Libro marrone: Difference between revisions

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(Intervallo. Vacanze di San Michele)
(Intervallo. Vacanze di San Michele)
<p id="part-ii" style="text-align: center;">'''Parte II'''</p>
Ogni volta che guardiamo oggetti familiari, proviamo un senso di familiarità? Oppure solo di norma?
Quand’è che lo proviamo?
Ci aiuta chiederci: da che cosa differenziamo il sentimento di familiarità?
Una delle cose da cui lo differenziamo è la sorpresa.
Si potrebbe dire: “L’assenza di familiarità è ben più un’esperienza della familiarità”.
Diciamo: A mostra a B una serie di oggetti. B deve dire ad A se l’oggetto gli è familiare o no. ''a'') La domanda potrebbe essere “B sa che oggetti sono?” Oppure ''b'') “riconosce B un particolare oggetto?”
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=1)}} Immaginiamo di mostrare a B una serie di strumenti: una bilancia, un termometro, uno spettroscopio, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=2)}} Si mostra a B una matita, una penna, un calamaio e un ciottolo. Oppure:
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=3)}} Oltre a vari oggetti familiari gliene si mostra uno di cui lui asserisce “questo sembra sia stato utilizzato per un qualche scopo, ma non saprei dire quale”.
Che cosa succede quando B riconosce una matita?
Immagina che A gli abbia mostrato un oggetto che sembrava un bastoncino. B lo prende in mano e all’improvviso si sfascia e da una parte è un cappuccio, dall’altra una matita. B dice “ah, è una matita.” Ho riconosciuto l’oggetto in quanto matita.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=4)}} Diremmo “B ha sempre saputo qual era l’aspetto di una matita; per esempio, se glielo avessero chiesto sarebbe stato in grado di disegnarne una. Non sapeva che l’oggetto che gli avevano dato era una matita che lui non avrebbe avuto difficoltà disegnare”.
Paragonalo con il caso 5).
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=5)}} Si mostra a B una parola scritta su un foglio tenuto rovesciato. Lui non riconosce la parola. Lentamente si gira il foglio finché B dice “adesso vedo cosa c’è scritto. È ‘matita’”.
Diremmo “ha sempre saputo che aspetto aveva la parola ‘matita.’ Non sapeva che la parola che gli si mostrava, una volta girata, avrebbe avuto l’aspetto di ‘matita’”.
Sia in 4) sia in 5) potresti dire che c’era qualcosa di nascosto. Nota però la diversa applicazione di “nascosto”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=6)}} Confronta tale caso con il seguente: nel leggere una lettera non riesci a leggere una parola. In base al contesto indovini di cosa debba trattarsi e adesso sei in grado di leggerla. Riconosci il primo scarabocchio per una ''c'', il secondo per una ''i'', il terzo per una ''b'', il quarto per una ''o''. Questo caso è diverso da quello in cui il termine “cibo” era coperto da una macchia d’inchiostro e tu hai solo ipotizzato che lì avrebbe dovuto trovarsi la parola “cibo”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=7)}} Paragona: Vedi una parola e non riesci a leggerla. Qualcuno lo modifica leggermente aggiungendo un trattino, allungando una lineetta, etc. Adesso sei in grado di leggerla. Paragona tale alterazione con il ribaltamento di 5) e osserva come in un certo senso si può dire che, mentre la parola era capovolta, tu hai visto che ''non'' era alterata. Cioè esiste un caso in cui dici “ho guardato la parola mentre era girata e so che adesso è sempre la stessa di quando non l’ho riconosciuta”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=8)}} Immagina che il gioco tra A e B consista nel fatto che B deve dire se conosce l’oggetto o no ma non di che cosa si tratta. Immagina che, dopo un igrometro che non ha mai visto prima, gli si mostri una normale matita. Nello scorgere l’igrometro B ha detto che non gli era familiare, nel vedere la matita che sapeva che cos’era. Anche se ad A non l’ha detto, a se stesso deve aver detto che si trattava di una matita? Perché dovremmo presupporlo?
E allora, quando ha riconosciuto la matita, in quanto che cosa l’ha riconosciuta?
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=9)}} Perfino supponendo che abbia davvero detto a se stesso “ah, questa è una matita,” paragoneresti tale esempio a 4) o 5)? In questi casi si potrebbe dire “ha riconosciuto questo come quello” (per esempio indicando la matita coperta mentre pronuncia “questo” e mentre pronuncia “quello” indicando la penna normale, e operando in 5) in modo analogo)
In 8) la matita non ha subito cambiamenti e le parole “ah, questa è una matita” non si riferivano a un paradigma, di cui B avrebbe riconosciuto la somiglianza con la matita mostratagli.
Se gli si avessimo chiesto “che cos’è una matita?”, B non avrebbe indicato un altro oggetto come paradigma o campione, ma avrebbe subito indicato la matita mostratagli.
“Nel dire però ‘ah, questa è una matita,’ come faceva a sapere che lo era se non l’ha riconosciuta come qualcosa?” – Ciò in fondo equivale a dire: “come ha riconosciuto ‘matita’ in quanto nome di una cosa di quella specie?” Be’, come ha fatto? Ha semplicemente reagito in questa maniera particolare, cioè ha pronunciato suddetta parola.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=10)}} Immagina che qualcuno ti mostri dei colori e ti chieda di nominarli. Indicando un certo oggetto tu dici “questo è rosso.” Se ti chiedessero “come fai a sapere che è rosso?”, che cosa risponderesti?
Naturalmente può essere che B abbia ricevuto una spiegazione generica quale “chiameremo ‘matita’ qualunque oggetto tramite cui si scrive agevolmente su una tavoletta di cera.” Poi A gli mostra, tra gli altri, un piccolo oggetto appuntito e, dopo aver pensato “con questo sarebbe facile scrivere,” B dice “ah, questa è una matita.” In questo caso, diremmo, ha luogo ''una derivazione''. In 8), 9), 10) non ci sono derivazioni. In 4) si potrebbe dire che B ha derivato che l’oggetto mostratogli è una matita per mezzo di un paradigma, oppure che non è avvenuta alcuna derivazione di questo tipo.
Diremo dunque che, scorgendo la matita dopo aver visto degli strumenti sconosciuti, B ha provato un senso di familiarità? Immaginiamo cosa potrebbe davvero essere successo. Ha visto una matita, ha sorriso, si è sentito sollevato e il nome dell’oggetto davanti ai suoi occhi gli è comparso nella mente o sulle labbra.
Il senso di sollievo non è proprio ciò che caratterizza l’esperienza del passaggio dall’estraneo al familiare?
Diciamo di provare tensione e rilassamento, sollievo, sforzo e riposo in casi diversi come i seguenti: un uomo regge un carico con il braccio disteso; il braccio e tutto il corpo sono in uno stato di tensione. Gli permettiamo di abbassare il peso, la tensione scema. Un uomo corre, poi riposa. Pensa intensamente alla soluzione di un problema di Euclide, la trova e si rilassa. Cerca di ricordare un nome e rammentandoselo si rilassa.
Se gli chiedessimo “tutti questi casi che cos’hanno in comune che ci fa dire che si tratta sempre di casi di sforzo e di rilassamento?”
Quando tentiamo di ricordare una parola, che cosa ci porta a impiegare l’espressione “cercare nella memoria?”
Chiediamoci “qual è la somiglianza tra cercare una parola nella memoria e cercare un amico nel parco?” Quale sarebbe la risposta a una simile domanda?
Un certo tipo di risposta comporterebbe certamente la descrizione di una serie di casi intermedi. Diremmo che il caso a cui più assomiglia il cercare qualcosa nella memoria non è il cercare un amico nel parco, bensì per esempio quello di cercare in un dizionario come si scrive una parola. Si potrebbe proseguire elencando altri casi. Un altro modo di ''indicare'' la somiglianza consisterebbe nell’affermare, per esempio, “in entrambi i casi all’inizio non possiamo scrivere la parola, poi invece sì.” Questo è ciò che chiamiamo indicare un elemento comune.
È importante osservare che, quando nel caso del tentare di ricordare siamo indotti a servirci di parole quali “cercare,” “rintracciare,” etc., non dobbiamo per forza essere consapevoli delle affinità così indicate.
Si potrebbe pensare di affermare che “di certo una qualche somiglianza ci colpisce, altrimenti non saremmo propensi a impiegare la stessa parola.” Paragona quest’affermazione con “una somiglianza tra questi due casi deve colpirci in modo tale che saremo portati a utilizzare la stessa immagine per rappresentare entrambi.” Questo ci dice che un qualche atto deve precedere quello di impiegare l’immagine. Ma perché quella che chiamiamo “la somiglianza che ci colpisce” non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che usiamo la stessa immagine? E perché non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che siamo indotti a servirci della stessa espressione?
Diciamo “questa immagine (o quest’espressione) ci si suggerisce irresistibilmente.” Be’, non è questa un’esperienza?
Qui ci occupiamo di esempi in cui, per esprimerci rozzamente, la grammatica di una parola, utilizzata in casi in cui non c’è un passaggio intermedio, pare suggerirci “la necessità” di un certo passaggio intermedio. Quindi siamo portati a dire “prima di obbedire a un ordine, un uomo ''deve per forza'' averlo capito,” “prima di poterlo indicare, deve sapere dov’è che il punto che gli fa male,” “prima di poterlo cantare, deve conoscere il brano in questione”.
Poniamoci un’altra domanda: immagina che, per elucidare a qualcuno la parola “rosso” (o il significato della parola “rosso”), tu gli abbia indicato vari oggetti rossi e abbia fornito la spiegazione ostensiva. – Che cosa significa dire “se ha capito il significato, se glielo chiederò mi porterà un oggetto rosso?” Ciò assomiglia a dire: se ha davvero capito cos’hanno in comune gli oggetti che gli ho mostrato, sarà nelle condizioni di eseguire tale ordine. Ma che cos’è che hanno in comune suddetti oggetti?
Potresti dirmi cosa hanno in comune un rosso chiaro e un rosso scuro? Confronta questo con il caso seguente: ti mostro due immagini di due paesaggi diversi. In entrambe le raffigurazioni, tra vari altri oggetti, c’è la figura di un cespuglio, identica nei due casi. Ti chiedo “indica ciò che hanno in comune le due immagini” e a mo’ di risposta tu indichi il cespuglio.
Consideriamo adesso la spiegazione seguente: do a qualcuno due scatole contenenti varie cose e dico “l’oggetto in comune tra le due scatole è chiamato forchettone da pane.” La persona a cui fornisco tale spiegazione deve frugare tra gli oggetti dentro le due scatole fino a trovare quello in comune ed è allora, si direbbe, che giunge alla spiegazione ostensiva. Oppure pensiamo a una spiegazione come questa: “nei due casi che ti mostro vedi macchie di molti colori; il solo colore che trovi in entrambi è il rosa malva.” – In tale esempio ha chiaramente senso dire “se ha visto (o trovato) ciò che hanno in comune le due immagini, adesso sarà in grado di portarmi un oggetto rosa malva”.
C’è questo gioco: dico a qualcuno “ti spiegherò la parola ‘w’ mostrandoti vari oggetti. Ciò che hanno tutti in comune è il significato di ‘w.’ Prima gli mostro due libri e lui si chiede “‘w’ vorrà dire libro?” Io allora accenno a un mattone e lui si dice “forse ‘w’ significa parallelepipedo.” Infine gli indico un carbone ardente e lui si dice “ah, è ‘rosso’ che intende, poiché tutti questi oggetti avevano qualcosa di rosso.” Sarebbe interessante considerare una forma alternativa di questo gioco, in cui l’interlocutore di volta in volta deve ''disegnare'' o ''dipingere'' ciò che crede che io intenda. Il fascino di questa versione risiede nel fatto che in certi casi, per esempio quando l’altro vede che tutti gli oggetti che gli ho mostrato finora esibiscono un qualche segno distintivo (; ed è proprio tale segno distintivo che lui disegnerebbe), sarebbe assolutamente ovvio che cosa costui debba raffigurare. – D’altra parte, se riconosce che in ciascuno degli oggetti c’è qualcosa di rosso, che cosa dovrebbe dipingere?
Una macchia rossa? Di quale forma e di che tonalità? Qui bisognerebbe stabilire una convenzione, per esempio che disegnare una macchia rossa dai contorni frastagliati non significa che gli oggetti contengono una macchia rossa dai contorni frastagliati bensì ''qualcosa'' di rosso.
Se, indicando macchie di varie sfumature di rosso, tu chiedessi a qualcuno “che cos’hanno in comune che te le fa chiamare rosse?”, costui sarebbe portato a dirti “non vedi?” Naturalmente una tale risposta non equivarrebbe al fatto di indicare un elemento in comune.
Ci sono casi in cui l’esperienza insegna che, se qualcuno non ha visto cosa avevano in comune i vari oggetti che gli ho indicato a mo’ di spiegazione di “x”, costui non è in grado di eseguire un ordine, per esempio, della forma di “portami x.” “Vedere che cos’hanno in comune” in certi casi consiste nell’indicarlo, nel lasciare che, dopo un processo di analisi e di confronto, lo sguardo si posi su una macchia colorata, nel dire a se stessi “ah, è rosso che intende” e magari al contempo nel dare un’occhiata a tutte le macchie rosse sui vari oggetti, e avanti così. – Tuttavia ci sono casi in cui non ha luogo nessun processo intermedio paragonabile a suddetto “vedere cos’hanno in comune” e in cui ci serviamo ancora di tale espressione, anche se qui bisognerebbe affermare “se dopo che gli ho mostrato queste cose, lui mi porta qualcos’altro di rosso, allora ''dovrò dire'' che ha scorto l’elemento comune tra gli oggetti che gli ho mostrato.” Eseguire l’ordine è ora il criterio per stabilire se il soggetto ha compreso o meno.
((Dopo aver cominciato, Wittgenstein riprende la dettatura formale.))
“Perché chiamiamo ‘sforzo’ tutte queste esperienze?” – “Perché hanno un qualche elemento in comune.” – “Che cos’è che hanno in comune lo sforzo fisico e quello mentale?” – “Non lo so, ma ovviamente una somiglianza dev’esserci”.
Allora perché hai detto che le due esperienze hanno qualcosa in comune? Tale espressione non si limitava a paragonare il caso presente con quelli in cui per prima cosa abbiamo detto che due esperienze hanno qualcosa in comune? (Quindi potremmo sostenere che alcune esperienze di gioia e di paura sono accomunate dalla sensazione del batticuore). Ma quando hai detto che le due esperienze di sforzo avevano qualcosa in comune, si trattava di un’espressione lievemente diversa per affermare che erano simili: dunque asserire che la somiglianza consisteva nella presenza di un elemento comune non era una spiegazione.
Inoltre diremo che nel paragonare le due esperienze hai provato un senso di somiglianza e che è questo che ti ha fatto utilizzare la stessa parola per entrambi? Se affermi di provare un senso di somiglianza, allora in merito ti faremo qualche domanda:
Potresti dire se la sensazione era localizzata qui o lì?
''Quando'' di preciso hai provato questa sensazione? In realtà ciò che chiamiamo confrontare le due esperienze è un’attività piuttosto complessa: forse hai evocato le due esperienze nella tua mente e sia l’immaginare uno sforzo fisico sia l’immaginare uno sforzo mentale consisteva di per sé nell’immaginare un processo e non uno stato uniforme nel tempo. Poi chiediti a che punto, nel corso di un simile processo, hai provato una sensazione di somiglianza.
“Se non disponessi dell’esperienza della loro somiglianza, di sicuro non direi che sono simili.” – Ma tale esperienza dev’essere per forza qualche cosa che chiami una sensazione? Immagina per un attimo che si tratti dell’esperienza del venirti in mente della parola “simile.” La chiameresti una sensazione?
“Ma non ci sono sensazioni di somiglianza?” Io credo che ci siano sensazioni che si potrebbero chiamare sensazioni di somiglianza. Se però tu “ti accorgi della somiglianza,” non percepisci costantemente una simile sensazione. Considera alcune delle varie esperienze che provi nel percepirla.
''a'') C’è un tipo di esperienza che potremmo chiamare non essere quasi in grado di distinguere. Vedi per esempio due lunghezze, due colori, quasi esattamente identici. Ma se mi chiedessi “questa esperienza consiste in una sensazione specifica?”, dovrei dire che certamente non è caratterizzata da nessuna sensazione simile da sola, che la parte più importante dell’esperienza consiste nel lasciar oscillare lo sguardo tra i due oggetti, fissando attentamente ora l’uno ora l’altro, magari pronunciando parole che esprimono dubbio, scuotendo la testa, etc., etc. Si direbbe che tra queste molteplici esperienze non rimane quasi nessuno spazio per una sensazione di somiglianza.
''b'') Confronta questo caso con quello in cui è impossibile fare fatica a distinguere i due oggetti. Supponiamo che io dica “in questa aiuola, per evitare un contrasto stridente, preferisco avere due tipi di fiori di colori simili.” L’esperienza qui la si può descrivere come uno spostare agevolmente lo sguardo dall’uno all’altro.
''c'') Ascolto la variazione di un tema e dico “per il momento non vedo come possa trattarsi di una variazione dello stesso tema, ma noto una certa somiglianza.” Ciò che è accaduto è che in certi punti della variazione, in certi cambi di tonalità, ho avuto l’esperienza di “sapere dove mi trovavo nel tema.” Tale esperienza sarebbe potuta consistere anche nell’immaginare certe figure del tema o nel vederle scritte nella mente o nell’indicarle effettivamente sullo spartito, etc.
“Quando però due colori sono simili, l’esperienza della somiglianza dovrebbe certamente consistere nel fatto di accorgersi della somiglianza ''esistente'' tra i due.” – Ma un verde bluastro è simile oppure no a un verde giallino? In certi casi diremmo che sono simili e in altri diremmo che sono del tutto dissimili. Sarebbe corretto dire che nei due casi abbiamo considerato relazioni diverse tra i due colori? Immagina che io abbia osservato un processo in cui un verde bluastro lentamente si trasforma in verde puro, in verde giallino, poi in giallo, infine in arancione. Dico “ci vuole poco a passare dal verde bluastro al verde giallino, perché questi due colori sono simili.” - Ma per affermare una cosa simile, non devi per forza aver avuto una qualche esperienza di somiglianza? – L’esperienza può ridursi a questo, cioè al fatto di scorgere i due colori e di dire che sono entrambi verdi. Oppure può consistere nel vedere un nastro il cui colore cambia da un estremo all’altro e nell’avere alcune delle esperienze che si potrebbero chiamare accorgersi di quanto siano vicini, rispetto al verde bluastro e all’arancione, il verde bluastro e il verde giallino.
Ci serviamo del termine “simile” in un’enorme famiglia di casi.
Nel dire che utilizziamo la parola “sforzo” sia per lo sforzo fisico sia per quello mentale, perché tra i due esiste una somiglianza, c’è qualcosa di notevole. Dovremmo dire che impieghiamo la parola “blu” tanto per il blu chiaro che per il blu scuro perché tra di loro c’è una somiglianza? Se ti chiedessero “perché questo lo chiami blu?” tu diresti “perché anche questo ''è'' blu”.
Si potrebbe suggerire che la spiegazione è che in questo caso chiami “blu” ciò che i due colori hanno in comune e che se tu chiamassi “sforzo” ciò che hanno in comune le due esperienze di sforzo sarebbe stato sbagliato sostenere “le chiamo entrambe ‘sforzo’ perché tra di loro c’è una qualche somiglianza,” ma che invece avresti dovuto dire “nei due casi mi servo della parola ‘sforzo’ perché in entrambi è presente uno sforzo”.
Allora cosa dovremmo rispondere alla domanda “cos’hanno in comune il blu chiaro e il blu scuro?” Di primo acchito la risposta pare ovvia: “sono due sfumature di blu.” Questa però è una tautologia. Chiediamoci quindi “cos’hanno in comune questi due colori che sto indicando?” (Immagina che uno sia blu chiaro, l’altro blu scuro). Qui bisognerebbe rispondere “non so a quale gioco tu stia giocando.” Se devo dire oppure no che hanno qualcosa in comune, e che cosa nello specifico hanno in comune, dipende dal tipo di gioco in corso.
Immagina il gioco seguente: A mostra a B varie macchie di colore e gli chiede che cos’hanno in comune. B deve rispondere indicando un particolare colore primario. Quindi se A indica rosa e arancio, B deve indicare il rosso magenta. Se A indica due sfumature di blu verdognolo, B deve indicare il verde puro e il cobalto, etc. Se in gioco simile A mostrasse a B un blu chiaro e un blu scuro e gli chiedesse che cos’hanno in comune, la risposta sarebbe ovvia. Se gli indicasse il rosso magenta e il verde puro, la risposta sarebbe che non hanno nulla in comune. Potrei però immaginare facilmente delle circostanze in cui dovremmo dire che hanno qualcosa in comune e asserire senza esitare di che cosa si tratta: immagina un uso linguistico (una cultura) in cui il verde e il rosso hanno lo stesso nome, e anche giallo e il blu. Poniamo per esempio che ci siano due caste, quella nobile che indossa abiti rossi e verdi, quella plebea vestita sempre in blu e in giallo. Al giallo e al blu ci si riferirebbe solo in quanto colori plebei, al verde e al rosso solo in quanto colori nobili. Se gli si chiedesse cos’hanno in comune una macchia rossa e una macchia verde, senza esitare un membro della tribù risponderebbe che si tratta di colori nobili.
Si potrebbe anche immaginare facilmente un linguaggio (quindi, come già detto, una cultura) sprovvisto di un’espressione comune per il blu chiaro e il blu scuro e nel quale per esempio il primo lo si chiama “Cambridge” e il secondo “Oxford.” Se chiedi a un membro della tribù cos’hanno in comune Cambridge e Oxford, lui sarebbe portato a risponderti “niente”.
Paragona questo gioco con il seguente. Si mostrano a B certe immagini, combinazioni di macchie colorate. Quando gli si chiede cos’hanno in comune tali immagini, se per esempio in entrambe è presente una macchia rossa, lui deve indicare un campione di rosso, oppure indicare il verde se in entrambe c’è una macchia verde, etc. Ciò mostra in quali modi diversi può venir impiegata questa stessa risposta.
Considera una spiegazione come “con ‘blu’ intendo ciò che hanno in comune questi due colori.” – Non è possibile che qualcuno una spiegazione del genere la capisca? Per esempio gli si chiederebbe di portare un altro oggetto blu e lui eseguirebbe l’ordine nella maniera corretta. Magari però porterà un oggetto rosso e noi allora diremo “sembra notare una qualche somiglianza tra i campioni che gli abbiamo mostrato e questa cosa rossa”.
Osserva: certi individui, quando gli chiediamo di intonare la nota che gli suoniamo con il pianoforte, cantano la quinta della nota in questione. Ciò ci rende agevole immaginare che un certo linguaggio possa disporre di un solo nome per una nota e la sua quinta. Invece ci metterebbe in imbarazzo dover rispondere alla domanda seguente: cos’hanno in comune una nota e la sua quinta? Perché di certo la frase “hanno in comune una certa affinità” non è una risposta.
Uno dei nostri compiti qui è fornire un’immagine della grammatica (dell’impiego) della parola “un certo”.
Dire che ci serviamo della parola “blu” per indicare “ciò che hanno in comune tutte queste tinte” in sé equivale semplicemente a dire che utilizziamo il termine “blu” in tutti i suddetti casi.
L’espressione “lui vede cos’hanno in comune tutte queste tinte” può riferirsi a un vasto insieme di fenomeni diversi, ovverosia fenomeni di vario genere sono impiegati come criteri per “lui vede che…” O tutto quel che accade può essere che, quando gli si chiede di portare un’altra tinta di blu, il soggetto esegue l’ordine in maniera soddisfacente. Oppure, quando gli mostriamo diversi campioni di blu, una macchia blu cobalto gli appare nell’occhio della mente: oppure costui volta istintivamente la testa verso qualche altra sfumatura di blu che non gli abbiamo mostrato, servendosene a mo’ di campione, etc. etc.
Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono esempi di questo tipo in cui non dovremmo avere dubbi sulla risposta.
Considera il caso seguente: abbiamo insegnato a qualcuno l’uso delle espressioni “più scuro” e “più chiaro.” Costui sarebbe in grado, per esempio, di eseguire ordini quali “dipingimi una macchia di colore più scura di quella che ti mostro.” Immagina che io gli dica: “ascolta le cinque vocali a, e, i, o, u e mettile in ordine dalla più chiara alla più scura.” Lui può rimanere perplesso e non fare nulla, ma può anche (e alcuni al suo posto lo farebbero) disporre le vocali in un certo ordine (i, e, a, o, u, di solito). Si potrebbe suppore che ordinare le vocali per oscurità presupponga il fatto che sentir pronunciare una vocale sia comparso un certo colore nella mente del soggetto, che poi ha organizzato suddetti colori in ordine di oscurità e ti ha comunicato la disposizione corrispondente delle vocali. Questo però non è necessario che accada. Qualcuno eseguirà il comando “metti le vocali in ordine di oscurità” senza veder comparire nessun colore nell’occhio della mente.
Se a quest’ultimo individuo si chiedesse se la ''u'' era “''davvero''” più scura della ''e'', lui quasi certamente fornirebbe una risposta analoga a “non è che sia proprio più scura, ma in qualche modo mi dà un’impressione di maggiore oscurità”.
E se però gli chiedessimo “in questo caso che cosa ti ha portato a servirti della parola ‘scuro?’”
Di nuovo potremmo arrivare ad affermare “deve aver visto qualcosa di comune tra la relazione fra i due colori e la relazione fra le due vocali.” Se però costui non è in grado di specificare tale elemento comune, a noi rimane il fatto che in entrambi i casi è stato indotto a impiegare le espressioni “più scura,” “più chiara”.
In “deve aver visto qualcosa…” nota la presenza del termine “deve.” Quando ti sei espresso così, non intendevi affermare che sulla base di esperienze pregresse concludi che probabilmente lui ha davvero visto qualcosa ed è per questo che tale frase non aggiunge nulla a ciò che sappiamo ma in realtà si limita suggerire altre parole per descriverlo.
Se qualcuno dicesse: “vedo una certa somiglianza, solo che non riesco a descriverla,” io risponderei “questo è sufficiente a caratterizzare la tua esperienza”.
Immagina di guardare due visi e dire “sono simili, ma non so che cos’hanno di simile.” Immagina di aggiungere dopo qualche minuto: “adesso lo so; è la forma degli occhi,” io poi ti risponderei “ora la tua esperienza della somiglianza dei due volti è diversa da quando scorgevi sì la somiglianza ma non sapevi in che cosa consistesse.” Tornando alla domanda “che cosa ti ha fatto utilizzare l’espressione ‘più scura…’”, la riposta potrebbe essere “nulla mi ha fatto utilizzare l’espressione ‘più scura…’”, sempre che tu mi abbia chiesto la ''ragione'' del mio impiego. Mi sono limitato ad adoperarla e soprattutto l’ho utilizzata con la stessa intonazione e magari perfino con la stessa mimica facciale e lo stesso gesto che in certi casi sarei propenso a impiegare applicando la parola in questione a dei colori. – È più facile rendersene conto quando parliamo di un dolore ''profondo'', di un suono ''profondo'', di un pozzo ''profondo''. Certe persone sanno distinguere tra giorni grassi e giorni magri della settimana. Quando concepiscono un giorno come grasso, la loro esperienza consiste nel servirsi di tale parola, magari accompagnandola con un gesto indicante grassezza e un senso generico di comodità.
Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e solo in seguito possono esprimere tale concezione con parole e gesti.
Come mai però impieghi l’espressione “devono?” In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, etc.”? Altrimenti, non potrebbe essere stato ciò che chiameremmo un pregiudizio linguistico a farti dire “prima di tutto doveva concepire che…”?
Invece da questo esempio e da altri apprendiamo che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui per parlare di una qualche esperienza legata al concepire bisogna applicare tale parola all’esperienza dell’impiego di certe parole, certi gesti, etc.
Quando il nostro soggetto ha detto “la ''u'' non è davvero più scura della ''e''…”, era essenziale che intendesse affermare che, quando si parlava di una vocale in quanto più scura di un’altra, rispetto a quando invece si definiva un colore più scuro di un altro, l’espressione “più scura” fosse impiegata ''in un senso diverso''.
Considera questo esempio: immagina che abbiamo insegnato a un uomo a servirsi delle parole “verde,” “rosso,” “blu” indicandogli macchie dei suddetti colori. Gli abbiamo insegnato a riportare oggetti di un certo colore in risposta all’ordine “dammi qualcosa di rosso!”, a riordinare oggetti impilati di vari colori, etc. Immagina che gli mostriamo una pila di foglie, alcune di un marrone lievemente rossiccio, altre di un giallo venato di verde, e che gli ordiniamo “dividi in due pile le foglie rosse e quelle verdi.” È molto probabile che lui eseguirebbe scostando le foglie giallo verdognole da quelle marrone rossicce. Diremo qui di aver impiegato le parole “rosso” e “verde” nello stesso senso dei casi precedenti oppure in un senso simile ma diverso? Che ragioni si potrebbero fornire per adottare il secondo punto di vista? Si potrebbe osservare che, se ci avessero chiesto di dipingere una macchia rossa, di certo non l’avremmo dipinta di un marroncino lievemente rossiccio e perciò si potrebbe dire che “rosso” nei due casi abbia significati diversi. Perché però non dovrei sostenere che in realtà aveva un solo significato, ma ovviamente lo si è utilizzato in base alle circostanze?
La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui una parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che un termine ha due significati, potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono i paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso,” non possiamo dire che “il termine ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro).” D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se fornire entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una, dipenderebbe dalle reazioni naturali delle persone che adottano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo, a cui diamo la spiegazione ostensiva “questo è chiamato rosso” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece ci riporta oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso, commisurata a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Diremmo che costui “non scorge cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso.” Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.
Considera il caso seguente: a B hanno insegnato l’impiego delle espressioni “più chiaro” e “più scuro.” Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno sppiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a eseguire l’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” riportando un oggetto determinato e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, etc., etc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine di scurezza. Lui esegue disponendo dei libri in fila, trascrivendo i nomi di certi animali e annotando le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''.” – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro.” – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?” Saremmo portati a considerare un simile caso come una specie di eccezione e di affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale dispone sia gli oggetti colorati sia le vocali.” Se volessimo rendere tale idea (la nostra) più palese, faremmo così: in un senso analogo a quello in cui si potrebbe dire che registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura, una persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visivi con uno strumento e con un altro strumento registra invece ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali). B allora, vorremmo dire, organizza suoni e colori con uno strumento (senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica registrerebbe raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).
Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa da una persona normale. Adesso invece poniamo accanto a tale raffigurazione il fatto che in questo caso non ci sono prove per “un altro senso.” – E in realtà quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare al fenomeno in questione dopo aver osservato l’immagine tratteggiata nella frase.
“Di sicuro però nel dire che la ''e'' era più chiara della ''u'' ha impiegato ‘più chiara’ in un senso diverso.” – Che cosa significa? Distingui tra il senso in cui B utilizza l’espressione e l’utilizzo dell’espressione? Quello che vuoi dire, cioè, è che, se qualcuno adopera la parola in un certo modo, ad accompagnare tale differenza nell’impiego deve esserci una qualche diversità, poniamo, nella mente di costui? Oppure dici soltanto che di certo, nell’applicare tale espressione alle vocali, B si è servito di un impiego diverso di “più chiara”?
Ma il fatto che gli usi differiscano è qualcosa in più, di ulteriore, rispetto a ciò che descrivi indicando le differenze specifiche?
E se, accennando alle due macchie che ho chiamato rosse, qualcuno dicesse “di certo stai usando la parola ‘rosso’ in due modi diversi.” Io direi “questo è rosso chiaro e quest’altro è rosso scuro… ma perché dovrei parlare di due usi diversi?” - -
È sicuramente facile indicare le differenze tra la parte del gioco in cui abbiamo applicato “più chiaro” e “più scuro” agli oggetti colorati e quella in cui abbiamo applicato le stesse espressioni alle vocali. Nella prima parte si trattava di confrontare due oggetti avvicinandoli e spostando lo sguardo dall’uno all’altro, si trattava di dipingere una tinta più scura o più chiara del campione dato; nella seconda parte non c’erano paragoni a occhio, nulla di dipinto, etc. Ma nell’indicare tali differenze siamo ancora liberi di parlare di due parti dello stesso gioco (come abbiamo appena fatto) oppure di due giochi diversi.
“Non percepisco però come la relazione tra un pezzo di materiale più chiaro e uno più scuro sia diversa da quella tra le vocali ''e'' e ''u''… mentre vedo che la relazione tra ''u'' ed ''e'' è la stessa di quella tra ''e'' e ''i''.” In certe circostanze saremo portati a parlare in questi casi di relazioni diverse, in altre circostanze di relazioni analoghe. “Dipende da come le confronti” si potrebbe dire.
Chiediamoci “diremo che le frecce → e ← indicano nella stessa direzione o in due direzioni diverse?” - Inizialmente saresti forse propenso a dire “in direzioni diverse, è ovvio.” Considera però il seguente punto di vista: se guardandomi allo specchio osservo il riflesso del mio volto, lo posso considerare un criterio per il fatto di vedere la mia testa. Se invece scorgessi una nuca potrei dire “ciò che vedo non può essere la mia testa, ma una testa che guarda nella direzione opposta.” Ciò dunque potrebbe indurmi a dire che una freccia e il suo riflesso in un vetro, quando si indicano l’un l’altra, vanno nella stessa direzione e, quando invece la testa di una delle due punta verso la coda dell’altra, in due direzioni opposte. Immagina il caso di un uomo a cui abbiano impartito l’uso ordinario dell’espressione “lo stesso” nei casi di “lo stesso colore,” “la stessa forma,” “la stessa lunghezza.” Gli hanno anche insegnato l’impiego dell’espressione “indicare verso” in contesti quali “la freccia indica verso l’albero.” Ora gli mostriamo due frecce puntate l’una verso l’altra, poi due frecce che si inseguono e gli chiediamo in quale dei due casi applicherebbe l’espressione “le frecce indicano nella stessa direzione.” Non è facile immaginare che se nella sua mente certi impieghi fossero predominanti, lui sarebbe propenso a rispondere che le frecce → ← indicano “nella stessa direzione”?
Nel sentire la scala diatonica siamo portati a dire che, dopo ogni sette note, ritorna la stessa nota e se ci chiedessero come mai la chiamiamo la stessa nota si potrebbe rispondere “be’, è di nuovo un do.” Non è questa però la spiegazione che volevo, poiché allora dovrei domandare “che cosa ti porta a chiamarlo di nuovo do?” A questo punto mi pare che la risposta sarebbe “be’, non senti che è la stessa tonalità, solo di un’ottava più alta?” – Anche in tal caso si potrebbe immaginare che a un uomo abbiano insegnato il nostro utilizzo dell’espressione “lo stesso” quando applicata a colori, lunghezze, direzioni etc. e che adesso gli suoniamo la scala diatonica e gli chiediamo se direbbe di aver sentito le stesse note riproporsi continuamente a certi intervalli; sarebbe facile ipotizzare varie risposte, in particolare, per esempio, quella secondo la quale costui ha sentito la stessa nota alternativamente dopo ogni quartetto o terzetto di note (il nostro soggetto chiama la tonica, la dominante e l’ottava la stessa nota).
Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo un qualche motivo per affermare che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se propendiamo per una risposta affermativa, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure se non è questo che vogliamo asserire.
Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero ''n'' maggior del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “addizionare ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini -, --, ---, etc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel fornire spiegazioni generiche ed esempi. – Suddetti esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “addiziona 1.” Dopo un po’ notiamo che passato 100 lui ha fatto quello che noi chiameremo addizionare 2; passato 300 quello che chiameremo addizionare 3. Noi lo sgridiamo “non ti ho detto di addizionare 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, etc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi.” – Capite che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi forniti, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) così: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, etc.”
(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto che indica in una direzione, muovendosi nella direzione accennata, bensì in quella contraria. Comprendere qui significa lo stesso di reagire).
“Suppongo che ciò che dici implichi questo, ovvero che, per seguire correttamente la regola ‘addiziona 1’, a ogni passo c’è bisogno di una nuova comprensione o intuizione.” – Ma che cosa significa seguire la regola ''correttamente''? Come e quando bisogna decidere qual è il passo giusto da compiere in un momento specifico? – “Il passo giusto da compiere in ogni momento è quello in accordo con la regola per come è stata ''intesa'', significata. “… con il ''significato'', l’intenzione della regola.” – Immagino che l’idea sia questa: nel dargli la regola “addiziona 1,” e nell’intenderla, tu intendevi che lui scrivesse 101 dopo 100, 199 dopo 198, 1041 dopo 1040 e avanti così. Nel fornirgli la regola però come hai compiuto tutti questi atti di intendere (ne immagino una quantità infinita)? Oppure si tratta di una rappresentazione sbagliata? E diresti che c’è stato un solo atto di intendere, dal quale comunque tutti questi altri, o qualunque altro, sono conseguiti? Ma il punto non è solo “che cosa consegue dalla regola generale?” Tu potresti affermare “di certo nel dargli la regola sapevo di intendere che dopo 100 avrebbe dovuto scrivere 101.” Qui però si è sviati dalla grammatica del termine “sapere.” Sapere ciò era un qualche atto mentale con il quale tu in quel momento hai compiuto la transizione da 100 a 101, per esempio un atto come il dire a te stesso: “voglio che lui scriva 101 dopo 100”? In questo caso chiediti quanti atti simili hai operato nel fornirgli la regola. Oppure intendi l’essere a conoscenza di un qualche tipo di disposizione… in tal caso solo l’esperienza può insegnarci a che cosa fosse atta tale disposizione. – “Certamente però se tu mi avessi chiesto quale numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1568, io ti avrei risposto 1569.” – Suppongo di sì, ma come fai a esserne sicuro? La tua idea è che in qualche modo nell’atto misterioso dell’''intendere'' la regola tu abbia compiuto delle transizioni senza operarle davvero. Ti sei fasciato la testa prima di essertela rotta. Questa strana prospettiva è legata all’utilizzo particolare della parola “intendere.” Immagina che il soggetto sia arrivato a 100, a cui poi faccia seguire 102. In tal caso diremo “''intendevo'' che tu dovessi scrivere 101.” Il tempo passato nella parola “intendere” suggerisce che, quando è stata data la regola, abbia avuto luogo un particolare atto di intendere, anche se in concreto tale espressione non allude ad alcun atto. Si potrebbe spiegare il verbo al passato trasponendo la frase nella forma “se tu prima mi avessi chiesto che cosa volessi che tu facessi a questo punto, io ti avrei detto…” Che tu però in tal caso gli avresti detto così resta comunque un’ipotesi.
Per capire meglio, pensa all’esempio seguente: qualcuno dice “Napoleone è stato incoronato nel 1804.” Io gli chiedo “intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?” Costui risponde “sì, è lui che intendevo.” – Ciò significa che nell’atto di “intendere lui” il soggetto ha in qualche modo pensato a Napoleone in quanto vincitore della battaglia di Austerlitz?
L’espressione “la regola intendeva che dopo 100 scrivesse 101” fa sembrare che la regola in questione, per come la si è concepita, ''prevedesse'' tutte le transizioni che si sarebbero dovute compiere seguendola. Ma presuppore il fantasma di una transizione non ci aiuta a procedere, perché non accorcia il divario tra tale spettro e la transizione in sé. Se le semplici parole della regola non potevano anticipare una transizione futura, non poteva farlo nemmeno un atto mentale con cui accompagnare alle parole.
Di continuo ci imbattiamo in questa bizzarra superstizione, come si potrebbe essere portati a chiamarla, secondo la quale l’atto mentale sarebbe in grado di fasciarsi la testa prima di rompersela. Tale intoppo sorge ogniqualvolta proviamo a riflettere su idee come pensare, desiderare, aspettarci, credere, sapere, cercare di risolvere un’equazione matematica, l’induzione matematica, e avanti così.
Non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo in un punto determinato della serie. Ci confonderebbe di meno chiamarla un atto di decisione, anche qui però si tratterebbe di una definizione equivocante, perché non deve avere luogo nulla di simile a una decisione, bensì ipoteticamente solo l’atto di scrivere o di parlare. L’errore che in questo e in migliaia di altri casi siamo propensi a commettere si estrinseca nella parola “fare” per come ce ne siamo serviti nella frase “non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo,” perché sottintende l’idea che “qualcosa debba farci fare” quello che dobbiamo fare. E questo aumenta ulteriormente la confusione tra causa e ragione. ''Non dobbiamo avere una ragione per seguire la regola nel modo in cui la seguiamo.'' La catena di ragioni ha un termine.
Adesso confronta le frasi “se dopo 100 scrivi 102, 104, etc., di sicuro si tratta di un uso diverso della regola ‘addiziona 1’” e “certamente si tratta di un uso diverso dell’espressione ‘più scura,’ se dopo averla applicata alle macchie di colore la adoperiamo per le vocali.” – Dovrei replicare: “dipende da che cosa intendi con ‘un uso diverso’”. –
Certamente affermerò di dover chiamare l’applicazione di “più chiara” e “più scura” alle vocali “un altro uso delle parole;” e dovrei continuare la serie “addiziona 1” nella maniera 101, 102, etc., ma non – o non necessariamente – a causa di qualche altro atto mentale che lo giustifichi.
C’è una sorta di malattia del pensiero che cerca sempre (e lo trova) ciò che chiameremmo uno stato mentale, da cui tutti i nostri atti sprizzano come da un serbatoio. Perciò si dice “la moda cambia perché cambia il gusto della gente.” Il gusto è il serbatoio mentale. Ma se oggi un sarto disegna un abito di taglio diverso da quello che ha disegnato l’anno scorso, ciò che chiamiamo il suo cambio di gusto non può essere consistito, in parte o integralmente, nel limitarsi a disegnare un abito diverso?
A questo punto ribattiamo “ma di certo disegnare una nuova forma in sé non equivale cambiare il proprio gusto – e dire una parola non è lo stesso di intenderla – e dire che credo non equivale a credere; devono esserci sentimenti, atti mentali, ad accompagnare queste frasi e queste parole.” – La ragione che forniamo per tali asserzioni è che sicuramente un uomo sarebbe in grado di disegnare una forma nuova senza cambiare il proprio gusto, dire che crede qualcosa senza crederlo, etc. Questo ovviamente è vero. Ma non ne consegue che ciò che distingue il caso in cui il mio gusto è cambiato dal caso in cui non è cambiato non possa ridursi in certe circostanze a disegnare ciò che non avevo mai disegnato prima. Non ne consegue nemmeno che nei casi in cui disegnare una nuova forma non è un criterio per stabilire un cambio di gusto, tale criterio debba essere invece un cambiamento in qualche regione particolare della mente.
Ovverosia, non ci serviamo della parola “gusto” come del nome di un sentimento. Pensare invece che sia così significa rappresentare la pratica del nostro linguaggio con una semplificazione indebita. Questo naturalmente è il modo in cui di solito sorgono le perplessità filosofiche; il nostro caso è del tutto analogo all’idea che ogniqualvolta facciamo un’affermazione predicativa asseriamo che il soggetto contiene un certo ingrediente (come accade davvero nel caso di “la birra è alcolica”).
Per esaminare il nostro problema è utile considerare in parallelo con il sentimento o i sentimenti che accompagnano il fatto di avere un certo gusto, o di cambiarlo, o di intendere ciò che si dice, etc. etc. le espressioni facciali (mimica o tono di voce) caratterizzanti gli stessi stati di cose. Se qualcuno dovesse obiettare che sentimenti ed espressioni facciali non si possono paragonare, poiché i primi sono esperienze e le seconde no, lo si faccia riflettere sulle esperienze muscolari, cinestetiche e tattili legate ai gesti e alle espressioni facciali.
Pensiamo alla proposizione “credere in qualcosa non può consistere soltanto nel dire che ci credi, lo devi dire con una particolare espressione facciale, gestualità, tono di voce.” È indubbio che consideriamo certe espressioni, gesti, etc. come caratteristici dell’espressione di credenza. Diciamo “in tono convinto.” Eppure è evidente che suddetto tono convinto non è presente ogniqualvolta si parla giustamente di convinzione. “Infatti” potresti rispondermi tu “ciò mostra che c’è qualcos’altro, qualcosa dietro a questi gesti, etc. che è la vera credenza, distinta dalle mere espressioni di credenza.” “Niente affatto” ti risponderei, “molti criteri diversi distinguono, in diverse circostanze, casi in cui si crede a ciò che si dice da casi in cui non si crede a ciò che si dice.” Possono esserci casi in cui la presenza di una sensazione diversa da quelle connesse a gesti, al tono di voce, etc. distingue il fatto di intendere ciò che si dice dal fatto di non intenderlo. Qualche volta però a operare tale distinzione non è qualcosa che succede mentre si parla, ma uno stuolo di azioni ed esperienze di vario genere che accadono sia prima sia dopo.
Per comprendere questa famiglia di casi ci sarà nuovamente d’aiuto considerare un caso analogo preso dall’ambito delle espressioni facciali. Esiste una famiglia di espressioni facciali amichevoli. Immagina che avessimo chiesto “qual è l’elemento che caratterizza un viso amichevole?” All’inizio si potrebbe pensare che ci siano certi tratti che si potrebbero chiamare tratti amichevoli, ognuno dei quali conferisce al volto un certo grado di amichevolezza e che quando presenti in gran quantità rendono un viso amichevole. Tale idea sembra confermata dal nostro linguaggio comune, in cui si parla di “sguardo amichevole,” “sorriso amichevole,” etc. È facile però vedere che lo stesso sguardo di cui diciamo che rende un volto amichevole, se accompagnato da certe rughe sulla fronte, o da certe linee attorno alla bocca, etc. non sembra più amichevole né ostile. Perché allora ci viene da dire che è questo sguardo a parerci amichevole? Visto che, se sosteniamo che lo sguardo opera così “in alcune circostanze” (tali circostanze essendo gli altri elementi del viso) è solo perché abbiamo individuato un unico tratto a scapito degli altri, non è quindi sbagliato dire che è tale sguardo a determinare l’amichevolezza del volto? La risposta è che nella grande famiglia delle facce amichevoli c’è quello che potremmo chiamare un ramo principale, caratterizzato da un certo tipo di sguardo, un altro da un certo tipo di sorriso, etc.; anche se nell’ampia famiglia di facce ostili ci imbattiamo in quello stesso sguardo, quest’ultimo non mitiga l’ostilità dell’espressione. – Bisogna inoltre considerare che, quando si nota l’espressione amichevole di un volto, la nostra attenzione, i nostri occhi, si soffermano su un suo elemento specifico, cioè “lo sguardo amichevole” o “il sorriso amichevole,” etc. e non invece su altri tratti, che pure sono a loro volta responsabili dell’espressione amichevole.
“Non c’è quindi differenza tra dire qualche cosa e intenderla davvero e dirla senza intenderla?” Non deve esserci per forza una differenza mentre lo si dice, e se esiste, tale differenza potrebbe essere sempre diversa a seconda delle circostanze. Dal fatto che c’è ciò che chiamiamo un’espressione amichevole e un’espressione ostile dello sguardo non ne consegue che debba esserci una differenza tra lo sguardo di una faccia amichevole e lo sguardo di una faccia ostile.
Si sarebbe tentati di affermare “non si può dire che sia il tale tratto a rendere il viso amichevole, perché un altro elemento potrebbe smentirlo.” Ciò equivale ad affermare “dire qualcosa in tono convinto non può essere la caratteristica discriminante della convinzione, poiché in merito delle esperienze future potrebbero smentirti.” Nessuna di queste due frasi però è corretta. È vero che altri tratti facciali potrebbero smorzare l’amichevolezza dello sguardo, eppure in questo volto è proprio lo sguardo l’elemento amichevole più evidente.
Sono espressioni quali “l’ha detto sul serio” a rischiare maggiormente di portarci fuori strada. Confronta il fatto di intendere “non vedo l’ora di vederti” con il fatto di intendere “il treno parte alle 3.30.” Immagina che tu dica la prima frase a qualcuno e che poi ti chiedano “dicevi sul serio?”, in tal caso tu probabilmente penseresti ai sentimenti, alle esperienze che hai provato nell’affermarlo. E di conseguenza saresti portato ad asserire “non ti sei accorto che dicevo sul serio?” Immagina che invece, dopo aver dato a qualcuno l’informazione “il treno parte alle 3.30”, costui ti chieda “dici sul serio?”, a te verrebbe da rispondere “certamente. Perché non avrei dovuto dirlo sul serio?”
Nel primo caso saremo propensi a parlare di un sentimento caratterizzante l’intendere ciò che si dice, ma non nel secondo. Confronta anche cosa comporterebbe, nei due casi, il fatto di mentire. Nel primo diremo che la bugia è consistita nel dire ciò che abbiamo detto senza i sentimenti appropriati o addirittura provando il sentimento opposto. Se invece avessimo mentito nel dare informazioni sul treno, è probabile che parlando avremmo avuto esperienze diverse rispetto a quelle che avremmo avuto fornendo informazioni veritiere, ma la differenza qui non starebbe nell’assenza di un sentimento caratteristico bensì forse nella presenza di una sensazione di disagio.
È addirittura possibile mentire e avere al contempo un’esperienza netta di ciò che potremmo chiamare la caratterizzazione dell’intendere ciò che si dice… eppure in certe circostanze, e magari in circostanze ordinarie, affermando “dicevo sul serio” è proprio a una tale esperienza che ci si riferisce, poiché i casi in cui qualcosa potrebbe svelare il carattere menzognero di tali esperienze non vengono nemmeno presi in considerazione. In molti casi allora siamo propensi ad affermare che “dico sul serio” significa avere, mentre lo si dice, la tale-o-tal-altra esperienza.
Se per “credere” intendiamo una qualche attività, un processo avente luogo mentre affermiamo di credere, diremmo che credere è simile o equivalente a esprimere una credenza.
Obiezione interessante in proposito: poniamo che io dica “credo che pioverà” (e lo intenda davvero) e si voglia spiegare a un francese che non sa l’italiano che cosa ho creduto. Allora, affermeresti, se tutto quello che è accaduto mentre credevo ciò che credevo si riduce al fatto che ho pronunciato la frase, se gli si spiegassero tutte le parole che ho impiegato oppure gliele si traducessero con “il croit ‘pioverà’”, il francese dovrebbe comprendere. È evidente però che questo non gli illustrerebbe ciò che credo e di conseguenza, si potrebbe dire, non saremmo riusciti a comunicargli l’essenziale, cioè il mio vero e proprio atto mentale di credere. – Ma la risposta è che, anche se ad accompagnare le mie parole ci fosse stata tutta una serie di esperienze, e se queste esperienze avessimo potute trasmetterle al francese, ciononostante lui non avrebbe saputo che cosa io credevo. Perché “sapere quello che credo” non significa soltanto: provare ciò che provo io nel dirlo; proprio come sapere con quale intenzione ho fatto questa mossa nel gioco degli scacchi non significa conoscere il mio esatto stato mentale mentre la compio. Al contempo però, in certi casi, conoscere il mio stato mentale ti fornirebbe tutte le informazioni possibili sulla mia intenzione.
Diremo che per spiegare al francese che cosa credevo avremmo dovuto tradurgli le mie parole in francese. Non si può ''escludere'' che così facendo non gli avremmo detto nulla – neppure indirettamente – su ciò che, mentre esprimevo tale credenza, è accaduto “dentro di me.” Invece gli avremmo indicato una frase che nel suo linguaggio occupa una posizione simile a quella della mia frase nella lingua italiana. – Comunque si potrebbe dire che, almeno in certi casi, se lui fosse stato a suo agio con la lingua italiana, avremmo potuto spiegargli con esattezza molto maggior ciò che credevo, poiché in tal caso lui avrebbe saputo precisamente che cosa accadeva in me mentre dicevo la tal cosa.
Impieghiamo le parole “significare,” “credere,” “intendere” in modo che si riferiscano a certi atti o stati mentali in circostanze determinate; come con l’espressione “farti scacco matto” ci riferiamo all’atto di mangiare il re. Se però qualcuno, per esempio un bambino intento a cincischiare con i pezzi degli scacchi, ne mettesse alcuni sulla scacchiera e compisse il gesto di sbarazzarsi del re, non diremo che ha fatto scacco matto. Anche qui si potrebbe pensare che ciò che distingue un caso simile da un vero scacco matto è quanto ha avuto luogo nella mente del bambino.
Immagina che io abbia compiuto una mossa a scacchi e mi si chieda “intendevi fargli scacco matto?” Rispondo “sì” e allora mi domandano “come facevi a saperlo, se tutto ciò che ''sapevi'' era quel che accadeva dentro di te mentre facevi la mossa?” Io risponderei “in ''queste'' circostanze ciò equivaleva all’intenzione di fargli scacco matto”.
Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare.” – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non ci fosse la coppia di verbi “parlare”: :“pensare”  e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare,” “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero,” “dice una cosa e pensa il contrario,” “non intendevo una sola parola di quello che ho detto,” “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.
Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, etc., tutti fattori che chiameremmo mezzi di espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mezzi di espressività come il gioco della mimica facciale o dei gesti, e che possono essere considerati accompagnamenti del discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.
Torniamo all’esempio sull’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due impieghi diversi è la seguente: “non crediamo che le espressioni ’più scuro,’ ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una vaga somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari o più scuri.” Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine di oscurità.” Nel pronunciare tale frase, dovrei di certo adoperare un tono diverso rispetto a quello che impiegherei nel dire “disponi questi libri dal più chiaro al più scuro,” ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero tu riuscire a farmi capire,” magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
Ciò mi porta al punto successivo: quando mi si chiede “di che colore è quel libro?”, io rispondo “rosso” e poi mi si domanda “che cosa ti ha portato a chiamare ‘rosso’ tale colore?”, nella maggior parte dei casi io dovrei rispondere “nulla mi porta a chiamarlo rosso; cioè nessuna ''ragione''. L’ho soltanto guardato e ho detto ‘è rosso.’” Allora si è propensi a dire “di sicuro non è successo soltanto questo; perché io potrei guardare un colore, pronunciare una parola e non nominare comunque il colore.” Poi si si sarebbe tentati di proseguire “quando la pronunciamo per nominare il colore che abbiamo davanti, la parola ‘rosso’ ''arriva in una maniera particolare''.” Se però ci dicessero “descrivi questa particolare maniera” noi non ci sentiremmo preparati a fornire ''alcuna'' descrizione. Immagina che chiedessimo “tu, in ogni caso, ricordi che, ogniqualvolta in passato hai nominato un qualche colore, il nome del colore ti è arrivato ''in'' ''quella maniera particolare''?” – L’’interlocutore sarebbe costretto ad ammettere che non ricorda il modo specifico in cui ciò si è verificato in ciascuno dei casi. Infatti si potrebbe facilmente mostrargli l’atto di nominare un colore insieme a tutta una serie di esperienze diverse. Paragona casi come i seguenti: ''a'') metto un ferro nel fuoco per riscaldarlo finché la temperatura lo fa diventare rosso chiaro. Ti chiedo di guardare il ferro e voglio che tu mi dica di volta in volta quale stadio di ''calore'' ha raggiunto. Tu osservi e dici “comincia a farsi rosso chiaro.” ''b'') Siamo a un incrocio di strade e io dico “aspetta che diventi rosso. Quando arriva, avvertimi che attraverso.” Poniti la domanda: se in un caso gridi “verde!” e in un altro “corri!”, queste due parole ti giungono nello stesso modo o in modi diversi? A riguardo puoi dire qualcosa in termini generici? ''c'') Ti chiedo “qual è il colore del pezzo di materiale che tieni in mano?” (e che io non riesco a vedere). Tu pensi “com’è che si chiama questo? ‘Blu di Prussia’ o ‘indaco?’”
È estremamente degno di nota che, quando durante una conversazione filosofica diciamo “il nome di un colore ci giunge in una maniera particolare,” non ci preoccupiamo di pensare ai molti casi e modi diversi in cui tale nome ci giunge. - La nostra tesi principale è che l’atto di nominare è diverso dall’atto di pronunciare una parola in un’altra occasione in cui si guarda un colore. Quindi diremmo: “immagina che abbiamo contato degli oggetti posati su un tavolo, uno blu, uno rosso, uno bianco, uno nero… osservandoli uno dopo l’altro diciamo ‘uno, due, tre, quattro.’ Non è piuttosto facile rendersi conto che in questo caso, mentre pronunciamo le parole, accade qualcosa di diverso rispetto a ciò che succederebbe se dovessimo comunicare a qualcuno il colore degli oggetti? E non potremmo, con lo stesso diritto di prima, aver affermato ‘quando diciamo i numerali non succede nulla di più del fatto che li diciamo nel guardare l’oggetto’?” A ciò si può rispondere in due modi: primo, indubbiamente, perlomeno nella stragrande maggioranza dei casi, l’atto di contare gli oggetti sarà accompagnato da esperienze diverse da quelle che accompagnano l’atto di nominare i colori. Sarebbe agevole abbozzare una descrizione di tale differenza. Nel contare conosciamo un certo gesto, che consiste nello scandire il numero battendo il dito sul tavolo o nell’annuire con la testa. Nell’altro caso c’è invece un’esperienza che si potrebbe chiamare “concentrare la propria attenzione sul colore”, farsene un’impressione complessiva. Questo è il genere di cose a cui si fa riferimento dicendo “è facile scorgere che, rispetto a quando nominiamo i colori, nell’atto di contare gli oggetti accade qualcosa di diverso.” Ma non è affatto necessario che, mentre contiamo, abbiano luogo certe esperienze più o meno caratteristiche del contare e neppure che quando guardando l’oggetto ne nominiamo il colore, si verifichi il fenomeno particolare dell’atto di fissare tale colore. È vero che i processi rispettivamente del contare quattro oggetti e del nominarne i colori saranno, perlomeno nella maggioranza dei casi, diversi se presi nel loro insieme, ed è ''questo'' che ci colpisce; ma ciò non significa affatto che sappiamo che ogni volta, nei due casi in cui da un lato pronunciamo un numerale e nell’altro nominiamo un colore, accade per forza qualcosa di diverso.
Quando filosofiamo su simili argomenti finiamo quasi sempre per compiere operazioni di questo genere: ripetiamo a noi stessi una certa esperienza, per esempio fissiamo un certo oggetto e tentiamo di “leggervi scritto,” per così dire, il nome del suo colore. Ed è del tutto naturale che a forza di fare e rifare la stessa prova saremo portati a dire “quando pronuncio la parola ‘blu,’ accade qualcosa di specifico.” Perché siamo sempre consapevoli di stare ripetendo continuamente lo stesso processo. Chiediti però: si tratta dello stesso processo che, quando in varie occasioni – non mentre siamo intenti a filosofare – nominiamo il colore di un oggetto, compiamo normalmente?
In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, si direbbe, abbiamo un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confrontalo con l’esempio in cui passo a un uomo, che ho intento a cercare di accendersi la sigaretta, un fiammifero acceso con la mia sigaretta; oppure ancora il caso di muovere la mano per scrivere una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, etc. per parlare. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, mi sono servito apposta di un’espressione equivocabile. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere dell’intenzionalità. Da questo tipo di esempi sulla volontà si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio e si crede di poterli applicare – magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si potrebbero chiamare casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere,” “pensare,” “intendere,” “leggere,” etc. etc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso inequivocabile di lettura. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione di cui è l’intenzione e nel primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere il caso in questione da quello in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del fatto di ponderare e del fatto di decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli esempi restanti e in infiniti altri che avremmo potuto fare?
D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: costui rimugina “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto intenzionale. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto siffatto? Penso che il paradigma dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a confutarla; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo,’ ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di un qualche azione riflessa. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso del palmo che sfiora l’intonaco, se mantenendo l’arto rigido premo le nocche contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano di fretta dalla parete lasciando il braccio molle, tale braccio, senza da parte mia alcuna azione, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di casi in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.
Qui è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso di ritrovare me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa, inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira sotto le coperte, magari dicendomi “si sta per alzare?” Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del braccio c’è una differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”.
La descrizione di un risveglio in cui si dice “mi sono semplicemente ritrovato ad alzarmi dal letto” suggerisce che il soggetto intenda di essersi ''osservato'' intento ad alzarsi. Senza dubbio si può dire che un atteggiamento di osservazione è in questo caso assente. L’atteggiamento di osservazione però non è uno stato mentale continuo oppure un atto in cui noi, mentre per così dire compiamo l’osservazione, risiediamo per tutto il tempo. Esiste invece una famiglia di insiemi di attività ed esperienze che noi chiamiamo atteggiamenti di osservazione. In parole povere si potrebbe dire che nell’osservazione ci sono elementi di curiosità, di aspettativa, di sorpresa e anche, affermeremo, espressioni facciali e gesti di curiosità, di aspettativa e di sorpresa; e se sei d’accordo che per ognuno di tali casi c’è più di una sola espressione facciale e che possono esserci casi privi di un’espressione facciale caratteristica, ammetterai che a ciascuna delle tre parole corrisponde una ''famiglia'' di fenomeni.
Se avessi detto “mentre lo informavo che il treno partiva alle 3.30 e mentre credevo che le cose stessero così, non è accaduto nient’altro oltre al fatto che ho pronunciato la tale frase”, poi qualcuno mi avesse ribattuto “di certo non può ridursi tutto a questo, dato che ci si può ‘limitare a dire una frase’ senza crederci,” io avrei risposto “non volevo dire che tra parlare credendo ciò che si dice e parlare senza credere ciò che si dice non c’è differenza; ma la coppia ‘credere’: :‘non credere’ si riferisce a differenze in casi diversi (le differenze formano una famiglia), non a un’unica differenza, ovvero quella tra la presenza e l’assenza di un certo stato mentale”.
Consideriamo alcune caratteristiche di atti volontari e involontari. Nel caso del sollevamento del carico pesante, le varie esperienze dello sforzo sono naturalmente quelle che caratterizzano in maniera più netta il sollevamento volontario del peso. Confronta invece con quello appena tratteggiato il caso di scrivere volontariamente, qui nella maggioranza dei casi non ci sarà sforzo; anche se abbiamo l’impressione che scrivere stanchi la mano e tenda i muscoli, non si tratta dell’esperienza di “tirare” e “spingere” che noi chiameremmo tipiche azioni volontarie. Paragona inoltre il modo in cui sollevi la mano per alzare un peso dal modo in cui la sollevi, per esempio, per indicare qualcosa sopra di te. Quest’ultimo va certamente annoverato tra gli atti volontari, anche se quasi certamente l’elemento dello sforzo resterà del tutto assente; infatti il sollevare il braccio per indicare un oggetto è molto simile al sollevare un occhio per guardarlo e qui ci riesce quasi impossibile concepire un qualche sforzo. – Descriviamo ora un atto involontario di sollevare il braccio. C’è il caso del nostro esperimento, caratterizzato dall’assenza totale di tensione muscolare e dal nostro atteggiamento di osservazione nei confronti dell’alzarsi del braccio. Abbiamo però appena esaminato un esempio in cui non c’era tensione muscolare e ci sono casi in cui, nonostante il fatto che assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti dell’azione in corso, quest’ultima la chiameremmo volontaria. Ma in un’ampia classe di casi è proprio la specifica impossibilità ad assumere un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione a caratterizzarla in quanto volontaria: prova per esempio, nell’atto di sollevarla volontariamente, a osservare la tua mano alzarsi. Naturalmente, mentre per così dire compi l’esperimento, la ''vedi'' alzarsi, ma non riesci a seguirla con gli occhi nello stesso modo. Ciò potrebbe diventare più chiaro se confronti due casi in cui si seguono con gli occhi due linee su un foglio; ''A'') essendo una linea irregolare come questa ***GHIRIGORO*** e ''B'') essendo una frase scritta. Scoprirai che soffermandosi su ''A'') lo sguardo, per così dire, tende continuamente a cadere e a intopparsi e invece nel leggere la frase ''B)'' scivola con scorrevolezza.
Adesso prendi in considerazione un caso in cui assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione volontaria, intendo il caso molto istruttivo del disegnare un quadrato con le sue diagonali mettendo uno specchio sul foglio e muovendo la mano assecondando ciò che si vede nello specchio. Qui si è propensi a dire che le nostre vere ''azioni'', quelle a cui la volizione si applica ''immediatamente'', non sono i movimenti della mano ma qualcosa che li precede, come le azioni dei muscoli. Siamo portati a paragonare tale caso con il seguente: immagina di avere davanti una serie di leve, con le quali, per mezzo di un ingranaggio nascosto, dirigi i movimenti di una matita su un foglio. Avremmo quindi dei dubbi su quale leva tirare per produrre i movimenti desiderati della matita e potremmo dire di aver tirato ''apposta'' tale leva, pur non volendo d’altronde produrre il risultato sbagliato che ne è conseguito. Nonostante ci si suggerisca da solo facilmente, un simile paragone è foriero di molti equivoci. Perché nel caso in cui ci troviamo di fronte delle leve, prima di tirarne una c’è stato qualcosa come l’atto di decidere quale tirare. Ma la nostra volizione agisce per così dire su una tastiera di muscoli, scegliendo quale sarà il prossimo da utilizzare? – A caratterizzare alcune delle azioni che chiamiamo volontarie è il fatto che, in qualche modo, “sappiamo cosa stiamo per fare” prima di farlo. In questo senso diciamo di sapere qual è l’oggetto che indicheremo e quello che chiameremmo “l’atto di sapere” potrebbe consistere nel guardare l’oggetto prima di indicarlo e nel descrivere la sua posizione con parole o immagini. Potremmo descrivere il processo di disegnare il quadrato guardando lo specchio dicendo che i nostri atti erano intenzionali per quanto riguarda l’aspetto motorio ma non per quanto concerne l’aspetto visivo. In quanto prova di tale affermazione, per esempio, potremmo indicare la nostra abilità di ripetere a comando un movimento della mano che ha generato un risultato sbagliato. Ovviamente però sarebbe assurdo dire che il carattere motorio di questo movimento volontario consisteva nel fatto che prima sapevamo ciò che avremo fatto, come se avessimo avuto nella mente un’immagine della sensazione cinestetica e avessimo deciso di generare tale sensazione. Ricorda l’esperimento (?) p. 62; se qui, invece di indicare da lontano il dito che ordini al soggetto di muovere, glielo tocchi, costui lo muoverà sempre senza alcuna difficoltà. Qui si è tentati di dire “certo che ora lo posso muovere, perché adesso so quale dito mi è stato chiesto di muovere.” Questo ci dà l’idea che adesso io ti abbia mostrato che muscolo contrarre per causare il risultato desiderato. La parola “certo” dà l’impressione che, toccandoti il dito io, ti abbia fornito un’unità di informazione per dirti cosa fare. (Come se di solito, quando dici a un uomo di muovere il tale dito, lui potesse eseguire l’ordine perché sa come causare suddetto movimento).
(Qui è interessante pensare al caso in cui succhia un liquido da un tubo; se ti chiedessero con quale parte del corpo hai succhiato, tu saresti propenso a dire la bocca, ma in realtà si è trattato degli stessi muscoli che impieghi per respirare).
Chiediamoci ora cosa dovremmo chiamare “parlare in maniera involontaria.” Innanzitutto osserva che di norma quando ti esprimi volontariamente poi faticheresti molto a descrivere l’accaduto dicendo che con un atto di volizione hai mosso la bocca, la lingua, la laringe, etc. in quanto mezzi per produrre certi suoni. Qualunque cosa accada nella tua bocca, laringe, etc. e qualunque sensazione tu parlando sperimenti in tali zone, sembrerebbe trattarsi quasi di un fenomeno secondario che accompagna la produzione dei suoni e la volizione, vorremmo dire, opera sui suoni stessi senza meccanismi intermedi. Ciò mostra la vaghezza della nostra idea di tale “volizione” attiva.
Passiamo al parlare in modo involontario. Immagina di dover descrivere un esempio del genere… come faresti? C’è ovviamente il caso del parlare nel sonno; qui la caratteristica saliente è che, mentre accade, non ne sai nulla e in seguito non ti ricordi niente. Di certo però questa non la chiameresti la caratterizzazione di un’azione involontaria.
Un esempio migliore di discorso involontario immagino che possa essere quello delle esclamazioni involontarie: “oh!”, “aiuto!” e simili; tali enunciazioni sono analoghe a gemiti di dolore. (Ciò per esempio potrebbe farci riflettere “sulle parole in quanto espressioni emotive”). Si potrebbe dire “di certo questi sono dei buoni esempi di discorso involontario, perché non solo in suddetti casi non c’è un atto di volizione tramite cui parliamo, ma in molte circostanze siffatte parole le pronunciamo ''contro'' la nostra volontà.” Io direi: certamente ciò lo chiamerei parlare in maniera involontaria; concordo anche sull’assenza di un atto di volizione che preceda o accompagni tali parole… se per “atto di volizione” tu intendi certi atti di intenzione, premeditazione o sforzo. Eppure in molti casi di discorso volontario io non percepisco alcuno sforzo, molto di quello che dico volontariamente non è premeditato e non conosco nessun atto di intenzione che preceda le mie enunciazioni.
Urlare di dolore contro la propria volontà lo si potrebbe paragonare a sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno, pungolandoci con una pistola tra le costole e ordinando “mani in alto!”, ci costringesse a sollevare le braccia.
Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, in parte appartenenti al tuo idioma natio, in parte a lingue straniere a te più o meno familiari, in parte a linguaggi che ti sono completamente sconosciuti (oppure –in fondo qui è lo stesso – termini senza senso inventati apposta.) Alcune delle parole della mia madrelingua sono ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa,” “tavolo,” “uomo” sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime imparate da un bambino, e alcune di queste, come “mamma,” “papà,” appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici quali “carburatore,” “dinamo,” “fuso;” etc. etc. Tutte queste parole mi vengono lette e dopo ognuna io, a seconda del fatto che la capisco oppure no, devo dire “sì” o “no.” Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso i termini che ho compreso e quando non ho capito le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no,” insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostra una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non porterà alla luce nessuna esperienza che saremo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze simili a queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo.” Oppure sento “corroborazione”… dico a me stesso “vediamo un po’,” mi sovviene il vago ricordo di un caso inerente e dico “sì.” Sento “aggeggio,” immagino l’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì.” Sento “mamma,” che mi colpisce per il suo buffo infantilismo… “sì.” Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio,” mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico,” magari cerco di rintracciarne il significato per etimologia, ma non ci riesco e affermo “no.” In un altro caso dire a me stesso “sembra cinese… no.” Etc. D’altra parte ci sarà una grande varietà di casi in cui, oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta, non sarò consapevole di altro. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non avevano assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci sarà una classe che potremmo chiamare esperienze tipiche del capire ed esperienze tipiche del non capire. In contrasto con tale classe di casi ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrò dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.
Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo “sì” tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’, qualcosa è accaduto”, sarei portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero,’ non ho provato una specie di sentimento grezzo?” Tuttavia, quando sento o impiego tale parola, provo sempre il sentimento a cui mi riferivo, rammento di averlo sempre provato, mi ricordo addirittura una serie di, poniamo, cinque sensazioni, alcune delle quali ho sperimentato in ciascuna delle occasioni in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento grezzo” appena menzionato non è un’esperienza caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero dell’atto di filosofare sul “capire?”
Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare “sì” o “no” esperienze caratterizzanti il fatto di capire o il fatto di non capire, ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? Ci troviamo qui in una difficoltà bizzarra: da un lato sembriamo non avere ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze – ha luogo. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato affermare che in un tale sempio tutto ciò che succede è che sento o dico la parola in questione. Perché così parrebbe che stia affermando che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso ciò è vero e in un altro senso ciò è falso.
Se qualcuno mi parlasse con una mimica facciale gentile, è necessario che in qualsiasi intervallo di tempo il suo viso debba mostrarsi in modo tale che vendendolo in qualunque altra circostanza io dovrei chiamarlo un viso dall’espressione inequivocabilmente gentile? Altrimenti significa che a interrompere tale “mimica facciale gentile” ci sono stati dei momenti di inespressività? – Certamente nelle circostanze che ho presupposto non bisognerebbe affermare ciò e noi non abbiamo l’impressione che l’apparenza del viso in questo preciso istante, che pure presa da sola sarebbe da considerarsi inespressiva, interrompa la sua espressività complessiva.
Analogamente, con la locuzione “capire una parola” non per forza ci riferiamo a ciò che succede mentre la diciamo o la sentiamo pronunciare, ma al contesto complessivo dell’evento della sua enunciazione. Ciò si applica anche all’asserire che qualcuno parla come un automa o un pappagallo. Parlare comprendendo ciò che si dice è sicuramente diverso dal parlare come un automa, ma ciò non significa che parlare nel primo caso sia sempre accompagnato da qualcosa che invece manca nel secondo caso. Proprio come, quando diciamo che due persone si muovono seguendo diversi percorsi circolari, non significa che per strada non possano incrociarsi.
E quindi in molti casi agire in maniera volontaria (o involontaria), piuttosto che per un’esperienza che chiameremo caratteristica di un’azione volontaria, si caratterizza in quanto tale per via di un vasto numero di circostanze in cui l’azione ha luogo. In questo senso è vera l’affermazione secondo la quale ciò che è successo quando mi sono alzato dal letto – negli esempi in cui certamente non lo chiamerò un atto involontario – è che mi sono ritrovato intento ad alzarmi. O meglio che questo è un caso possibile, poiché naturalmente ogni giorno succede qualcosa di diverso.
I problemi di cui discutiamo da ) erano tutti connessi all’uso della parola “particolare.” Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando riconosciamo il colore come rosso la parola “rosso” ci arriva in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza.
L’impiego della parola “particolare” è atta a produrre una specie di delusione e in termini approssimativi tale delusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, affermeremmo, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare enfasi. Il primo impiego lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato asserisco “questo viso mi procura un’impressione particolare che non so descrivere.” Ciò equivale a dire “il tale volto mi dà una forte impressione.” Questi esempi riuscirebbero più notevoli se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare,” poiché a quest’ultima possiamo applicare le stesse osservazioni. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini,” la parola “peculiare” può essere impiegata semplicemente alla stregua di un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ti dirò di cosa sa questo sapone…”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''” oppure “ha un odore assolutamente peculiare,” qui “peculiare” significa un’espressione come “fuori dal comune,” “straordinario,” “degno di nota”.
Potremmo domandare “intendevi che ha un odore peculiare per distinguerlo da un sapone neutro, oppure che aveva questo odore, diverso da qualche altro odore, oppure intendevi entrambe le cose?” – Ora di cosa si è trattato quando filosofando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso e ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare? Stavo per descrivere il modo in cui mi è sovvenuta la parola “rosso”, come per affermare “quando conto degli oggetti colorati, mi viene sempre più in fretta della parola due” oppure “arriva sempre con un trasalimento,” etc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi giunge in una maniera notevole? No, non è esattamente nemmeno questo. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati durante un’attività qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, etc. etc.) e, nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare,” di’ a te stesso “ora mi trovo in un atteggiamento particolare.” Scoprirai di poterlo asserire in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in un atteggiamento particolare? E di certo non intendevi affermare che proprio allora ti trovavi in atteggiamento particolarmente degno di nota. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato, come è stato osservato, sulle tue sensazioni. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” Tu magari intendevi così, ma l’espressione “mi giungono in modi diversi” è in sé passibile di malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma,” specificando così le loro maniere di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza,” sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in maniere diverse e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari affermeresti “certo che arrivano in modi diversi; ''sono'' semplicemente diversi.” – Si potrebbe descrivere il problema dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo decidere quale utilizzo farne, anzi senza avere alcuna intenzione di impiegarla in alcun modo. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho la sensazione di poter dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome come “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco in tale modo quello in cui in simili occasioni “rosso” mi si è sempre presentato alla mente, nemmeno per sostenere che ci sono, poniamo, quattro modi, per esempio A, B, C, D, in uno dei quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui giungono “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” quale nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il tuo sangue?”, “due.” Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui giungono tali parole” indipendentemente dai rispettivi modi di impiego… ovvero dai modi appena descritti. Volevi dire che nell’esperienza, quando utilizzata in ''questo'' modo, la parola viene sempre nel modo A, ma la prossima volta può giungere invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi affermare nulla del genere.
Ciò che è particolare nel modo in cui “rosso” ti si presenta è che arriva mentre tu stai filosofando su di esso, proprio come, quanto ti sei concentrato, quel che era particolare nella posizione del tuo corpo era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo,” ma in realtà non lo distinguiamo da nessun’altra modalità. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se l’enfasi fosse davvero un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza” e se mi si chiede “che modo è?” risponderei “prima di entrare, sporge sempre la testa nella porta.” Qui mi riferisco a un elemento definito e potrei dire che B adotta la stessa maniera o che A invece non la adotta più. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma.” Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire descrizioni di un qualche elemento specifico del suo atteggiamento e la mia frase potrebbe significare solo “sto osservando A che è seduto e fuma.” – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo dovrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto.” Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, ''questo'' modo” e magari la si potrebbe accompagnare con un abbozzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. Invece la mia espressione “ha un modo particolare…” la si potrebbe tradurre semplicemente in “sto studiando il suo atteggiamento.” Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la proposizione; nella forma originaria sembrava descrivere un circolo vizioso, ovvero la parola “particolare” qui pare essere impiegata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, ovverosia guardiamo al suo utilizzo come a un caso specifico dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in ''questo'' modo” piuttosto che “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione.” La mia espressione ha fatto sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui è arrivata la parola “rosso”, mentre invece ciò che mi porta a impiegare la parola “particolare” qui è il fatto che il mio atteggiamento nei confronti del fenomeno che sto enfatizzando è: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, etc.
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa riflettendo su problemi filosofici. Molti intoppi sorgono in tale modo, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo per poi spiegarlo, quando il termine è impiegato intransitivamente, ricorrendo a una costruzione riflessiva.
Quindi diciamo “con ‘kilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua,” “con ‘A’ intendo ‘B’,” dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “ho detto che ero malato e lo intendevo.” Qui di nuovo intendere ciò che si dice lo si potrebbe chiamare “ripercorrerlo,” “enfatizzarlo.” Ma l’impiego di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “che ''cosa'' intendevi?” e rispondere “con quello che ho detto intendevo quello che ho detto;” ovvero trattando il caso di “intendo ciò che dico” come un caso speciale di “dicendo ‘A’ intendo ‘B’.” Infatti ci si serve dell’espressione “intendo ciò che intendo” per dire “non ho una spiegazione in merito.” La domanda “che cosa significa questa frase ''p''?”, se non chiede una traduzione di ''p'' in altri simboli, non ha più senso di “quale frase viene formata con questa sequenza di parole?”
Immagina che alla domanda “che cos’è un kilogrammo?” io risponda “è ciò che pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “be’, quanto pesa un litro d’acqua?”
Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per sottolineare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate.” Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso,” “sono quello che sono,” “le cose sono quelle che sono”, oppure “è andata così.” Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la questione è chiusa,” ma perché dovremmo rimpiazzare “la questione è chiusa” con “è andata così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “è andata così” dirò “la questione è chiusa.” Questo modo di esprimerci, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. Archiviarla è un atto analogo al disegnarci attorno una linea, come a volte si fa attorno al risultato di un calcolo per rimarcarne la definitività. Ma è anche un modo di metterlo in rilievo, di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “è andata così” è sottolineare il “così”.
Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!” Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di stigmatizzare delle alternative, come nel caso di “o piove o non piove; se piove resterò nella mia stanza, se non piove…” La prima parte della frase non contiene informazioni (e nemmeno “prendere o lasciare”). Invece di “o piove o non piove” avremmo potuto dire “considera i due casi…” La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione.
A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) (?) si è tentati di adoperare l’espressione “''naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…” Raddrizzandola otterremo: “stabiliamo che il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato sia…” Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sulla gamma più alta dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.
Consideriamo il caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare” in cui tale termine, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi… il caso in cui studiamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: ***EMOJI***. Lascia che tale viso ti susciti delle impressioni. Puoi essere portato a dire: “di sicuro non vedo meri tratteggi. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''.” Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto a mo’ d’introduzione della descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire e dire per esempio “sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni.” Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione della faccia. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa,” diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che possa venire staccato dal disegno del volto. È come se potessimo dire “questo viso ha un’espressione particolare: proprio questa” (indichiamo qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, indicherei il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti invece di uno solo.) A contribuisce all’illusione è il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “la faccia ''ha'' un’espressione particolare.” Quando invece diciamo “questo ''è'' un volto peculiare,” le cose assumono un altro aspetto. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato).
“Questo viso ha un’espressione particolare.” Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
Ciò che è in corso qui è l’atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è il volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori dalla faccia che vediamo, bensì che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che la faccia eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse un prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del viso fosse trovare il prototipo a cui corrisponde… come se nella nostra mente ci fosse un calco e l’immagine che scorgiamo fosse caduta in tale calco, combaciandoci. Invece abbiamo fatto sprofondare l’immagine nella mente, in cui ha lsciato un calco.
Ovviamente, quando diciamo “questa è una ''faccia'', non solo dei tratti di penna,” stiamo operando una distinzione tra un disegno così ***EMOJI*** e uno così ***SCARABOCCHIO***. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, etc. Se invece gli chiedi: “questo che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee a casaccio.” Ora pensa a cercare un uomo in un mosaico di immagini; in tal caso accade spesso che quello che a prima vista sembra “solo linee a casaccio” poi ci appaia come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è una faccia.” Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che riconosciamo il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come una faccia''” va paragonato invece al fatto di scorgere il disegno seguente
<nowiki>***</nowiki>CUBBOPSEUDO***
o come un cubo o come una figura piana consistente di un quadrato e due rombi; oppure con il vedere questo
<nowiki>***</nowiki>QUAD***
“come un quadrato con le diagonali” o “come una svastica,” ovvero caso un caso limite di
<nowiki>***</nowiki>SIEG***
oppure ancora con il fatto di vedere i quattro puntini …. come due paia di punti uno accanto all’altro o due paia alternate, o un paio circoscritto dall’altro paio, etc.
Il caso di “vedere
<nowiki>***</nowiki>HEIL***
come una svastica” è di speciale interesse perché tale espressione potrebbe significare che noi siamo, in qualche modo, affetti dall’illusione ottica secondo la quale il quadrato non sarebbe del tutto chiuso e si scorgerebbero i pertugi che distinguono la svastica dal nostro disegno. D’altronde è evidente che non è questo che intendevamo affermando “vedere il disegno come una svastica.” L’abbiamo osservata in un modo che suggeriva la descrizione “la vedo come una svastica.” Forse sarebbe stato meglio dire “la vedo come una svastica chiusa”… ma allora qual è la differenza tra una svastica chiusa è un quadrato con le diagonali? Penso che in questo caso sia facile riconoscere “ciò che accade quando vediamo la figura come una svastica.” Credo che si tratti del fatto che ripercorriamo la figura con gli occhi in un modo particolare, cioè del fatto di fissarne il centro, di seguirne un raggio con il suo lato adiacente, di tornare verso il centro, di prendere il raggio successivo con il suo lato connesso operando dunque una rotazione verso destra, etc. Ma questa ''spiegazione'' del fenomeno di vedere la figura come una svastica non è per noi di rilevanza fondamentale. Ci interessa solo nella misura in cui contribuisce a mostrarci che l’espressione “scorgere la figura come una svastica” non significa vedere ''questo'' per ''quello'', vedere una cosa come un’altra cosa quando cioè, in sostanza, ''due'' oggetti visivi sono entrati nel processo in corso. – Quindi anche vedere la prima figura come un cubo non significava “prenderla per un cubo.” (Poiché potremmo non aver mai visto un cubo e comunque avere l’esperienza di “vederlo come un cubo”).
In tal modo “vedere dei trattini come un volto” non comporta un confronto tra un gruppo di trattini e un vero volto umano; tuttavia tale forma di espressione suggerisce nella maniera più stringente che si si stia alludendo a un qualche confronto.
Considera anche l’esempio: guarda la W prima “come una doppia U maiuscola” e poi come una M maiuscola rovesciata. Osserva in che cosa consiste fare l’una e l’altra cosa.
Distinguiamo tra vedere il disegno di un viso e vederlo come qualcos’altro oppure “dei trattini a casaccio.” Distinguiamo anche tra il fatto dare un’occhiata superficiale a un disegno (vedendolo come un volto) e il fatto di lasciare che il viso eserciti su di noi la sua piena impressione. Sarebbe però bizzarro dire “sto lasciando che la faccia eserciti su di me una ''particolare'' impressione” (salvo in quei casi in cui si potrebbe dire di poter fare in modo che lo stesso volto produca in noi diverse impressioni). Nel lasciare che il viso si imprima in me e nel contemplare la sua “espressione particolare” non si paragonano l’un l’altra due cose inerenti alla molteplicità di una faccia; c’è solo ''una'' cosa che viene caricata di enfasi. Assorbendone l’espressione, non trovo nella mente un prototipo di tale espressione; invece, per così dire, da tale espressione ricavo un sigillo.
Ciò descrive anche quello che accade quando in ) diciamo a noi stessi “la parola ‘rosso’ giunge in una maniera particolare…” A questo punto si potrebbe ribattere “ho capito, continui a ripetere una qualche esperienza a te stesso e intanto la osservi”.
Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni paragonando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali… confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a fare degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, ovverosia dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che combaciano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si individua un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di affermare che, in molti dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente ciò che ci induce a fornire una tale descrizione è il fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo nella posizione in cui l’avevo visto per l’ultima volta dieci anni fa.
Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo in atto nella mente e fuori quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' mentre lo riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!” Quindi affermeremmo che una delle tipologie del fatto di riconoscere qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, etc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e vediamo un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma con cui poi concorda, oppure combacia con un calco pronto per il suo ingresso nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non si staglia alcun calco né paragone, c’è solo questa forma, non altre a cui paragonarla e, per così dire, apostrofarla con un “ma certo!” Come quando mentre fai un puzzle da qualche parte resta un foro, poi vedi un pezzo palesemente combaciante e lo metti nello spazio vuoto dicendoti “ma certo!” Qui però esclamiamo “ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con il calco, nel caso invece in cui scorgiamo il disegno come una faccia ci troviamo in un atteggiamento analogo ma ''senza'' ragione.
La stessa strana illusione che ci affligge quando sembra che cerchiamo il qualcosa che una faccia esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai tratti posti di fronte a noi… questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci un motivo e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, affermiamo “questo motivo dice ''qualcosa''” ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla in cui potrei esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendolo, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale,” sarebbe grossomodo come affermare “esprime solo se stesso.” – “Di certo però, quando lo suoni, non lo suoni ''in un modo qualunque'' bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, etc.”
- Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando affermo “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima,” etc. (Ciò peraltro mostra che cos’è “una giustificazione” o “una spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare un motivo e dire “non è che così che andrebbe suonato, ma così;” e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?” L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che è per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiedesse “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettare in un modo particolare e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che il motivo ''effettivamente fischiettato'' (e non una ''sua'' immagine).
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale concepita quale contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo viso” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Considera anche l’espressione “di’ a te stesso che è un ''valzer'' e lo eseguirai correttamente”.
Ciò che chiamiamo “capire una frase” intrattiene, in molti casi, una somiglianza molto maggior con la comprensione di un tema musicale di quel che saremmo portati a pensare. Non intendo affermare che il comprendere un tema musicale è più simile all’immagine che tendiamo a fare a noi stessi del capire una frase; ma che tale raffigurazione è sbagliata e che, rispetto a quanto ci parrebbe a un primo sguardo, capire una frase è un fatto ben più prossimo a ciò che davvero ha luogo quando comprendiamo un motivo musicale. Perché il capire una frase, per così dire, indica una realtà fuori dal linguaggio. Invece si potrebbe dire “capire una frase significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto della frase è ''nella'' frase”.
Ora possiamo tornare alle idee di “riconoscimento” e “familiarità” e proprio al casoo di riconoscimento e familiarità che ha avviato le nostre riflessioni sull’impiego di questi termini e di molti altri connessi. Mi riferisco all’esempio della lettura, diciamo, di una frase scritta in un linguaggio che si conosce bene. – Leggo tale frase per vedere com’è l’esperienza della lettura, cosa “succede davvero” quando si legge e ne ricavo un’esperienza particolare che prendo per l’esperienza della lettura. Sembrerebbe che quest’ultima non consista solo nel vedere le parole e nel pronunciarle ma anche in un’esperienza che potrei chiamare di carattere intimo. (Come se fossi in rapporti intimi con le parole “io leggo”).
Nel leggere, mi viene da dire, le parole pronunciate arrivano in una maniera particolare; anche le parole scritte che leggo non mi appaiono come dei meri scarabocchi. Al contempo non sono in grado di indicare, o afferrare, tale “maniera particolare”.
Il fenomeno di vedere e pronunciare le parole sembra avvolto da un’atmosfera particolare. Non riconosco però tale atmosfera come quella che caratterizza sempre la lettura. La avverto invece se leggo un rigo cercando di capire che cosa sia leggere.
Quando percepisco tale atmosfera, mi trovo nella stessa situazione di un uomo che lavora nella propria stanza, legge, scrive, parla etc. e tutt’a un tratto concentra la propria attenzione su un leggero rumore ovattato, uno di quei brusii di fondo che si sentono quasi sempre, soprattutto nelle città (la lieve cacofonia generata da tutti i vari rumori della strada, il fruscio del vento, della pioggia, delle botteghe, etc.). Potremmo immaginare che quest’uomo pensi che un rumore particolare sia un elemento comune di tutte le esperienze da lui avute nella camera in questione. Allora noi gli segnaleremmo che per la maggior parte del tempo non si è accorto di nessun rumore esterno e che il brusio che sentiva non era sempre lo stesso (a volte tirava vento, a volte no, etc.).
Quando abbiamo detto che oltre alle esperienze di vedere e parlare c’era un’altra esperienza etc. ci siamo espressi in maniera equivocabile. Ciò equivale ad affermare che a certe esperienze se ne aggiunge un’altra. – Prendiamo ora l’esperienza di vedere una faccia triste, poniamo, in un disegno… possiamo dire che il fatto di vedere il disegno come un volto triste non equivale “solo” a vedere un qualche insieme di tratti (pensa all’immagine di un puzzle). Ma la parola “solo” qui pare sottendere che, nell’atto di vedere il disegno della viso, all’esperienza di scorgere dei meri tratti di penna si aggiunge una qualche esperienza; come se dovessi dire che vedere il disegno come faccia consiste di due esperienze, di due elementi.
Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diversi elementi o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa.” Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa.” Paragona questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere.” Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera l’affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza di gusto è composta dal sapore dello zucchero e dal sapore del tè.” Oppure: “se sento un accordo in do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire do, poi mi, poi sol.” D’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada.” Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate in corrispondenza di certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire una vocale cantata insieme alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di individuare nell’esperienza composita le sue varie esperienze costituenti?
Anche se l’espressione secondo la quale vedere un disegno come una faccia non è soltanto vedere dei tratti sembra indicare una qualche somma di esperienze, certamente non diremo che, quando scorgiamo il disegno come una faccia, abbiamo anche l’esperienza di vederla come dei meri tratti di penna e ''accanto'' qualche altra esperienza. Ciò si chiarisce ulteriormente se immaginiamo che qualcuno dica che vedere il disegno
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come un cubo consisteva nel vederlo come una figura piana e in più nell’avere l’esperienza della sua profondità.
Quando ho avuto l’impressione che, sebbene durante la lettura una certa esperienza costante continuasse indefinitamente, in un certo senso non riuscivo ad afferrarla, la mia difficoltà sorgeva dall’errore di voler paragonare tale caso con quello in cui una parte della mia esperienza può essere considerato l’accompagnamento di un’altra. Dunque talvolta ci viene la tentazione di chiedere “se mentre leggo sento questo ronzio costante, ''dov''’è?” Vorrei fare il gesto di indicare e non c’è nulla da indicare. Il termine “afferrare” esprime la stessa analogia ricca di malintesi.
Invece di “dove si trova quest’esperienza costante che sembra protrarsi mentre leggo?”, bisognerebbe domandare “con che cosa di insito nell’espressione ‘una particolare atmosfera avvolge le parole che leggo’ sto confrontando questo caso?”
Cercherò di elucidarlo per mezzo di un esempio analogo: di fronte a un oggetto tridimensionale simile al disegno
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in noi tende a sorgere una perplessità esprimibile con la domanda “in che consa consiste il vederlo tridimensionalmente?” In realtà tale interrogativo significa “che cos’è che, quando lo vediamo tridimensionalmente, si aggiunge al semplice fatto di vedere l’oggetto?” Ma quale risposta possiamo aspettarci? Come dice Hertz “aber offenbar irrt die Frage in Bezug auf die Antwort, welche sie erwartet” (p. 9, Die Prinzipien der Mechanik). È la domanda stessa a tenere la mente premuta contro il muro spoglio, impedendole così di trovare l’uscita. Per mostrare a un uomo la via d’uscita bisogna innanzitutto mostrargli i malintesi generati dalla domanda.
Osserva una parola scritta, per esempio “leggere.” “Non è solo uno scarabocchio, è ‘leggere,’” diremo. “Ha una fisionomia definita.” Ma che cos’è che sto dicendo davvero su tale termine? Una volta raddrizzata, di che affermazione si tratta? “La parola cade,” si sarebbe tentati di dire “in un calco che la mia mente le ha preparato ''tempo prima''.” Poiché però non percepisco al contempo sia la parola sia il calco, la metafora della parola adatta al calco non può alludere all’esperienza di confrontare un foro e la forma solida prima che li si faccia combaciare, bensì all’esperienza di vedere la forma solida accentuata da uno sfondo particolare.
''i'') ***CELLULAME DOPPIO***
''ii'') ***CELLULAME***
''i'') sarebbe l’immagine del foro e della forma solida prima che li si faccia combaciare. Vediamo due cerchi e li possiamo confrontare. ''ii'') è l’immagine di un solido posto nel foro. C’è un solo cerchio e ciò che chiamiamo il calco si limita ad accentuare oppure, come abbiamo detto talvolta, a enfatizzare.
Sono tentato di affermare “questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare.” – Al posto però di “posso vedere ''questo'' come ''questa'' faccia” dovrei dire “lo vedo come ''una'' faccia.” Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come ''una'' faccia, lo vedo come ''questa'' faccia!” Nella seconda metà di questa frase la parola “faccia” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come una faccia, lo vedo ''così''”.
Immagina che io affermi “questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio,” lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così'',” vedo la faccia… questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi pare questo, poi mi pare quello” e qui “questo” e “quello” si accompagnerebbero ai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco si impiega questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi mi sto rivolgendo? Supponi che la risposta sia “parlo da solo.” Ciò però è ancora insufficiente. Qui si rischia gravemente di credere di sapere cosa fare con una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’utilizzo, per esempio, delle parole “questo” e “quello?”… oppure: quali sono i diversi impieghi per cui ci serviamo di tali termini? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che viene loro appiccicato addosso indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi è un utilizzo della parola “questo” ad accompagnare il gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali in questo modo,” indicando la svastica. A proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così ***QUAD***, poi mi appare così ***QUAD***.” E questo di certo non è l’impiego che facciamo della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso chiamiamo immagini delle raffigurazioni mentali, perché in certi casi sono paragonabili a immagini e in altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali dell’impiego di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto di ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze sosterremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; diciamo che non è cambiata perché è rimasta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” la si impiega in modi diversi a seconda del fatto che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con un meccanismo, e un’altra grammatica se sono invece dei ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedermi: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, nello stesso momento in cui li ho riconosciuti nelle occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per il futuro? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”
Il pericolo dell’inganno in cui ci siamo imbattuti diventa evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “questo” e “quello” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che nominare consista nel correlare in modo determinato e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con qualcosa. Come impieghiamo tale correlazione sembra pressoché secondario. (Si potrebbe quasi immaginare che il nominare comporti uno specifico atto sacramentale generante una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
Consideriamo ora a mo’ di esempio il seguente gioco linguistico: A manda B in varie case della loro città per ricevere beni di diverso tipo da molte persone. A fornisce a B delle liste. In cima a ognuna delle liste c’è un fregio e B è addestrato a recarsi nella casa sulla cui porta trova lo stesso fregio, il nome della casa. Nella prima colonna di ogni elenco trova uno o più fregi che ha imparato a leggere. Quando entra nella casa pronuncia suddette parole e tutti gli inquilini, nel sentire tali suoni che sono i loro nomi, sono stati addestrati a corrergli incontro. Poi B si rivolge a ciascuno a turno e mostra i due fregi adiacenti che sulla lista accompagnano ogni nome. Al primo dei due gli abitanti della città sono stati addestrati ad associare un tipo specifico di oggetti, per esempio delle mele. Il secondo è una fila di fregi che ogni uomo porta con sé su un pezzetto di carta. La persona apostrofata in questo modo porta, diciamo, cinque mele. Il primo scarabocchio era il nome generico degli oggetti richiesti, il secondo il nome del loro numero.
Qual è quindi la relazione tra un nome e l’oggetto nominato, per esempio la casa e il suo nome? Immagino che si potrebbero dare due risposte. La prima è che la relazione consiste nel fatto che certi tratti sono stati dipinti sulla porta della casa. La seconda risposta è che il rapporto in questione non viene stabilito solo con l’atto di dipingere tali tratti sulla porta, ma in base al ruolo particolare che questi fregi esercitano nella pratica del nostro linguaggio per come l’abbiamo abbozzata. – Ripeto, in ) la relazione del nome di un individuo con tale individuo consiste nel fatto che la persona è stata addestrata a correre incontro a chi pronuncia tale nome; oppure potremmo ripetere che consiste in questo e nell’uso complessivo del nome nel gioco linguistico.
Osserva questo gioco linguistico e vedi se riesci a trovare la relazione misteriosa tra l’oggetto e il suo nome. – La relazione di nome e oggetto, diremmo, consiste nel fatto che uno scarabocchio è scritto sopra un oggetto (o qualche altra relazione altrettanto banale) e nient’altro. Questo però non ci soddisfa, perché abbiamo l’impressione che in sé uno scarabocchio vergato su un oggetto non rivesta per noi alcuna importanza e non ci interessi affatto. Ed è vero; tutta l’importanza risiede nell’impiego particolare che facciamo dello scarabocchio scritto sull’oggetto e noi, in un certo senso, semplifichiamo la questione dicendo che il nome ha una relazione particolare con il suo oggetto, una relazione diversa dal fatto, diciamo, di essere scritto sopra suddetto oggetto, o di essere pronunciato da una persona che con un dito indica l’oggetto. Una filosofia primitiva condensa l’uso complessivo del nome nell’idea di una relazione, che dunque diviene misteriosa. (Confronta le idee di attività mentali quali desiderare, credere, pensare, etc. che per la stessa ragione hanno in sé un che di misterioso e inesplicabile).
Ora potremmo impiegare l’espressione “la relazione tra nome e oggetto non consiste solo in questa connessione banale, ‘meramente esteriore,’” intendendo quindi che ciò che chiamiamo il rapporto tra nome e oggetto si caratterizza per l’impiego complessivo del nome, ma allora è chiaro che tra nome e oggetto non c’è una sola relazione ma tante quanti sono gli impieghi dei suoni o dei fregi che chiamiamo nomi.
Possiamo dire dunque che, se nominare dev’essere qualcosa di più del mero fatto di emettere un suono indicando un oggetto, allora in un modo o nell’altro deve entrare in gioco la conoscenza di come il suono o il fregio va usato in quel caso specifico.
Quando abbiamo proposto di dare dei nomi agli aspetti di un disegno, abbiamo fatto sembrare che nel vedere un disegno in due modi diversi e nel dire in entrambi i casi qualcosa, abbiamo fatto qualcosa di più che compiere tale azione priva di interesse; mentre ora notiamo che è l’utilizzo del “nome”, e nello specifico i dettagli di tale impiego, a elargire al nome la sua peculiare significazione.
Non si tratta allora di una domanda irrilevante, ma essenziale: “‘A’ e ‘B’ servono a ricordarmi tali aspetti; posso eseguire un ordine come ‘nota nel tale disegno l’aspetto ‘A’’; ci sono, in qualche modo, immagini di questi aspetti correlati ai nomi ‘A’ e ‘B’ (come ***QUAD*** e ***SEMIQUAD***); ‘A’ e ‘B’ vengono impiegati per comunicare con altre persone; di preciso quali gioco contribuiscono a instaurare?”
Quando dico “non vedo meri trattini (un mero scarabocchio) ma un volto (una parola) con questa fisionomia particolare,” non voglio asserire alcuna caratteristica generale di ciò che osservo, bensì affermare che vedo la fisionomia particolare che in effetti scorgo. È ovvio che qui la mia espressione si muove in un circolo vizioso. Ma ciò accade perché in realtà la fisionomia particolare che ho visto dovrebbe essere entrata nella mia proposizione. – Quando mi accorgo che, “mentre leggo una frase, per tutto il tempo ha luogo un’esperienza specifica,” devo in realtà proseguire piuttosto a lungo nella lettura per ricavare l’impressione specifica così enunciata.
Allora avrei potuto sostenere “osservo che la stessa esperienza ha luogo per tutto il tempo,” ma volevo dire “non mi accorgo solo che è sempre la stessa esperienza, noto proprio un’esperienza particolare.” Guardando una parete dal colore uniforme potrei affermare “non vedo solo che è ovunque dello stesso colore, vedo anche il colore specifico.” Affermandolo però presuppongo un’idea errata della funzione di una frase. – Sembra che tu voglia specificare il colore che vedi, ma non dicendo qualcosa su di esso, né paragonandolo con un campione… bensì indicandolo; impiegandolo al contempo come campione e come ciò con cui si il campione confronta.
Considera l’esempio: tu mi chiedi di scrivere alcune righe e, mentre io eseguo, dici “mentre scrivi senti qualcosa nella mano?”, io rispondo “sì, ho una sensazione particolare.” – Quando sono intento a scrivere, non posso dire a me stesso “provo ''questa'' sensazione?” Certo che posso affermarlo e, nel dire “questa sensazione,” mi concentro sulla sensazione. – Che cosa faccio però con tale frase? A che cosa mi serve? Sembra che stia indicando a me stesso ciò che provo… come se il mio atto di concentrazione fosse un atto “interiore” di indicare, di cui nessuno si accorge tranne me, quindi comunque un atto di poco conto. Non è però occupandomene che indico la sensazione. Invece occuparmi della sensazione significa produrla o modificarla. (D’altronde osservare una sedia non significa produrre o modificare la sedia).
La frase “mentre scrivo provo ''questa'' sensazione” è dello stesso tipo della frase “io vedo questo.” Non intendo la frase come quando la si usa per informare qualcuno che si sta guardando l’oggetto che si indica, e nemmeno, come la si impiega in ), per comunicare che si vede un certo disegno nel modo A e non nel modo B. Intendo la frase “vedo questo” per come talvolta la esaminiamo riflettendo su problemi filosofici. In tal caso rimaniamo, per così dire, attaccati a una particolare impressione visiva fissando un certo oggetto, e anche se non conosciamo altri possibili impieghi di suddetta frase, sentiamo con assoluta naturalezza di poter affermare a noi stessi “io vedo questo”.
“Di certo ha senso dire che cosa vedo e come potrei farlo meglio che lasciando che sia quello che vedo a parlare da solo?”
Ma le parole “io vedo” nella nostra frase sono pleonastiche. Non voglio dire a me stesso che sono ''io'' a vedere questo, né che lo ''vedo''. Ciò equivale ad asserire che non posso indicare a me stesso quel che vedo con una mano visiva; poiché tale mano non indica ciò che vedo ma ne fa parte.
È come se la frase stesse individuando il colore specifico che ho visto; come se me lo presentasse.
È come se il colore che vedo fosse la descrizione di se stesso.
Perché l’atto di indicare con il dito era inefficace. (E guardare non è indicare, non indica per me una direzione, il che potrebbe implicare il fatto di distinguere una direzione da altre direzioni).
Ciò che vedo, o provo, entra nella frase come un campione; ma di tale campione non si fa alcun impiego; le parole della mia proposizione non paiono rilevanti, servono solo a presentarmi il campione.
In fondo non parlo ''di'' ciò che vedo, ma ''a'' ciò vedo.
In realtà sto eseguendo gli atti connessi all’essere presente che potrebbero accompagnare l’uso di un campione. Ed è questo a dare l’idea che mi stia servendo di un campione. L’errore è simile al fatto di credere che una definizione ostensiva dica qualcosa sull’oggetto verso cui dirige la nostra attenzione.
Quando ho detto “mi sbaglio sulla funzione di una frase” era perché con il suo ausilio pareva che indicassi a me stesso di che colore è, e invece osservavo un campione di colore. Mi sembrava che il campione fosse la descrizione del proprio colore.
Immagina che a qualcuno dica “osserva la luce particolare della stanza.” In certe circostanze il senso di quest’ordine sarà perfettamente chiaro, per esempio se il tramonto arrossa le pareti. Supponi però che in una qualunque altra occasione in cui non c’è nulla di notevole nell’illuminazione io dica “osserva la luce particolare di questa camera”… Be’, non c’è una particolare luce? Quindi dove sta la difficoltà nell’osservarla? La persona però a cui abbiamo detto di osservare la luce, quando questa non era per nulla particolare, probabilmente si guarderebbe in giro e direbbe “allora, che cos’ha di strano?” A questo punto io potrei rispondere “è proprio la stessa luce di ieri a quest’ora,” oppure “è la stessa identica luce un po’ fioca che si vede in quest’immagine della stanza”.
Nel primo caso, quando la camera era illuminata di un rosso suggestivo, avresti potuto indicare la peculiarità che, pur non esplicitandolo, volevo tu osservassi. Per esempio per indicarla avresti potuto utilizzare un campione di quel colore particolare. In questo caso saremo propensi a dire che la peculiarità si è aggiunta all’aspetto normale della stanza.
Nel secondo caso, quando in camera c’era soltanto una luce normale e nel suo aspetto non c’era nulla di notevole, io ti ho detto di osservare la luce nella stanza e tu non sapevi nello specifico cosa fare. Hai potuto solo guardarti attorno in attesa di una precisazione ulteriore in grado di completare il senso del comando originale.
Ma in entrambi i casi la camera non era illuminata in una maniera particolare? Be’, per come è stata formulata, questa domanda è priva di senso, come del resto la risposta “era…” L’ordine “osserva la luce particolare di questa stanza” non implica alcuna affermazione sull’aspetto della stanza. Pareva che dicesse “questa camera ha una luce particolare, non c’è bisogno che la nomini; osservala!” Si ha l’impressione che la luce a cui si fa riferimento sia fornita da un campione e che sia tu a doverlo utilizzare; come faresti per copiare la sfumatura esatta di un campione di colore esibita da una tavolozza. In realtà però l’ordine è simile al seguente: “afferra questo campione!”
Immagina di dire “C’è una luce particolare che devo osservare.” In tal caso ti troveresti intento a guardarti in giro invano, ovvero senza vedere la luce.
Avresti potuto ricevere un campione, per esempio un pezzo di materiale colorato, e poi l’ordine “osserva il colore di questo campione.” Possiamo operare una distinzione tra l’atto di osservare, di considerare la forma del campione e di considerare il suo colore. Tuttavia non si può descrivere l’atto di considerare il colore come il fatto di guardare la cosa che è connessa al campione, bensì come il fatto di guardare il campione in un modo particolare.
Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…” ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi.” L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione;” ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il considerare, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.
Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza…” Una tale frase parrebbe affermare che il soggetto può indicarci di che luce si tratti. Cioè può sembrare che l’ordine dica di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'', invece delle dimensioni, delle forme, etc.
(Paragona “afferra il colore di questo campione” con “afferra questa penna,” ovvero eccola qui, afferrala).
Torno alla frase “questa faccia ha un’espressione particolare.” Anche qui non ho confrontato o distinto la mia impressione da nulla, non mi sono servito del campione posto davanti a me. La frase era l’enunciazione di uno stato di attenzione.
Ciò che va spiegato è questo: perché parliamo alla nostra impressione? – Leggi, ti metti in uno stato di attenzione e dici “senza dubbio accade qualcosa di specifico.” Sei portato a proseguire “qui c’è una certa fluidità;” ma hai l’impressione che questa sia soltanto una descrizione inadeguata e che l’esperienza sia completa in se stessa. “Qualcosa di specifico senza dubbio accade” è come dire “ho avuto un’esperienza.” Tu però non vuoi esprimere un’affermazione generica indipendente dall’esperienza particolare che hai avuto, bensì un’affermazione in cui l’esperienza fa il suo ingresso.
Hai un’impressione. Questo ti porta ad affermare “ho un’impressione '' particolare''” e questa frase sembra dire, a te stesso almeno, quale impressione hai. Come se ti riferissi a un’immagine pronta nella tua mente e dicessi “è questo.” Invece hai solo indicato la tua impressione. Nel nostro caso ) dire “noto il colore particolare di questa parete” è come disegnare, per esempio, un rettangolo nero attorno a una piccola porzione del muro e adottarlo in qualità di campione in vista di impieghi ulteriori.
Quando leggevi, mentre facevi molta attenzione a ciò che accadeva mentre leggevi, pareva che stessi osservando il fatto di leggere sotto una lente di ingrandimento e scorgessi il processo della lettura. (In realtà il caso è più simile all’osservare qualcosa attraverso un vetro colorato.) Tu pensi di aver osservato il processo della lettura, il modo particolare in cui i segni si traducono in parole pronunciate.
Ho letto questo rigo con attenzione particolare; sono colpito dalla lettura e ciò mi porta a dire che ho osservato qualcos’altro oltre al mero fatto di vedere i segni scritti e di pronunciare le parole. Ho anche espresso ciò dicendo che ho notato un’atmosfera particolare attorno all’atto di vedere e di parlare. In che modo una metafora come quella enucleata nell’ultima frase mi si può presentare lo si evince più chiaramente esaminando l’esempio seguente: se hai sentito delle frasi pronunciate in modo monocorde, sei propenso a dire che le parole erano tutte avvolte da una particolare atmosfera. Non si tratterebbe però dell’impiego di una peculiare maniera di rappresentazione per affermare che pronunciare la frase in tono monocorde era aggiungere qualcosa al dirla e basta? Non si potrebbe persino concepire tale tono monocorde quale risultato dello ''spogliare'' la frase della sua intonazione? Circostanze diverse ci farebbero adottare maniere diverse di rappresentazione. Se per esempio certe parole vanno lette in tono monocorde, poiché ce lo indica un pentagramma e una nota sostenuta posta tra le parole scritte, tale notazione suggerirebbe con grande forza l’idea che si sia aggiunto qualcosa al mero pronunciare la frase.
Sono colpito dalla lettura di una frase e dico che la frase mi ha mostrato qualcosa, che in essa ho scorto qualcosa. Questo mi ha fatto pensare all’esempio seguente: un amico e io una volta abbiamo guardato delle aiuole di viole. Ogni aiuola ne mostrava un tipo diverso, ognuno dei quali ci è rimasto impresso. A proposito il mio amico ha detto “che varietà di schemi di colore e ognuno dice qualcosa.” Era proprio la stessa osservazione che avrei voluto fare io.
Confronta tale affermazione con la seguente:  “ognuno di questi uomini dice qualcosa”.
Se ci avessero chiesto cosa diceva lo schema di colore della viola, mi pare che la risposta giusta sarebbe stata che diceva se stesso. Quindi avremmo potuto impiegare una forma intransitiva di espressione come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”.
Talvolta si è detto che ciò che la musica comunica consiste in sensazioni di gioia, malinconia, trionfo, etc. etc. e ciò che ci urta in tale tesi è che così sembra che la musica sia uno strumento per produrre in noi una successione di sentimenti. Se ne potrebbe desumere che qualunque altro modo di generare suddetti sentimenti sarebbe in grado per noi di fare le veci della musica. A questo saremmo tentati di ribattere “la musica ci comunica ''se stessa''!”
Vale un discorso simile per espressioni come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce.” Abbiamo la sensazione di volerci proteggere dall’idea che un modello di colore sia un modo di produrre in noi una certa impressione… come se il modello di colore fosse una droga e noi fossimo interessati solo all’effetto prodotto da tale droga. (Qui lambiamo il problema dell’idealismo e del realismo e quello dell’oggettività o soggettività delle affermazioni estetiche). Dire “io vedo questo e sono colpito” tende a far sembrare che l’impressione fosse una qualche sensazione che accompagnava l’atto di vedere e che la frase dicesse qualcosa come “lo vedo e sento la pressione”.
Avrei potuto adoperare l’espressione “ognuno di questi modelli di colore ha significato…” Non ho detto “ha significato” perché così avrei innescato la domanda “quale significato?”, che nel caso in questione è priva di senso. Stiamo distinguendo tra modelli senza significato e modelli dotati di significato; nel nostro gioco però non ci sono espressioni come “questo modello ha questo-e-questo significato.” Nemmeno l’espressione “questi due modelli hanno diversi significati,” a meno di non intendere “questi sono due modelli diversi e hanno entrambi un significato”, è presente nel nostro gioco.
È facile però capire perché dovremmo essere propensi a impiegare la forma transitiva di espressione. Vediamo infatti quale uso facciamo di espressioni quali “questo volto dice qualcosa,” cioè quali sono le situazioni in cui ci serviamo di tale espressione, che genere di frase precederebbe o seguirebbe (in quale tipo di conversazione rientrerebbe). Forse dovremmo seguire un’affermazione simile dicendo “guarda la linea di queste sopracciglia!” oppure “che occhi ''scuri'' e che viso ''pallido''!”; queste espressioni attirerebbero l’attenzione su certi elementi. Nella stessa connessione dovremmo utilizzare paragoni, per esempio “il naso è come un becco…”, ma anche espressioni quali “nel complesso il volto esprime stupefazione” e qui abbiamo impiegato “esprimere” transitivamente.
Possiamo ora considerare frasi che, diremmo, forniscono un’analisi dell’impressione che ricaviamo, per esempio, da un volto. Prendiamo un’affermazione come “la particolare impressione di questa faccia è dovuta agli occhi piccoli e alla fronte bassa.” Qui le parole “la particolare impressione” possono fare le veci di una specificazione determinata, per esempio “l’espressione stupida.” O invece tali parole possono significare “ciò che rende questa espressione notevole” (cioè straordinaria); oppure “ciò che colpisce in questo volto” (cioè “quello che attira l’attenzione”). Altrimenti la frase potrebbe significare “se alteri di pochissimo ''questi'' tratti, l’espressione cambia del tutto (mentre invece potresti modificarne altri senza che il volto cambi in maniera nemmeno paragonabile al caso precedente).” La forma di quest’affermazione, comunque, non deve indurci erroneamente a pensare che in ogni caso ci sia un’asserzione supplementare della forma di “prima l’espressione era ''questa'', adesso è ''quella''.” Possiamo dire naturalmente “Smith ha aggrottato la fronte e la sua espressione è cambiata da questa a quella,” indicando per esempio due disegni del suo viso. – (Confronta con questa le seguenti due affermazioni: “ha detto queste parole” e “le sue parole dicevano qualcosa”).
Quando, cercando di vedere in che cosa consisteva leggere, ho letto una frase scritta, ho lasciato che l’atto di leggerla mi si imprimesse nella mente e ho detto di aver avuto una particolare impressione, mi si sarebbe potuto chiedere per esempio se a generare tale impressione non sia stata, poniamo, la particolare grafia dell’enunciato. Sarebbe stato come chiedermi se la mia impressione non sarebbe stata diversa se la scrittura fosse stata diversa, se per esempio ogni parola della frase fosse state scritta con una grafia diversa. In questo senso potremmo anche chiederci se l’impressione in fondo non era dovuta al ''senso'' della frase particolare che ho letto. Si potrebbe suggerire: leggi un’altra frase (o la stessa frase scritta in un’altra grafia) e vedi se dici ancora di aver avuto la stessa impressione. La risposta potrebbe essere: “sì, l’impressione che avevo era davvero dovuta alla grafia.” Questo però ''non'' implicherebbe che quando prima ho detto che la frase mi ha dato un’impressione particolare io abbia distinto un’impressione rispetto a un’altra, o che la mia affermazione non fosse del tipo di “questa frase ha ''la propria espressione''.” Ciò diventerà più chiaro se consideriamo l’esempio seguente: immagina di avere tre facce disegnate una accanto all’altra: a) ***FAC***, b) ***FAC***, c) ***FAC***. Dovrebbero essere assolutamente identiche, tranne che per un tratto in più in b) e due punti in c). Contemplo la prima pensando “questo viso ha un’espressione peculiare.” Mi si mostra la seconda e mi si chiede se ha la stessa espressione. Rispondo “sì.” Poi mi mostrano la terza e dico “questa ha un’espressione diversa.” Rispondendo, nei due casi, avrei potuto dire di aver distinto il volto e la sua espressione: perché, pur essendo b) diversa da a), io dico che hanno la stessa espressione, mentre la differenza tra c) e a) corrisponde a una differenza di espressione; e questo potrebbe farci credere che anche nella mia prima enunciazione ho distinto tra volto ed espressione.
Torniamo all’idea di un senso di familiarità che sorge quando vedo oggetti familiari. Per ponderare se un tale senso esiste o no, probabilmente guardiamo un qualche oggetto e diciamo “quando osservo il mio vecchio cappotto e il cappello, non provo una sensazione particolare?” A questo però rispondiamo: con quale sensazione la confronti, oppure da quale distingui? Diresti che il tuo vecchio cappotto ti genera la stessa sensazione del tuo vecchio amico A, il cui aspetto ti è altrettanto familiare, o che ''ogniqualvolta'' guardi il cappotto in te sorge un senso di intimità e di calore?
“Non c’è quindi nulla come un senso di familiarità?” – Dovrei dire che c’è una grande quantità di esperienze diverse e che alcune di queste sono sensazioni che potremmo chiamare “esperienze (sentimenti) di familiarità”.
Diverse esperienze di familiarità: ''a'') qualcuno entra nella mia stanza, non lo vedevo da molto tempo, non lo aspettavo. Lo guardo, dico o provo “ah, sei tu.” – (Perché nel fare l’esempio ho detto che non lo vedevo da tanto? Non mi sono accinto a descrivere ''esperienze di'' familiarità? E qualunque fosse l’esperienza a cui alludevo, non avrei potuto averla anche se avessi visto la persona mezz’ora prima? In realtà ho fornito le circostanze del riconoscere l’amico alla stregua di un mezzo per descrivere la situazione specifica del riconoscimento. A questo modo di descrivere ''l’esperienza'' si potrebbe obiettare che esplicitava aspetti irrilevanti e in fondo non era affatto una ''descrizione'' della sensazione. Per affermare ciò si assume, come prototipo di una descrizione, poniamo, la descrizione di un tavolo che ti dice la forma esatta, le dimensioni, il materiale impiegato, il colore. Si potrebbe dire che una tale descrizione assembla il tavolo. C’è però un altro tipo di descrizione del tavolo, simile a quelle che potresti trovare in un romanzo, per esempio “era un piccolo tavolo traballante decorato in stile moresco, concepito per soddisfare ogni requisito dei fumatori.” Tale descrizione la si potrebbe definire indiretta; se il suo scopo però è di evocare con rapidità nella mente un’immagine vivida del tavolo, è in grado assolverlo incomparabilmente meglio di una descrizione dettagliata “diretta.” – Ora, se devo fare una descrizione di un senso di familiarità o riconoscimento… che cosa vi aspettate che faccia? Posso assemblare il sentimento? In un certo senso ovviamente potrei, elencando molti stati diversi e il modo in cui le mie sensazioni sono cambiate. Tali descrizioni particolareggiate le trovate in alcuni grandi romanzi. Se si pensa alle descrizioni rintracciabili nei romanzi, si vede che a questo tipo di descrizione se ne può opporre un altro che si serve di disegni e misure come quelle che potremmo fornire al costruttore di un armadio. Quest’ultimo tipo si è propensi a chiamarlo l’unica descrizione diretta e completa (anche se tale modo di esprimerci mostra la nostra dimenticanza del fatto che ci sono certi scopi che la descrizione “vera” non assolve). Queste considerazioni dovrebbero mettervi in guardi dal pensare che ci sia una descrizione vera e diretta, poniamo, del senso del riconoscimento, distinta da quella “indiretta” che ho fornito).
''b'') stesso caso di ''a''), ma la faccia non mi è immediatamente familiare. Dopo un po’, “sorge in me” il riconoscimento. “Ah, sei tu,” ma detto con un’intonazione completamente diversa da ''a''). (Considera il tono di voce, l’intonazione, i gesti come parte essenziale della nostra esperienza, non come accompagnamenti inessenziali o meri espedienti comunicativi. (Confronta p. 104-5)). ''c'') Quando all’improvviso sentiamo che sono “vecchie conoscenze” o “amici di vecchia data,” sorge una qualche un’esperienza protesa verso persone o cose che vediamo ogni giorno; un tale sentimento lo si potrebbe anche descrivere come un calore o un sentirsi a casa in loro presenza. ''d'') La mia stanza con tutti i suoi oggetti mi è assolutamente familiare. Quando ci entro al mattino saluto le sedie familiari, i tavoli, etc. con una sensazione di “ah, ciao!”? O provo una sensazione come quella descritta in ''c'')? Ma il modo in cui mi ci muovo, in cui prendo qualcosa da un cassetto, mi siedo etc. non è diverso dal comportamento che adotterei in una stanza che mi è estranea? E perché dunque non dovrei dire che ogniqualvolta ho vissuto tra questi oggetti familiari ho avuto esperienze di familiarità? ''e'') Quando ci chiedono “chi è quell’uomo” non si tratta di un’esperienza di familiarità? Rispondo subito (o dopo un po’ di riflessione) “è Tal-dei-tali”? Confronta con l’esperienza seguente ''f'') del fatto di guardare la parola scritta “sentimento” e di dire “questa è la grafia di A” oppure con ''g'') l’esperienza di leggere la parola, che è pure un’esperienza di familiarità.
Al caso ''e'') si potrebbe obiettare che l’esperienza di dire il nome di un uomo non era l’esperienza di familiarità, che perché noi potessimo sapere il suo nome lui doveva già esserci familiare e che per poterlo pronunciare dovevamo ''sapere'' tale nome. Oppure, affermeremmo, “dire il suo nome non è sufficiente, perché di certo potremmo dire il suo nome senza sapere che è il suo nome.” Tale osservazione è indubbiamente vera, se solo comprendiamo che non implica che la conoscenza del nome sia un processo che accompagna o precede l’atto di pronunciarlo.
Considera questo esempio: quale è la differenza tra un’immagine mnemonica, un’immagine che viene con un’aspettativa e, poniamo, l’immagine di una fantasticheria? Potresti sentirti portato a rispondere “tra suddette immagini c’è una differenza intrinseca.” – Hai percepito tale differenza o hai affermato che esiste solo perché hai pensato che dovesse esserci?
“Di certo però riconosco un’immagine mnemonica in quanto immagine mnemonica, l’immagine di una fantasticheria in quanto immagine di una fantasticheria, etc.” – Rammenta che a volte non sei sicuro se un certo evento l’hai visto accadere, o l’hai sognato, o ne hai soltanto sentito parlare e l’hai immaginato in maniera vivida. Detto ciò, cosa intendi con “riconoscere un’immagine in quanto immagine mnemonica?” Concordo che (perlomeno nella maggioranza dei casi), mentre un’immagine si trova davanti all’occhio della tua mente, tu non dubiti che si tratti di un’immagine mnemonica, etc. Inoltre alla domanda se l’immagine in questione è un’immagine mnemonica, tu (nella maggioranza dei casi) risponderesti senza esitare. E se invece ti chiedessi “quand’è che sai di che tipo di immagine si tratta?” Sapere di che tipo di immagine si tratta lo chiami non essere in uno stato di dubbio, non chiederti che cos’è? L’introspezione ti mostra uno stato o un atto mentale che chiameresti sapere che l’immagine era un’immagine mnemonica e che, quando l’immagine ti è presente nella mente, ha luogo? – E poi, se hai risposto alla domanda in merito a che tipo di immagine fosse, l’hai fatto, per così dire, guardando l’immagine e scoprendo una sua qualche caratteristica? (Come se ti avessero chiesto chi ha dipinto un certo quadro e tu guardandolo e riconoscendone lo stile dicessi che è un Rembrandt).
È facile d’altro canto indicare le esperienze caratteristiche del ricordare, aspettarsi, etc. che accompagnano le immagini e varie altre differenze nei dintorni o alla periferia di tali esperienze. Dunque noi certamente ''diciamo'' cose diverse in casi diversi, per esempio “mi ricordo che è passato nella mia stanza,” “mi aspetto che arrivi presto,” “immagino che arrivi qui in camera.” – “Di sicuro però la differenza non può essere tutta qui!” Non è tutta qui: a circondare tali affermazioni ci sono tre diversi giochi svolti con queste tre parole.
Se messi alle strette, ''capiamo'' la parola “ricordare,” etc.? Tra questi casi c’è davvero una differenza oltre a quella meramente verbale, al fatto che i nostri pensieri si muovono nei dintorni dell’immagine di cui disponiamo o all’espressione che impieghiamo? Ho un’immagine di una cena in Sala con T. Se mi si chiede se è un’immagine mnemonica, dico “ma certo” e i miei pensieri cominciano a muoversi su sentieri che da tale immagine si dipartono. Ricordo chi era seduto accanto a noi, su cosa verteva la conversazione, ciò che pensavo io in merito, quel è successo in seguito con T, etc. etc.
Immagina due giochi diversi, entrambi giocati con i pezzi degli scacchi su una scacchiera. Nei due giochi le posizioni iniziali sono identiche. Uno dei giochi si gioca sempre con pezzi rossi e verdi, l’altro con pezzi bianchi e neri. Due persone cominciano a giocare, divisi dalla scacchiera con i pezzi rossi e verdi schierati. Si chiede loro “sapete quale gioco intendete giocare?” Uno risponde “ma certo, giochiamo al gioco numero 2.” “Qual è allora la differenza tra giocare il numero 2 e il numero 1?” – “Be’, sulla scacchiera ci sono i pezzi rossi e verdi, non quelli neri e bianchi, inoltre affermiamo di giocare al numero 2.” – “Questa però non può essere l’unica differenza; non lo ''capisci'' cosa significa ‘numero 2’ e a quale gioco corrispondono le pedine rosse e verdi?” Qui siamo propensi a rispondere “certo che lo capisco” e per provarlo a noi stessi cominciamo proprio a muovere i pezzi secondo le regole del gioco numero 2. Questo è ciò che chiamerò muoversi nei dintorni della nostra posizione iniziale.
Non c’è però anche una sensazione di passato a caratterizzare le immagini in quanto immagini mnemoniche? Certamente ci sono esperienze che sarei portato a chiamare sensazioni di passato, anche se non sempre, quando ricordo qualcosa, è presente una di queste sensazioni. Per gettare luce sulla natura di tali sensazioni è ancora utilissimo rammentare che ci sono gesti di passato e intonazioni di passato che possiamo considerare corrispondenti alle esperienze del passato (Aristotele).
Esaminerò un caso particolare, quello di una sensazione di cui abbozzerò una descrizione dicendo che è la sensazione di “tanto, tanto tempo fa.” Queste parole e il tono in cui le si pronuncia sono un gesto di passato. Specificherò ulteriormente le esperienze a cui mi riferisco dicendo che corrispondono a un certo motivo (Davidsbündlertänze, “Wie aus weiter Ferne”). Immagino il brano in questione suonato con nella maniera corretta e registrato, poniamo, per un grammofono. Questa è allora è l’espressione più elaborata ed esatta di un sentimento di passato che io riesca a farmi.
Bisognerebbe dire che sentire il motivo suonato in tale maniera equivale di per sé a suddetta esperienza particolare di passato, oppure che sentire il brano innesca il sentimento di passato che poi accompagna la musica? Per esempio, posso separare ciò che chiamo l’esperienza del passato dall’esperienza di sentire il motivo? Oppure posso separare l’esperienza del passato espressa dal gesto dall’esperienza di compiere il gesto? Posso scoprire qualcosa, il sentimento essenziale del passato, che rimane dopo aver astratto tutte quelle esperienze che chiameremmo esperienze di espressione del sentimento?
Sono propenso a suggerirvi di dire che si tratta dell’espressione dell’esperienza invece che dell’esperienza. “Non sono però la stessa cosa”. Questo è sicuramente vero, perlomeno nel senso in cui è vero che un treno ferroviario e un incidente ferroviario non sono la stessa cosa. Eppure c’è una giustificazione per parlarne come se l’espressione “il gesto ‘tanto, tanto tempo fa’” e l’espressione “la sensazione ‘tanto, tanto tempo fa’” avessero lo stesso significato. Quindi potrei fornire le regole degli scacchi nella maniera seguente: ho davanti una scacchiera con i suoi pezzi. Do delle regole per muovere queste particolari pedine (questi particolari pezzi di legno) su questa particolare superficie. Possono tali regole essere le regole del gioco degli scacchi? Le si può far diventare tali utilizzando un solo operatore, per esempio la parola “ogni.” Oppure le regole per le mie particolari pedine possono rimanere quelle che sono e per trasformarle nelle regole del gioco degli scacchi si cambia il nostro punto di vista nei loro confronti.
C’è un’idea che la sensazione, poniamo, di passato sia un qualcosa di amorfo in un luogo, la mente, e che questo qualcosa sia causa o effetto di ciò che chiamiamo l’espressione del sentimento. L’espressione del sentimento allora è un modo indiretto di trasmettere il sentimento. Spesso si è parlato di una trasmissione diretta di sentimenti che rimpiazzi il mezzo esterno della comunicazione.
Supponi che ti dica di mischiare un certo colore e che te lo descriva dicendo che lo si ottiene facendo reagire con il rame l’acido solforico. Questo lo si potrebbe chiamare un modo indiretto di comunicare il colore da me inteso. Si può immaginare che la reazione dell’acido solforico sul rame in certe condizioni non produca il colore che volevo farti mischiare e che nel vedere il colore ottenuto io debba dire “no, non è questo” per poi fornirti un campione.
Possiamo dunque affermare che la comunicazione di sentimenti tramite gesti è in questo senso indiretta? Ha senso parlare di comunicazione diretta per distinguerla da quella indiretta? Ha senso dire “non sento il suo mal di denti, ma se lo sentissi saprei come si sente”.
Se parlo per comunicare un sentimento a qualcun altro, per capire ciò che dico non devo per forza conoscere ciò che chiamo il criterio per stabilire se l’atto di comunicazione è andato a segno o meno?
Siamo propensi ad affermare che, quando comunichiamo un sentimento a qualcuno, in costui accade qualcosa che noi non possiamo mai conoscere. Tutto ciò che possiamo ricevere dal nostro interlocutore è a sua volta un’espressione. Ciò è molto simile all’affermare che non possiamo mai sapere quando, nell’esperimento di Fitzeau, il raggio di luce raggiunge lo specchio.
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