehead e Russell, che si considera vera la proposizione così indicata. Quindi “˫” ha tanto poco a che fare con la proposizione quanto (per esempio) il numero della proposizione. Una proposizione non può asserire di essere vera. [''Cfr.'' 4.442] L’asserzione è un fatto puramente psicologico. Si danno solo proposizioni non asserite. Giudizio, ordine o domanda stanno sullo stesso piano; ma hanno in comune la forma proposizionale, nostro unico interesse. Alla logica pertengono solo proposizioni non asserite. Quando diciamo che A giudica la tal cosa etc., dobbiamo menzionare un’intera proposizione giudicata da A. Non basterà menzionarne i costituenti né questi ultimi insieme alla forma ma nell’ordine errato. Ciò mostra che una proposizione deve essere presente nell’affermazione da cui risulta essere giudicata. Per esempio, in qualunque modo si spieghi “non-p”, la domanda “Che cosa viene negato” deve avere un significato. In “A giudica (che) p”, non si può sostituire a p un nome proprio. Questo riesce evidente se riformuliamo così: “A giudica che p è vero e non-p falso.” La proposizione “A giudica (che) p” consiste del nome proprio A, della proposizione p con i suoi due poli, e della relazione specifica tra A e i due poli. Naturalmente non si tratta di relazione in senso ordinario. Qualunque teoria corretta del giudizio deve rendermi impossibile giudicare che “questo tavolo portapenna il libro” (la teoria di Russell non soddisfa tale requisito). [''Cfr.'' 5.5422] La struttura della proposizione va riconosciuta, il resto è facile. Il linguaggio ordinario però cela la struttura della proposizione: fa sembrare le relazioni predicati, i predicati nomi, etc.
Il segno di giudizio è logicamente del tutto privo di significato. Mostra solo, in Frege, Whitehead e Russell, che si considera vera la proposizione così indicata. Quindi “<math>\vdash</math>” ha tanto poco a che fare con la proposizione quanto (per esempio) il numero della proposizione. Una proposizione non può asserire di essere vera. [''Cfr.'' 4.442] L’asserzione è un fatto puramente psicologico. Si danno solo proposizioni non asserite. Giudizio, ordine o domanda stanno sullo stesso piano; ma hanno in comune la forma proposizionale, nostro unico interesse. Alla logica pertengono solo proposizioni non asserite. Quando diciamo che A giudica la tal cosa etc., dobbiamo menzionare un’intera proposizione giudicata da A. Non basterà menzionarne i costituenti né questi ultimi insieme alla forma ma nell’ordine errato. Ciò mostra che una proposizione deve essere presente nell’affermazione da cui risulta essere giudicata. Per esempio, in qualunque modo si spieghi “non-p”, la domanda “Che cosa viene negato” deve avere un significato. In “A giudica (che) p”, non si può sostituire a p un nome proprio. Questo riesce evidente se riformuliamo così: “A giudica che p è vero e non-p falso.” La proposizione “A giudica (che) p” consiste del nome proprio A, della proposizione p con i suoi due poli, e della relazione specifica tra A e i due poli. Naturalmente non si tratta di relazione in senso ordinario. Qualunque teoria corretta del giudizio deve rendermi impossibile giudicare che “questo tavolo portapenna il libro” (la teoria di Russell non soddisfa tale requisito). [''Cfr.'' 5.5422] La struttura della proposizione va riconosciuta, il resto è facile. Il linguaggio ordinario però cela la struttura della proposizione: fa sembrare le relazioni predicati, i predicati nomi, etc.


Un motivo per ipotizzare che non tutte le proposizioni con più di un argomento sono proposizioni relazionali è che, se lo fossero, relazioni di giudizio e inferenza dovrebbero mantenersi tra un numero arbitrario di cose. L’idea che le proposizioni siano nomi di complessi ha suggerito che qualunque cosa che non sia un nome proprio indichi una relazione. Per esempio Russell considera ogni fatto come un complesso spaziale e poiché i complessi spaziali sono composti solo di cose e relazioni è convinto che ogni fatto lo sia.
Un motivo per ipotizzare che non tutte le proposizioni con più di un argomento sono proposizioni relazionali è che, se lo fossero, relazioni di giudizio e inferenza dovrebbero mantenersi tra un numero arbitrario di cose. L’idea che le proposizioni siano nomi di complessi ha suggerito che qualunque cosa che non sia un nome proprio indichi una relazione. Per esempio Russell considera ogni fatto come un complesso spaziale e poiché i complessi spaziali sono composti solo di cose e relazioni è convinto che ogni fatto lo sia.
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All’utile proprietà di essere composti, i “complessi” di Russell dovevano combinare quella altrettanto simpatica di lasciarsi trattare come “semplici”. Basta questo però a renderli inservibili come tipi logici (forme), poiché in tal caso avrebbe senso asserire la complessità di un semplice. Ma una ''proprietà'' non può essere un tipo logico.
All’utile proprietà di essere composti, i “complessi” di Russell dovevano combinare quella altrettanto simpatica di lasciarsi trattare come “semplici”. Basta questo però a renderli inservibili come tipi logici (forme), poiché in tal caso avrebbe senso asserire la complessità di un semplice. Ma una ''proprietà'' non può essere un tipo logico.


Una teoria falsa delle relazioni porta facilmente a credere che la relazione tra fatto e costituente sia la stessa che tra fatto e fatto-che-ne-consegue. Tra le due però c’è una somiglianza esprimibile così: φa . ⊃<sub>φ,α</sub>.a = a.***METTERE LETTERINE FIGHE***
Una teoria falsa delle relazioni porta facilmente a credere che la relazione tra fatto e costituente sia la stessa che tra fatto e fatto-che-ne-consegue. Tra le due però c’è una somiglianza esprimibile così: <span class="nowrap">φa . ⊃<sub>φ,α</sub>.a = a.</span>


Qualunque affermazione su complessi può risolversi nella somma logica di un’affermazione sui costituenti e DI un’affermazione sulla proposizione che descrive completamente il complesso. [''Cfr.'' 2.0201] Come procedere caso per caso con la risoluzione resta un quesito importante ma rispondervi non è strettamente necessario per la costruzione della logica. Ripeto: ogni proposizione che sembra un complesso può essere scomposta in una proposizione sui suoi costituenti e sulla proposizione che descrive compiutamente il composto; ovvero alla proposizione equivalente all’affermazione dell’esistenza del complesso.
Qualunque affermazione su complessi può risolversi nella somma logica di un’affermazione sui costituenti e DI un’affermazione sulla proposizione che descrive completamente il complesso. [''Cfr.'' 2.0201] Come procedere caso per caso con la risoluzione resta un quesito importante ma rispondervi non è strettamente necessario per la costruzione della logica. Ripeto: ogni proposizione che sembra un complesso può essere scomposta in una proposizione sui suoi costituenti e sulla proposizione che descrive compiutamente il composto; ovvero alla proposizione equivalente all’affermazione dell’esistenza del complesso.
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La ragione per cui “~Socrate” non significa nulla è che “~x” non esprime alcuna proprietà di x. Segni delle forme “p v ~p” sono privi di senso, ma non la proposizione “(p) p v ~p”. Se so che questa rosa è o rossa o non rossa, non so nulla. [''Cfr.'' 4.461] Lo stesso vale per tutte le funzioni ab. L’ipotesi dell’esistenza di oggetti logici rende notevole che nelle scienze proposizioni della forma di “p v q”, “p ⊃ q”, etc., sono da ritenersi non provvisorie solo finché “v” o “⊃” restano nell’ambito di segni di generalità (variabile apparente). Che “o” e “non”, etc. non sono relazioni alla stregua di “destra” e “sinistra”, etc. è ovvio a chiunque. La possibilità di definizioni incrociate mostra da sola che i vecchi indefinibili logici non sono corretti in quanto indefinibili e, in maniera ancora più palese, che non denotano relazioni. [''Cfr.'' 5.42] Gli indefinibili logici non possono essere predicati o relazioni, poiché le proposizioni, a causa del loro avere senso, non possono avere predicati o relazioni. Neppure si può dire che “non” e “o”, come giudizi, sono ''analoghi'' a predicati e relazioni, visto che non introducono nulla di nuovo.
La ragione per cui “~Socrate” non significa nulla è che “~x” non esprime alcuna proprietà di x. Segni delle forme “p v ~p” sono privi di senso, ma non la proposizione “(p) p v ~p”. Se so che questa rosa è o rossa o non rossa, non so nulla. [''Cfr.'' 4.461] Lo stesso vale per tutte le funzioni ab. L’ipotesi dell’esistenza di oggetti logici rende notevole che nelle scienze proposizioni della forma di “p v q”, “p ⊃ q”, etc., sono da ritenersi non provvisorie solo finché “v” o “⊃” restano nell’ambito di segni di generalità (variabile apparente). Che “o” e “non”, etc. non sono relazioni alla stregua di “destra” e “sinistra”, etc. è ovvio a chiunque. La possibilità di definizioni incrociate mostra da sola che i vecchi indefinibili logici non sono corretti in quanto indefinibili e, in maniera ancora più palese, che non denotano relazioni. [''Cfr.'' 5.42] Gli indefinibili logici non possono essere predicati o relazioni, poiché le proposizioni, a causa del loro avere senso, non possono avere predicati o relazioni. Neppure si può dire che “non” e “o”, come giudizi, sono ''analoghi'' a predicati e relazioni, visto che non introducono nulla di nuovo.


Al posto di ogni proposizione “p” scriviamo “***LETTERINE MAGIKE***p”. Ogni correlazione reciproca tra proposizioni o nomi si effettuerà attraverso una correlazione dei poli “a” e “b”. Sarà una correlazione transitiva. Di conseguenza “*** p” è lo stesso simbolo di “***MAGIMAGIA*** p”. Date n proposizioni determinate, chiamiamo “classe di poli” di tali proposizioni ogni classe di n membri, di cui ognuno è un polo delle proposizioni n, così che ogni membro corrisponde a ogni proposizione. Poi collego a ogni classe di poli uno dei due poli (a e b). Il senso del fatto simbolizzante costruito in tal modo non posso definirlo, ma lo conosco.
Al posto di ogni proposizione “p” scriviamo “<math>^{a}_{b}p</math>”. Ogni correlazione reciproca tra proposizioni o nomi si effettuerà attraverso una correlazione dei poli “a” e “b”. Sarà una correlazione transitiva. Di conseguenza “<math>^{a-a}_{b-b}p</math>” è lo stesso simbolo di “<math>^{a}_{b}p</math>”. Date n proposizioni determinate, chiamiamo “classe di poli” di tali proposizioni ogni classe di n membri, di cui ognuno è un polo delle proposizioni n, così che ogni membro corrisponde a ogni proposizione. Poi collego a ogni classe di poli uno dei due poli (a e b). Il senso del fatto simbolizzante costruito in tal modo non posso definirlo, ma lo conosco.


Il senso di una funzione ab di p è una funzione del senso di p. [''Cfr.'' 5.2341] Le funzioni ab si servono della distinzione dei fatti prodotti dai loro argomenti per generare nuove distinzioni. La notazione ab mostra la dipendenza di “o” e “non” e quindi che non si possono impiegare “o” e “non” quali indefinibili simultanei.
Il senso di una funzione ab di p è una funzione del senso di p. [''Cfr.'' 5.2341] Le funzioni ab si servono della distinzione dei fatti prodotti dai loro argomenti per generare nuove distinzioni. La notazione ab mostra la dipendenza di “o” e “non” e quindi che non si possono impiegare “o” e “non” quali indefinibili simultanei.
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Se soltanto i segni contenenti nomi propri sono complessi, allora le proposizioni contenenti solo variabili apparenti sarebbero semplici. E le loro negazioni? Le proposizioni sono sempre complesse, anche se non contengono nomi.
Se soltanto i segni contenenti nomi propri sono complessi, allora le proposizioni contenenti solo variabili apparenti sarebbero semplici. E le loro negazioni? Le proposizioni sono sempre complesse, anche se non contengono nomi.


Non esistono proposizioni contenenti variabili reali. I simboli chiamati proposizioni in cui “ci sono variabili” non sono in realtà proposizioni, ma schemi di proposizioni i quali, a meno di rimpiazzare le variabili con costanti, restano tali. Nessuna proposizione è espressa da “x=x”, poiché “x” è privo di significato. Esiste però la proposizione “(x).x = x” e proposizioni quali “Socrate = Socrate”, etc. Nei libri di logica non dovrebbero esserci variabili, ma solo proposizioni generali giustificanti l’uso di variabili. Ne consegue che le cosiddette definizioni in logica non sono definizioni ma solo schemi di definizioni e bisognerebbe sostituirle con proposizioni generali. Parimenti le cosiddette idee primitive (''Urzeichen'') della logica non sono idee primitive bensì schemi delle suddette. L’assunto errato che ci siano ''cose'' chiamate fatti o complessi o relazioni porta facilmente a credere che ci debba essere una relazione di interrogazione ai fatti, da cui sorge la domanda se possa istituirsi una relazione tra un numero arbitrario di cose, dato che un fatto può conseguire da casi arbitrari. È un fatto che la proposizione la quale per esempio esprime che q segue da p e p ⊃ q è questa: p. p ⊃ q. ⊃ p,q***STELLINE***.q.
Non esistono proposizioni contenenti variabili reali. I simboli chiamati proposizioni in cui “ci sono variabili” non sono in realtà proposizioni, ma schemi di proposizioni i quali, a meno di rimpiazzare le variabili con costanti, restano tali. Nessuna proposizione è espressa da “x=x”, poiché “x” è privo di significato. Esiste però la proposizione “(x).x = x” e proposizioni quali “Socrate = Socrate”, etc. Nei libri di logica non dovrebbero esserci variabili, ma solo proposizioni generali giustificanti l’uso di variabili. Ne consegue che le cosiddette definizioni in logica non sono definizioni ma solo schemi di definizioni e bisognerebbe sostituirle con proposizioni generali. Parimenti le cosiddette idee primitive (''Urzeichen'') della logica non sono idee primitive bensì schemi delle suddette. L’assunto errato che ci siano ''cose'' chiamate fatti o complessi o relazioni porta facilmente a credere che ci debba essere una relazione di interrogazione ai fatti, da cui sorge la domanda se possa istituirsi una relazione tra un numero arbitrario di cose, dato che un fatto può conseguire da casi arbitrari. È un fatto che la proposizione la quale per esempio esprime che q segue da p e p ⊃ q è questa: <span class="nowrap">p . p ⊃ q. ⊃<sub>p,q</sub>. q.</span>


L’interdefinibilità nel dominio delle proposizioni generali porta a quesiti simili nel dominio delle funzioni ab. Per le variabili apparenti agli indefinibili classici sorge la stessa obiezione che per le funzioni molecolari. L’applicazione della notazione ab a proposizioni con variabili apparenti si chiarisce se consideriamo per esempio che la proposizione “per tutte le x, ϕx” deve essere vera quando ϕx è vera per tutte le x e falsa quando ϕx è falsa per alcune x. Notiamo che ''alcune'' e ''tutte'' compaiono contemporaneamente nella stessa notazione delle variabili apparenti. La notazione è
L’interdefinibilità nel dominio delle proposizioni generali porta a quesiti simili nel dominio delle funzioni ab. Per le variabili apparenti agli indefinibili classici sorge la stessa obiezione che per le funzioni molecolari. L’applicazione della notazione ab a proposizioni con variabili apparenti si chiarisce se consideriamo per esempio che la proposizione “per tutte le x, ϕx” deve essere vera quando ϕx è vera per tutte le x e falsa quando ϕx è falsa per alcune x. Notiamo che ''alcune'' e ''tutte'' compaiono contemporaneamente nella stessa notazione delle variabili apparenti. La notazione è


Per (x)φx: a-(x)-.a φxb.-(ⱻx) e
Per (x)φx: a-(x)-.a φxb.-(∃x) e


per (ⱻx)φx: a-(ⱻx)-.a φxb.-(x)-b
per (∃x)φx: a-(∃x)-.a φxb.-(x)-b


Le vecchie definizioni diventano tautologiche.
Le vecchie definizioni diventano tautologiche.


Un’obiezione molto naturale al modo in cui abbiamo introdotto per esempio le proposizioni della forma xRy è che proposizioni quali (ⱻx,y)xRy e simili, nonostante abbiano ovviamente in comune con aRb quanto cRd ha in comune con aRb, non risultano spiegate. ''D’altronde'' nell’introdurre proposizioni della forma xRy non si è menzionata nessuna proposizione specifica di tale forma; e bisogna solo introdurre (x,y)ϕ(x,y) per tutte le ϕ in qualsiasi modo in grado di rendere il senso di tali proposizioni dipendente dal senso di tutte le proposizioni della forma ϕ(a,b), ed ecco giustificato il nostro modo di procedere.
Un’obiezione molto naturale al modo in cui abbiamo introdotto per esempio le proposizioni della forma xRy è che proposizioni quali (∃x,y)xRy e simili, nonostante abbiano ovviamente in comune con aRb quanto cRd ha in comune con aRb, non risultano spiegate. ''D’altronde'' nell’introdurre proposizioni della forma xRy non si è menzionata nessuna proposizione specifica di tale forma; e bisogna solo introdurre (x,y)ϕ(x,y) per tutte le ϕ in qualsiasi modo in grado di rendere il senso di tali proposizioni dipendente dal senso di tutte le proposizioni della forma ϕ(a,b), ed ecco giustificato il nostro modo di procedere.




<p style="text-align: center;" id="nol-5">'''V Principi di simbolismo: cos’è a simboleggiare in un simbolo. Fatti tramite fatti'''</p>
<p style="text-align: center;" id="nol-5">'''V Principi di simbolismo: cos’è a simboleggiare in un simbolo. Fatti tramite fatti'''</p>


È facile ipotizzare che solo i simboli contenenti nomi di oggetti siano complessi e che di conseguenza “”(x,φ)φx” o “(ⱻx,y)xRy” debbano essere semplici. È allora naturale considerare il primo nome di una forma e invece il secondo nome di una relazione. Ma in tal caso qual ''è'' il significato per esempio di “~(ⱻx,y).xRy”? Possiamo mettere “non” davanti a un nome? L’indefinibilità alternata mostra che gli indefinibili non sono ancora stati raggiunti. [''Cfr.'' 5.42] Gli indefinibili della logica devono essere reciprocamente indipendenti. Se viene introdotto un indefinibile, va introdotto in tutte le combinazioni in cui può comparire. Non possiamo dunque introdurlo prima per una combinazione, poi per un’altra; se per esempio è stata introdotta la forma xRy, deve d’ora in poi essere compresa in proposizioni della forma aRb nello stesso identico modo in cui la si comprende in proposizioni quali (ⱻx,y)xRy e altre. Non dobbiamo introdurla per una classe di casi prima, poi per un’altra; altrimenti si avrebbe ragione di dubitare se il suo significato sia o meno lo stesso nei due diversi frangenti e se non ci sia davvero motivo per utilizzare la stessa combinazione simbolica. In breve, per l’introduzione di simboli indefinibili e combinazioni di simboli vale la stessa regola, ''mutatis mutandis'', formulata da Frege per l’introduzione di simboli tramite definizioni. [''Cfr.'' 5.451]
È facile ipotizzare che solo i simboli contenenti nomi di oggetti siano complessi e che di conseguenza “”(x,φ)φx” o “(∃x,y)xRy” debbano essere semplici. È allora naturale considerare il primo nome di una forma e invece il secondo nome di una relazione. Ma in tal caso qual ''è'' il significato per esempio di “~(∃x,y).xRy”? Possiamo mettere “non” davanti a un nome? L’indefinibilità alternata mostra che gli indefinibili non sono ancora stati raggiunti. [''Cfr.'' 5.42] Gli indefinibili della logica devono essere reciprocamente indipendenti. Se viene introdotto un indefinibile, va introdotto in tutte le combinazioni in cui può comparire. Non possiamo dunque introdurlo prima per una combinazione, poi per un’altra; se per esempio è stata introdotta la forma xRy, deve d’ora in poi essere compresa in proposizioni della forma aRb nello stesso identico modo in cui la si comprende in proposizioni quali (∃x,y)xRy e altre. Non dobbiamo introdurla per una classe di casi prima, poi per un’altra; altrimenti si avrebbe ragione di dubitare se il suo significato sia o meno lo stesso nei due diversi frangenti e se non ci sia davvero motivo per utilizzare la stessa combinazione simbolica. In breve, per l’introduzione di simboli indefinibili e combinazioni di simboli vale la stessa regola, ''mutatis mutandis'', formulata da Frege per l’introduzione di simboli tramite definizioni. [''Cfr.'' 5.451]


È impossibile fare a meno di proposizioni in cui lo stesso argomento ricorre in posizioni diverse. È ovviamente inutile sostituire ϕ(a,a) con ϕ(a,b) . a = b.
È impossibile fare a meno di proposizioni in cui lo stesso argomento ricorre in posizioni diverse. È ovviamente inutile sostituire ϕ(a,a) con ϕ(a,b) . a = b.
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Ogni proposizione che dice qualcosa di indefinibile su una cosa è una proposizione soggetto-predicato; ogni proposizione che dice qualcosa di indefinibile su due cose esprime una relazione duale tra queste due cose, e avanti così. Quindi ogni proposizione contenente solo un nome e una forma indefinibile è una proposizione soggetto-predicato, etc. Un simbolo indefinibile può essere solo un nome e perciò si può arguire, in base al simbolo di una proposizione atomica, se si tratta o meno di una proposizione soggetto-predicato.
Ogni proposizione che dice qualcosa di indefinibile su una cosa è una proposizione soggetto-predicato; ogni proposizione che dice qualcosa di indefinibile su due cose esprime una relazione duale tra queste due cose, e avanti così. Quindi ogni proposizione contenente solo un nome e una forma indefinibile è una proposizione soggetto-predicato, etc. Un simbolo indefinibile può essere solo un nome e perciò si può arguire, in base al simbolo di una proposizione atomica, se si tratta o meno di una proposizione soggetto-predicato.


Una proposizione non può ricorrere in se stessa. Questo è l’assunto fondamentale della teoria dei tipi. [''Cfr.'' 3.332] In una proposizione data si convertano in variabili tutti gli indefinibili e poi si avrà una classe di proposizioni che non include tutte le proposizioni bensì un intero tipo. Se trasformiamo il costituente di una proposizione ϕ(a) in una variabile, allora avremo una classe ̂p[(ⱻx).ϕx=p]. Questa classe generalmente dipende ancora da ciò che con notazione arbitraria si intende per “ϕx”. Ma se trasformiamo in variabili tutti i simboli la cui significazione era stata determinata arbitrariamente, tale classe persiste. Ciò però non dipende più da una qualche convenzione, bensì dalla natura del simbolo “ϕx” che corrisponde a un tipo logico. [''Cfr.'' 3.315]
Una proposizione non può ricorrere in se stessa. Questo è l’assunto fondamentale della teoria dei tipi. [''Cfr.'' 3.332] In una proposizione data si convertano in variabili tutti gli indefinibili e poi si avrà una classe di proposizioni che non include tutte le proposizioni bensì un intero tipo. Se trasformiamo il costituente di una proposizione ϕ(a) in una variabile, allora avremo una classe <math>\hat{p}[( \exists x ) . \phi x = p]</math>. Questa classe generalmente dipende ancora da ciò che con notazione arbitraria si intende per “ϕx”. Ma se trasformiamo in variabili tutti i simboli la cui significazione era stata determinata arbitrariamente, tale classe persiste. Ciò però non dipende più da una qualche convenzione, bensì dalla natura del simbolo “ϕx” che corrisponde a un tipo logico. [''Cfr.'' 3.315]


In due modi si somigliano i segni. I nomi “Socrate” e “Platone” sono simili: sono entrambi nomi. Ma qualunque cosa abbiano in comune non deve venire introdotta prima dell’introduzione di “Socrate” e “Platone”. Lo stesso vale per la forma soggetto-predicato, etc. Quindi cosa, proposizione, forma soggetto-predicato, etc. non sono indefinibili, ovvero i tipi non sono mai indefinibili.
In due modi si somigliano i segni. I nomi “Socrate” e “Platone” sono simili: sono entrambi nomi. Ma qualunque cosa abbiano in comune non deve venire introdotta prima dell’introduzione di “Socrate” e “Platone”. Lo stesso vale per la forma soggetto-predicato, etc. Quindi cosa, proposizione, forma soggetto-predicato, etc. non sono indefinibili, ovvero i tipi non sono mai indefinibili.