Libro marrone: Difference between revisions

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Immaginiamo che un uomo descriva una partita a scacchi senza accennare all’esistenza delle operazioni dei pedoni. Tale descrizione del gioco in quanto fenomeno naturale risulterà incompleta. D’altro canto si potrebbe dire che costui abbia descritto in maniera completa un gioco diverso. In questo senso si può asserire che la descrizione di Agostino dell’apprendimento del linguaggio era corretta per un linguaggio più semplice del nostro. Immaginiamo questo linguaggio: -
Immaginiamo che un uomo descriva una partita a scacchi senza accennare all’esistenza delle operazioni dei pedoni. Tale descrizione del gioco in quanto fenomeno naturale risulterà incompleta. D’altro canto si potrebbe dire che costui abbia descritto in maniera completa un gioco diverso. In questo senso si può asserire che la descrizione di Agostino dell’apprendimento del linguaggio era corretta per un linguaggio più semplice del nostro. Immaginiamo questo linguaggio: -


{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1)}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono cubi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “cubo,” “mattone,” “lastra,” “colonna.” Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Questa procedura la chiamerò insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce assecondandoli. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporteranno la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono cubi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “cubo,” “mattone,” “lastra,” “colonna.” Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Questa procedura la chiamerò insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce assecondandoli. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporteranno la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.


(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone!”, a meno di non voler asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”, perché non potrebbe voler dire solo “mattone!”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole, oppure non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!” Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrasto con le altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni.” Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, etc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’unico aspetto da rimarcare è che tali differenze debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto la conclusione con la prima domanda. Nel porre l’interrogativo iniziale, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. I significati dei segni li concepiamo talvolta quali stati mentali dell’uomo che li impiega, in altri casi invece come il ruolo che suddetti segni ricoprono in un sistema linguistico. Secondo William James all’uso di parole come “e,” “se” e “o” si accompagnano emozioni specifiche. Non ci sono dubbi che spesso alcuni gesti si leghino a tali parole. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che suddette sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e.” Se in qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera e esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa “ma” in maniera analoga a come in italiano si impiega “non, pronunciando la parola “ma,” sperimenterà più o meno le stesse sensazioni provate dagli italiani nel dire “non.” E nei due linguaggi alla parola “ma” in genere corrisponderanno diversi poli di esperienze.
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone!”, a meno di non voler asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”, perché non potrebbe voler dire solo “mattone!”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole, oppure non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!” Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrasto con le altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni.” Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, etc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’unico aspetto da rimarcare è che tali differenze debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto la conclusione con la prima domanda. Nel porre l’interrogativo iniziale, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. I significati dei segni li concepiamo talvolta quali stati mentali dell’uomo che li impiega, in altri casi invece come il ruolo che suddetti segni ricoprono in un sistema linguistico. Secondo William James all’uso di parole come “e,” “se” e “o” si accompagnano emozioni specifiche. Non ci sono dubbi che spesso alcuni gesti si leghino a tali parole. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che suddette sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e.” Se in qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera e esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa “ma” in maniera analoga a come in italiano si impiega “non, pronunciando la parola “ma,” sperimenterà più o meno le stesse sensazioni provate dagli italiani nel dire “non.” E nei due linguaggi alla parola “ma” in genere corrisponderanno diversi poli di esperienze.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=2)}} Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine “cinque lastre!” si reca nel luogo in cui sono poste le lastre, pronuncia le parole da uno a cinque, prende una lastra per ogni parola e le porta al costruttore. Qui entrambi utilizzano il linguaggio pronunciando le parole. Imparare a memoria i numerali sarà un aspetto essenziale dell’apprendimento di suddetto linguaggio. Anche l’uso dei numerali verrà insegnato dimostrativamente. Nell’insegnamento però della parola, per esempio, “tre”, si indicheranno o delle lastre, o dei mattoni, o delle colonne, etc. D’altro canto l’insegnamento di numerali diversi comporterà l’atto di indicare gruppi di pietre della stessa forma.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=2}} Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine “cinque lastre!” si reca nel luogo in cui sono poste le lastre, pronuncia le parole da uno a cinque, prende una lastra per ogni parola e le porta al costruttore. Qui entrambi utilizzano il linguaggio pronunciando le parole. Imparare a memoria i numerali sarà un aspetto essenziale dell’apprendimento di suddetto linguaggio. Anche l’uso dei numerali verrà insegnato dimostrativamente. Nell’insegnamento però della parola, per esempio, “tre”, si indicheranno o delle lastre, o dei mattoni, o delle colonne, etc. D’altro canto l’insegnamento di numerali diversi comporterà l’atto di indicare gruppi di pietre della stessa forma.


(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. Quindi con l’introduzione dei numerali abbiamo inserito un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo emerge qui con maggior evidenza, rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili, se prendiamo in considerazione questo semplice esempio.
(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. Quindi con l’introduzione dei numerali abbiamo inserito un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo emerge qui con maggior evidenza, rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili, se prendiamo in considerazione questo semplice esempio.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=3)}} Introduciamo ora un nuovo strumento di comunicazione: un nome proprio. Quest’ultimo viene dato a un oggetto specifico (una pietra specifica) indicandolo e pronunciando il nome. Se A pronuncia il nome, B gli porta l’oggetto. L’insegnamento deittico di un nome proprio è diverso dall’insegnamento deittico dei casi 1) e 2).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=3}} Introduciamo ora un nuovo strumento di comunicazione: un nome proprio. Quest’ultimo viene dato a un oggetto specifico (una pietra specifica) indicandolo e pronunciando il nome. Se A pronuncia il nome, B gli porta l’oggetto. L’insegnamento deittico di un nome proprio è diverso dall’insegnamento deittico dei casi 1) e 2).


(Osservazione: la differenza non risiede tuttavia nell’atto di indicare e pronunciare la parole né in qualsivoglia atto (significato) ? che lo accompagni, bensì nel ruolo che la dimostrazione (l’indicare e il pronunciare) riveste nell’intero addestramento e nell’uso che se ne fa nella pratica comunicativa tramite questo linguaggio. Si potrebbe pensare di poter descrivere la differenza dicendo che negli altri casi si indicano tipi diversi di oggetti. Immagina però che io indichi con la mano una divisa blu. In che modo indicarne il colore sarebbe diverso dall’indicarne la forma? – Siamo portati a dire che la differenza è che nei due casi si ''intendono'' cose diverse. Questo “intendere” deve essere una sorta di processo in atto mentre indichiamo. A farci propendere per una simile prospettiva è soprattutto che, se chiediamo a un soggetto se nell’indicare intende il colore o la forma, costui è quasi sempre in grado di risponderci e di sapere con certezza che la sua risposta è giusta. Se però cerchiamo due atti mentali distinti, uno che intenda il colore e l’altro che intenda la forma, non ne troviamo alcuno, o perlomeno non ne troviamo alcuno che debba accompagnare l’indicare sempre rispettivamente il colore oppure la forma. Disponiamo solo di un’idea ''grossolana'' di cosa significhi concentrare l’attenzione sul colore piuttosto che sulla forma e viceversa. Si potrebbe dire che la differenza non risiede nell’atto della dimostrazione, bensì in ciò che circonda tale atto nell’uso linguistico.)
(Osservazione: la differenza non risiede tuttavia nell’atto di indicare e pronunciare la parole né in qualsivoglia atto (significato) ? che lo accompagni, bensì nel ruolo che la dimostrazione (l’indicare e il pronunciare) riveste nell’intero addestramento e nell’uso che se ne fa nella pratica comunicativa tramite questo linguaggio. Si potrebbe pensare di poter descrivere la differenza dicendo che negli altri casi si indicano tipi diversi di oggetti. Immagina però che io indichi con la mano una divisa blu. In che modo indicarne il colore sarebbe diverso dall’indicarne la forma? – Siamo portati a dire che la differenza è che nei due casi si ''intendono'' cose diverse. Questo “intendere” deve essere una sorta di processo in atto mentre indichiamo. A farci propendere per una simile prospettiva è soprattutto che, se chiediamo a un soggetto se nell’indicare intende il colore o la forma, costui è quasi sempre in grado di risponderci e di sapere con certezza che la sua risposta è giusta. Se però cerchiamo due atti mentali distinti, uno che intenda il colore e l’altro che intenda la forma, non ne troviamo alcuno, o perlomeno non ne troviamo alcuno che debba accompagnare l’indicare sempre rispettivamente il colore oppure la forma. Disponiamo solo di un’idea ''grossolana'' di cosa significhi concentrare l’attenzione sul colore piuttosto che sulla forma e viceversa. Si potrebbe dire che la differenza non risiede nell’atto della dimostrazione, bensì in ciò che circonda tale atto nell’uso linguistico.)




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=4)}} Nel ricevere l’ordine “questa lastra”, B porta la lastra indicata da A. Nel ricevere l’ordine “piastra, là!”, gli porta la piastra nel luogo indicato. La parola “là” viene insegnata dimostrativamente? Sì e no! Durante l’addestramento di una persona all’uso della parola “là,” il maestro gli farà il gesto dell’indicare e pronuncerà la parola “là.” Dobbiamo dire però che così facendo attribuisce a un luogo il nome “là?” Ricorda che in questo caso il gesto d’indicare rientra della pratica stessa della comunicazione.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=4}} Nel ricevere l’ordine “questa lastra”, B porta la lastra indicata da A. Nel ricevere l’ordine “piastra, là!”, gli porta la piastra nel luogo indicato. La parola “là” viene insegnata dimostrativamente? Sì e no! Durante l’addestramento di una persona all’uso della parola “là,” il maestro gli farà il gesto dell’indicare e pronuncerà la parola “là.” Dobbiamo dire però che così facendo attribuisce a un luogo il nome “là?” Ricorda che in questo caso il gesto d’indicare rientra della pratica stessa della comunicazione.


(Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là,” “qui,” “adesso,” “questo” siano “''i veri nomi propri'',” in opposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista ora esposto possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come un abbozzo  di quel che idealmente dovrebbe essere un nome proprio. Pensiamo agli ’“individuali” di Russell. Lui ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individuali. Secondo lui, dovrebbe essere poi l’analisi a mostrarci quali lo sono. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti,” “cose” (“pietre”).
(Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là,” “qui,” “adesso,” “questo” siano “''i veri nomi propri'',” in opposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista ora esposto possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come un abbozzo  di quel che idealmente dovrebbe essere un nome proprio. Pensiamo agli ’“individuali” di Russell. Lui ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individuali. Secondo lui, dovrebbe essere poi l’analisi a mostrarci quali lo sono. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti,” “cose” (“pietre”).
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=5)}} Domanda e risposta: A chiede “quante piastre?”, B conta e risponde con il numerale.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=5}} Domanda e risposta: A chiede “quante piastre?”, B conta e risponde con il numerale.


Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiameremmo giochi. Con tali giochi i bambini apprendono il linguaggio natio e qui conservano la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici descritti come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, ossia sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tale assunto, spesso conviene immaginarsi uno di questi linguaggi semplici come l’intero sistema di comunicazione di una tribù contraddistinta da una struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica elementare di alcune tribù. Quando un bambino o un adulto impara quelli che si potrebbero chiamare linguaggi tecnici speciali, per esempio l’uso di grafici e diagrammi, la geometria descrittiva, il simbolismo chimico, etc., apprende nuovi giochi linguistici. (Osservazione: la nostra immagine del linguaggio dell’adulto è quella di una massa nebulosa, cioè la sua madre lingua, circondata da giochi linguistici compatti e più o meno nitidi, ovvero i linguaggi tecnici).
Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiameremmo giochi. Con tali giochi i bambini apprendono il linguaggio natio e qui conservano la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici descritti come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, ossia sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tale assunto, spesso conviene immaginarsi uno di questi linguaggi semplici come l’intero sistema di comunicazione di una tribù contraddistinta da una struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica elementare di alcune tribù. Quando un bambino o un adulto impara quelli che si potrebbero chiamare linguaggi tecnici speciali, per esempio l’uso di grafici e diagrammi, la geometria descrittiva, il simbolismo chimico, etc., apprende nuovi giochi linguistici. (Osservazione: la nostra immagine del linguaggio dell’adulto è quella di una massa nebulosa, cioè la sua madre lingua, circondata da giochi linguistici compatti e più o meno nitidi, ovvero i linguaggi tecnici).




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6)}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda “che cos’è questo?”; A risponde “Questo è un …” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “questo è un…”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) un nome generico è stato spiegato, nella realtà concreta, quale nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale numerico, di una direzione.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda “che cos’è questo?”; A risponde “Questo è un …” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “questo è un…”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) un nome generico è stato spiegato, nella realtà concreta, quale nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale numerico, di una direzione.


(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri,” “nomi di colori,” “nomi di materiali,” “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, etc. siano molto più simili di quello che sono. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi generici quali “tavolo,” “sedia,” “porta,” etc. La seconda fonte ''b'') è che una volta capito come siano fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo,” “sedia” etc. rispetto ai nomi propri, e quanto questi due tipi di funzioni siano diverse da, per esempio, quelle dei nomi dei colori, non vediamo motivo per non parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti,” bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia rispettivamente tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato e dall’altro “est” e “Jack”.
(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri,” “nomi di colori,” “nomi di materiali,” “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, etc. siano molto più simili di quello che sono. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi generici quali “tavolo,” “sedia,” “porta,” etc. La seconda fonte ''b'') è che una volta capito come siano fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo,” “sedia” etc. rispetto ai nomi propri, e quanto questi due tipi di funzioni siano diverse da, per esempio, quelle dei nomi dei colori, non vediamo motivo per non parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti,” bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia rispettivamente tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato e dall’altro “est” e “Jack”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=7)}} B ha una tabella in cui dei segni scritti sono posti davanti a immagini di oggetti (per esempio un tavolo, una sedia, una tazza da tè, etc.). A scrive uno dei segni, B osserva la tabella, poi sposta lo sguardo o il dito dal segno scritto all’immagine di fronte e afferra l’oggetto raffigurato nell’immagine.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=7}} B ha una tabella in cui dei segni scritti sono posti davanti a immagini di oggetti (per esempio un tavolo, una sedia, una tazza da tè, etc.). A scrive uno dei segni, B osserva la tabella, poi sposta lo sguardo o il dito dal segno scritto all’immagine di fronte e afferra l’oggetto raffigurato nell’immagine.


Consideriamo ora i diversi tipi di segno che abbiamo introdotto. Prima distinguiamo frasi e parole. In un gioco linguistico chiamerò frase ogni segno completo, i cui costituenti sono parole. (Questa è solo un’osservazione sommaria e generica su come impiegherò le parole “proposizione” e “parole.”) Una proposizione può consistere di una sola parola. In 1) i segni “mattone!”, “colonna!” sono frasi. In 2) una frase è composta da due parole. A seconda dal ruolo giocato dalle proposizioni in un gioco linguistico, distinguiamo ordini, domande, spiegazioni, descrizioni, etc.
Consideriamo ora i diversi tipi di segno che abbiamo introdotto. Prima distinguiamo frasi e parole. In un gioco linguistico chiamerò frase ogni segno completo, i cui costituenti sono parole. (Questa è solo un’osservazione sommaria e generica su come impiegherò le parole “proposizione” e “parole.”) Una proposizione può consistere di una sola parola. In 1) i segni “mattone!”, “colonna!” sono frasi. In 2) una frase è composta da due parole. A seconda dal ruolo giocato dalle proposizioni in un gioco linguistico, distinguiamo ordini, domande, spiegazioni, descrizioni, etc.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=8)}} Se in un gioco linguistico simile a 1), quando A pronuncia l’ordine “lastra, colonna, mattone,” B gli porta una lastra, una colonna e un mattone, possiamo parlare di tre proposizioni oppure di una sola. Se invece
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=8}} Se in un gioco linguistico simile a 1), quando A pronuncia l’ordine “lastra, colonna, mattone,” B gli porta una lastra, una colonna e un mattone, possiamo parlare di tre proposizioni oppure di una sola. Se invece




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=9)}} l’ordine delle parole mostra a B l’ordine in cui portare le pietre, diremo che A pronuncia una proposizione consistente di tre parole. Se l’ordine in questo caso prendesse la forma “Lastra, poi colonna, poi mattone!” dovremmo dire che consisteva di quattro parole (non cinque). Tra le parole vediamo gruppi di parole con funzioni simili. Notiamo facilmente una somiglianza nell’uso delle parole “uno,” “due,” “tre,” etc. e poi di nuovo nell’uso di “lastra,” “colonna” e “mattone,” etc., e così distinguiamo le parti del discorso. In 8) tutte le parole della proposizione appartenevano alla stessa parte del discorso.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=9}} l’ordine delle parole mostra a B l’ordine in cui portare le pietre, diremo che A pronuncia una proposizione consistente di tre parole. Se l’ordine in questo caso prendesse la forma “Lastra, poi colonna, poi mattone!” dovremmo dire che consisteva di quattro parole (non cinque). Tra le parole vediamo gruppi di parole con funzioni simili. Notiamo facilmente una somiglianza nell’uso delle parole “uno,” “due,” “tre,” etc. e poi di nuovo nell’uso di “lastra,” “colonna” e “mattone,” etc., e così distinguiamo le parti del discorso. In 8) tutte le parole della proposizione appartenevano alla stessa parte del discorso.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=10)}} L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!” Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=10}} L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!” Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.


Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni ed è un paragone curioso quello tra i nostri esempi e le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due,” “tre,” etc., come mostriamo qui sotto:
Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni ed è un paragone curioso quello tra i nostri esempi e le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due,” “tre,” etc., come mostriamo qui sotto:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=11)}} Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire “una lastra!”, “un cubo!” etc., A si limita a gridare “lastra!”, “cubo!”, etc., l’uso degli altri numerali essendo descritto in 2). Immagina che a un uomo abituato a questa forma (11)) di comunicazione sia stato spiegato l’uso della parola “uno” come descritto in 2). Possiamo facilmente ipotizzare che si rifiuterebbe di classificare “uno” insieme ai numerali “2,” “3,” etc.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=11}} Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire “una lastra!”, “un cubo!” etc., A si limita a gridare “lastra!”, “cubo!”, etc., l’uso degli altri numerali essendo descritto in 2). Immagina che a un uomo abituato a questa forma (11)) di comunicazione sia stato spiegato l’uso della parola “uno” come descritto in 2). Possiamo facilmente ipotizzare che si rifiuterebbe di classificare “uno” insieme ai numerali “2,” “3,” etc.


(Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro l’inserimento di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”).
(Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro l’inserimento di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”).
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=12)}} A dà a B un ordine costituito da due simboli scritti, il primo una macchia irregolare di un certo colore, diciamo verde, il secondo il disegno del contorno di una figura geometrica, per esempio un cerchio. B gli porta un oggetto che assomiglia al secondo nella forma e nel colore al primo, ossia un oggetto verde circolare.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=12}} A dà a B un ordine costituito da due simboli scritti, il primo una macchia irregolare di un certo colore, diciamo verde, il secondo il disegno del contorno di una figura geometrica, per esempio un cerchio. B gli porta un oggetto che assomiglia al secondo nella forma e nel colore al primo, ossia un oggetto verde circolare.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=13)}} A dà a B un ordine costituito da un simbolo, una figura geometrica dipinta di un colore particolare, diciamo un cerchio verde. B gli porta un oggetto verde circolare. In 12) alcuni schemi corrispondono ai nomi dei colori e altri schemi ai nomi della forma. I simboli in 13) non li si può considerare come combinazioni dei suddetti due elementi. Una parola tra apici può essere chiamata schema. Quindi nella frase “lui ha detto ‘va’ al diavolo’”, ‘va’ al diavolo’ è uno schema di ciò che ha detto. Confronta questi casi:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=13}} A dà a B un ordine costituito da un simbolo, una figura geometrica dipinta di un colore particolare, diciamo un cerchio verde. B gli porta un oggetto verde circolare. In 12) alcuni schemi corrispondono ai nomi dei colori e altri schemi ai nomi della forma. I simboli in 13) non li si può considerare come combinazioni dei suddetti due elementi. Una parola tra apici può essere chiamata schema. Quindi nella frase “lui ha detto ‘va’ al diavolo’”, ‘va’ al diavolo’ è uno schema di ciò che ha detto. Confronta questi casi:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14)}} A mostra il campione a B, che poi va a prendere il materiale “a memoria”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14}} A mostra il campione a B, che poi va a prendere il materiale “a memoria”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=15)}} A dà il campione a B, che sposta lo sguardo dal campione allo scaffale con i materiali tra cui deve scegliere.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=15}} A dà il campione a B, che sposta lo sguardo dal campione allo scaffale con i materiali tra cui deve scegliere.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=16)}} B posa il campione su ogni striscia di materiale e sceglie quello che non riesce a distinguere dal campione, per il quale la differenza tra campione e materiale sembra svanire.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=16}} B posa il campione su ogni striscia di materiale e sceglie quello che non riesce a distinguere dal campione, per il quale la differenza tra campione e materiale sembra svanire.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=17)}} Immagina invece che l’ordine sia stato “portami un materiale leggermente più scuro di questo campione.” In 14) ho detto, servendomi di un’espressione comune, che B prende il materiale “a memoria.” Ma ciò che potrebbe accadere in un simile confronto “a memoria” è un insieme vastissimo di possibilità. Concepiscine alcune:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=17}} Immagina invece che l’ordine sia stato “portami un materiale leggermente più scuro di questo campione.” In 14) ho detto, servendomi di un’espressione comune, che B prende il materiale “a memoria.” Ma ciò che potrebbe accadere in un simile confronto “a memoria” è un insieme vastissimo di possibilità. Concepiscine alcune:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14a)}} Quando va a prendere il materiale, nell’occhio della mente B ha un’immagine mnemonica. Lancia occhiate ai materiali e ricorda l’immagine. Svolge il compito con, diciamo, cinque strisce, dicendosi talvolta “troppo scuro” e in altri casi “troppo chiaro.” Alla quinta striscia si ferma, dice “eccola” e la prende dallo scaffale.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14a}} Quando va a prendere il materiale, nell’occhio della mente B ha un’immagine mnemonica. Lancia occhiate ai materiali e ricorda l’immagine. Svolge il compito con, diciamo, cinque strisce, dicendosi talvolta “troppo scuro” e in altri casi “troppo chiaro.” Alla quinta striscia si ferma, dice “eccola” e la prende dallo scaffale.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14b)}} Nell’occhio di B non c’è alcun’immagine mnemonica. Guardando quattro strisce sente ogni volta una specie di tensione mentale e scuote la testa. Quando raggiunge la quinta striscia, la tensione si allenta, lui annuisce e allunga la mano.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14b}} Nell’occhio di B non c’è alcun’immagine mnemonica. Guardando quattro strisce sente ogni volta una specie di tensione mentale e scuote la testa. Quando raggiunge la quinta striscia, la tensione si allenta, lui annuisce e allunga la mano.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14c)}} B va allo scaffale senza un’immagine mnemonica, guarda cinque strisce una dopo l’altra, poi prende la quinta dallo scaffale.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14c}} B va allo scaffale senza un’immagine mnemonica, guarda cinque strisce una dopo l’altra, poi prende la quinta dallo scaffale.


“Il confronto però non può ridursi solo a questo”.
“Il confronto però non può ridursi solo a questo”.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=18)}} L’addestramento nell’uso delle tabelle (come in 7) non può consistere nell’insegnamento dell’uso di una tabella particolare, bensì deve consentire all’allievo di utilizzare o costruirsi tabelle con coordinazioni nuove di segni scritti e immagini. Ipotizziamo che la prima tabella che una persona sia stata addestrata a utilizzare contenesse le quattro parole “martello,” “pinze,” “sega,” “scalpello” e le immagini corrispondenti. Ora potremmo aggiungere l’immagine di un altro oggetto che l’allievo ha davanti a sé, diciamo di una pialla, e connetterlo alla parola “pialla.” Renderemo la correlazione tra la nuova immagine e la parola il più simile possibile alle correlazioni nella tabella precedente. Potremmo inserire la nuova parola e l’immagine sullo stesso foglio, mettere la parola nuova sotto le parole precedenti e la nuova immagine sotto le immagini precedenti. L’allievo sarà incoraggiato a utilizzare la nuova immagine e la parola senza l’addestramento speciale che gli abbiamo fornito insegnandogli a servirsi della prima tabella.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=18}} L’addestramento nell’uso delle tabelle (come in 7) non può consistere nell’insegnamento dell’uso di una tabella particolare, bensì deve consentire all’allievo di utilizzare o costruirsi tabelle con coordinazioni nuove di segni scritti e immagini. Ipotizziamo che la prima tabella che una persona sia stata addestrata a utilizzare contenesse le quattro parole “martello,” “pinze,” “sega,” “scalpello” e le immagini corrispondenti. Ora potremmo aggiungere l’immagine di un altro oggetto che l’allievo ha davanti a sé, diciamo di una pialla, e connetterlo alla parola “pialla.” Renderemo la correlazione tra la nuova immagine e la parola il più simile possibile alle correlazioni nella tabella precedente. Potremmo inserire la nuova parola e l’immagine sullo stesso foglio, mettere la parola nuova sotto le parole precedenti e la nuova immagine sotto le immagini precedenti. L’allievo sarà incoraggiato a utilizzare la nuova immagine e la parola senza l’addestramento speciale che gli abbiamo fornito insegnandogli a servirsi della prima tabella.


Tali atti di incoraggiamento saranno di vario genere e molti saranno resi possibili solo dalla risposta, anzi da una risposta particolare, dell’allievo. Pensa ai gesti, ai suoni etc. di cui ti servi a mo’ di incoraggiamento per addestrare un cane al riporto. Immagina invece di tentare di addestrare al riporto un gatto. Poiché il gatto non risponderà ai tuoi incoraggiamenti, moltissimi degli atti che hai compiuto nell’addestramento del cane in questo caso non li prenderai nemmeno in considerazione.
Tali atti di incoraggiamento saranno di vario genere e molti saranno resi possibili solo dalla risposta, anzi da una risposta particolare, dell’allievo. Pensa ai gesti, ai suoni etc. di cui ti servi a mo’ di incoraggiamento per addestrare un cane al riporto. Immagina invece di tentare di addestrare al riporto un gatto. Poiché il gatto non risponderà ai tuoi incoraggiamenti, moltissimi degli atti che hai compiuto nell’addestramento del cane in questo caso non li prenderai nemmeno in considerazione.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=19)}} L’allievo potrebbe anche essere addestrato a dare alle cose nomi di propria invenzione e poi, sentendone pronunciare i nomi, a riportare suddetti oggetti. Gli si presenta, per esempio, una tabella con raffigurate da un lato le immagini degli oggetti che ha attorno a sé e degli spazi bianchi dall’altro. Per giocare deve scrivere segni di propria invenzione davanti alle immagini e, quando tali segni vengono pronunciati in quanto ordini, reagire come spiegato sopra. Oppure
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=19}} L’allievo potrebbe anche essere addestrato a dare alle cose nomi di propria invenzione e poi, sentendone pronunciare i nomi, a riportare suddetti oggetti. Gli si presenta, per esempio, una tabella con raffigurate da un lato le immagini degli oggetti che ha attorno a sé e degli spazi bianchi dall’altro. Per giocare deve scrivere segni di propria invenzione davanti alle immagini e, quando tali segni vengono pronunciati in quanto ordini, reagire come spiegato sopra. Oppure




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=20)}} il gioco può consistere in B che costruisce una tabella e obbedisce a ordini dati nei termini di suddetta tabella. Durante l’insegnamento dell’uso di una tabella, che per esempio è composta di due colonne verticali, quella a sinistra che contiene i nomi e quella a destra le immagini, un nome e un’immagine essendo correlati se situati nella stessa riga orizzontale, un elemento fondamentale dell’addestramento potrebbe consistere nel far scivolare all’allievo il dito da sinistra a destra, come per imparare a tracciare una serie di linee orizzontali una sotto l’altra. Una simile pratica faciliterebbe la transizione dalla prima tabella alla successiva.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=20}} il gioco può consistere in B che costruisce una tabella e obbedisce a ordini dati nei termini di suddetta tabella. Durante l’insegnamento dell’uso di una tabella, che per esempio è composta di due colonne verticali, quella a sinistra che contiene i nomi e quella a destra le immagini, un nome e un’immagine essendo correlati se situati nella stessa riga orizzontale, un elemento fondamentale dell’addestramento potrebbe consistere nel far scivolare all’allievo il dito da sinistra a destra, come per imparare a tracciare una serie di linee orizzontali una sotto l’altra. Una simile pratica faciliterebbe la transizione dalla prima tabella alla successiva.


Adeguandomi all’uso ordinario, tabelle, definizioni ostensive e strumenti simili io li chiamerò regole. L’uso di una regola può venire spiegato da una regola successiva.
Adeguandomi all’uso ordinario, tabelle, definizioni ostensive e strumenti simili io li chiamerò regole. L’uso di una regola può venire spiegato da una regola successiva.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=21)}} Considera l’esempio seguente: introduciamo modi diversi di leggere tabelle. Ogni tabella consiste di due colonne di parole e immagini, come sopra. In certi casi vanno lette orizzontalmente da sinistra a destra, per esempio secondo lo schema:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=21}} Considera l’esempio seguente: introduciamo modi diversi di leggere tabelle. Ogni tabella consiste di due colonne di parole e immagini, come sopra. In certi casi vanno lette orizzontalmente da sinistra a destra, per esempio secondo lo schema:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=22)}} Uno dei due giochi si svolge con un numero fisso di carte, diciamo 32. Nell’altro gioco in alcune situazioni si può aumentare a piacere il numero delle carte, basta tagliare dei fogli e scriverci sopra un numero. Chiameremo il primo gioco limitato, illimitato il secondo. Immagina che in una mano del secondo gioco il numero di carte impiegate sia 32. In questo caso qual è la differenza tra giocare una mano ''a'') del gioco limitato e giocare una mano ''b'') del gioco illimitato?
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=22}} Uno dei due giochi si svolge con un numero fisso di carte, diciamo 32. Nell’altro gioco in alcune situazioni si può aumentare a piacere il numero delle carte, basta tagliare dei fogli e scriverci sopra un numero. Chiameremo il primo gioco limitato, illimitato il secondo. Immagina che in una mano del secondo gioco il numero di carte impiegate sia 32. In questo caso qual è la differenza tra giocare una mano ''a'') del gioco limitato e giocare una mano ''b'') del gioco illimitato?


La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo, per esempio il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli intonsi e matite.
La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo, per esempio il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli intonsi e matite.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=23)}} Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1,” “2,” etc…. “9”, ognuno dei quali è scritto su una carta. A dispone di una pila di queste carte e per dare l’ordine a B gliene mostra una e pronuncia una parola quale “lastra,” “colonna,” etc.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=23}} Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1,” “2,” etc…. “9”, ognuno dei quali è scritto su una carta. A dispone di una pila di queste carte e per dare l’ordine a B gliene mostra una e pronuncia una parola quale “lastra,” “colonna,” etc.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=24)}} Come 23), solo che non c’è la pila di carte numerate. La serie dei numerali 1… 9 va imparata a memoria. Negli ordini vengono pronunciati i numerali e il bambino li impara sentendoli scandire a voce.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=24}} Come 23), solo che non c’è la pila di carte numerate. La serie dei numerali 1… 9 va imparata a memoria. Negli ordini vengono pronunciati i numerali e il bambino li impara sentendoli scandire a voce.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=25)}} Si usa un pallottoliere. A sistema il pallottoliere e lo passa a B, che se lo porta dove sono disposte le lastre, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=25}} Si usa un pallottoliere. A sistema il pallottoliere e lo passa a B, che se lo porta dove sono disposte le lastre, etc.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=26)}} B deve contare le piastre in una pila. Lo fa con un pallottoliere di 20 palline. Nella pila non ci sono mai più di 20 piastre. B sistema il pallottoliere in modo da fargli mostrare il numero corrispondente a quello della lastra nella pila e fa vedere il pallottoliere ad A.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=26}} B deve contare le piastre in una pila. Lo fa con un pallottoliere di 20 palline. Nella pila non ci sono mai più di 20 piastre. B sistema il pallottoliere in modo da fargli mostrare il numero corrispondente a quello della lastra nella pila e fa vedere il pallottoliere ad A.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=27)}} Come 26). Il pallottoliere ha 20 palline e una sfera più grossa. Se la pila contiene più di 20 lastre, si sposta la sfera più grossa. (Quindi in qualche modo quest’ultima corrisponde a “molti”).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=27}} Come 26). Il pallottoliere ha 20 palline e una sfera più grossa. Se la pila contiene più di 20 lastre, si sposta la sfera più grossa. (Quindi in qualche modo quest’ultima corrisponde a “molti”).




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=28)}} Come 26). Se la pila contiene n piastre, n essendo più di 20 ma meno di 40, B muove n-20 palline, mostra il pallottoliere ad A e applaude una sola volta.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=28}} Come 26). Se la pila contiene n piastre, n essendo più di 20 ma meno di 40, B muove n-20 palline, mostra il pallottoliere ad A e applaude una sola volta.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=29)}} A e B utilizzano i numerali del sistema decimale (scritto o parlato) fino a 20. Il bambino che apprende questo linguaggio impara tali numerali a memoria, come in 2).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=29}} A e B utilizzano i numerali del sistema decimale (scritto o parlato) fino a 20. Il bambino che apprende questo linguaggio impara tali numerali a memoria, come in 2).




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=30)}} Una certa tribù ha un linguaggio del tipo 2). I numerali adoperati sono quelli del nostro sistema decimale. Nessun numerale impiegato sembra rivestito del ruolo predominante degli ultimi numerali in alcuni dei giochi di cui sopra (27), 28)). (Si è tentati di proseguire la frase precedente dicendo “anche se naturalmente esiste un numerale utilizzato maggiore”). I bambini della tribù imparano i numerali nel modo seguente: come in 2) gli si insegnano i segni da 1 a 20 e, con l’ordine di “contale”, a contare file di non più di 20 palline. Quando contando l’allievo arriva al numerale 20, gli si fa un gesto a significare “prosegui”, dopo il quale il bambino dice (quasi sempre, perlomeno) “21.” Analogamente, i bambini vengono fatti contare fino a 22 e oltre, senza che in questi esercizi ci sia una cifra specifica a esercitare il ruolo conclusivo predominante. Per l’ultimo stadio dell’addestramento si ordina all’allievo di contare un gruppo di oggetti, ben superiore a 20, senza alcun gesto a suggerirgli di oltrepassare la cifra 20. Se un bambino non reagisce a tale gesto di incoraggiamento, lo si separa dagli altri e lo si tratta come un folle.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=30}} Una certa tribù ha un linguaggio del tipo 2). I numerali adoperati sono quelli del nostro sistema decimale. Nessun numerale impiegato sembra rivestito del ruolo predominante degli ultimi numerali in alcuni dei giochi di cui sopra (27), 28)). (Si è tentati di proseguire la frase precedente dicendo “anche se naturalmente esiste un numerale utilizzato maggiore”). I bambini della tribù imparano i numerali nel modo seguente: come in 2) gli si insegnano i segni da 1 a 20 e, con l’ordine di “contale”, a contare file di non più di 20 palline. Quando contando l’allievo arriva al numerale 20, gli si fa un gesto a significare “prosegui”, dopo il quale il bambino dice (quasi sempre, perlomeno) “21.” Analogamente, i bambini vengono fatti contare fino a 22 e oltre, senza che in questi esercizi ci sia una cifra specifica a esercitare il ruolo conclusivo predominante. Per l’ultimo stadio dell’addestramento si ordina all’allievo di contare un gruppo di oggetti, ben superiore a 20, senza alcun gesto a suggerirgli di oltrepassare la cifra 20. Se un bambino non reagisce a tale gesto di incoraggiamento, lo si separa dagli altri e lo si tratta come un folle.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=31)}} Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Nella vita di questa tribù il numerale 159 riveste un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto “trattano questo numero come se fosse il più alto”…  ma che cosa significa? Possiamo rispondere “dicono che è il più alto”? – Pronunciano certe parole, ma come facciamo a sapere che cosa intendono utilizzandole? Un criterio per definire ciò che intendono sarebbero le occasioni in cui costoro impiegano la parola che noi saremmo propensi a tradurre con “il più alto”, ovvero il ruolo, diremmo, che ci è parso di veder svolgere a tale parola nella vita della tribù. In effetti si può agevolmente immaginare che in tali circostanze venga impiegato il numerale 159, insieme a gesti e costumi i quali ci porterebbero a dire che, pur non disponendo la tribù di un’espressione corrispondente al nostro “”il più alto” e pur non consistendo il criterio per cui il numerale 159 è il più alto in nulla di ''detto'' su di esso, tale numerale funge da limite insormontabile.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=31}} Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Nella vita di questa tribù il numerale 159 riveste un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto “trattano questo numero come se fosse il più alto”…  ma che cosa significa? Possiamo rispondere “dicono che è il più alto”? – Pronunciano certe parole, ma come facciamo a sapere che cosa intendono utilizzandole? Un criterio per definire ciò che intendono sarebbero le occasioni in cui costoro impiegano la parola che noi saremmo propensi a tradurre con “il più alto”, ovvero il ruolo, diremmo, che ci è parso di veder svolgere a tale parola nella vita della tribù. In effetti si può agevolmente immaginare che in tali circostanze venga impiegato il numerale 159, insieme a gesti e costumi i quali ci porterebbero a dire che, pur non disponendo la tribù di un’espressione corrispondente al nostro “”il più alto” e pur non consistendo il criterio per cui il numerale 159 è il più alto in nulla di ''detto'' su di esso, tale numerale funge da limite insormontabile.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=32)}} Una tribù ha due sistemi per contare. La gente ha imparato a contare con l’alfabeto dalla A alla Z e anche, come in 30), con il sistema decimale. Se un uomo si accinge a contare oggetti con il primo sistema, gli si ordina di contare “''nella maniera chiusa''”, nel secondo caso invece “''nella maniera aperta'';” la tribù si serve dei termini “aperta” e “chiusa” anche in riferimento a una porta chiusa e aperta.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=32}} Una tribù ha due sistemi per contare. La gente ha imparato a contare con l’alfabeto dalla A alla Z e anche, come in 30), con il sistema decimale. Se un uomo si accinge a contare oggetti con il primo sistema, gli si ordina di contare “''nella maniera chiusa''”, nel secondo caso invece “''nella maniera aperta'';” la tribù si serve dei termini “aperta” e “chiusa” anche in riferimento a una porta chiusa e aperta.


(Osservazione: 23 è limitata in modo ovvio dal mazzo di carte. 24): nota l’analogia e la mancanza di analogia tra il ''rifornimento limitato'' di carte in 23) e le parole nella nostra memoria in 24). Osserva che in 26) la limitazione da un lato risiede nello ''strumento'' (il pallottoliere con venti palline) e nel suo utilizzo all’interno del gioco e dall’altro lato (in maniera completamente diversa) nel fatto che nella pratica concreta del gioco non dovranno mai essere contati più di venti oggetti. In 27) quest’ultimo tipo di limitazione era assente, ma la sfera più grossa fungeva come da sottolineatura della limitatezza dei nostri mezzi. 28) è un gioco limitato o illimitato? La pratica che abbiamo descritto fornisce il limite 40. Siamo propensi a dire che tale gioco “contiene in sé” la possibilità di continuare indefinitamente, ma ricorda che abbiamo anche costruito i giochi precedenti come degli inizi di sistemi. In 29) l’aspetto sistematico dei numerali impiegati è perfino più evidente che in 28). Se non fosse che i numerali fino a 20 vanno appresi a memoria, si potrebbe dire che gli strumenti di suddetto gioco non pongono alcuna limitazione. Ciò suggerisce l’idea che al bambino non si insegni a “''capire''” il sistema che scorgiamo nella notazione decimale. Dei membri della tribù di 30) si dovrebbe certamente dire che sono addestrati a costruire numerali indefinitamente, che l’aritmetica del loro linguaggio non è finita, che le loro serie di numeri non hanno termine. (È solo nei casi in cui i numeri sono costruiti “indefinitamente” che diciamo che le persone hanno serie infinite di numeri.) 31) potrebbe mostrarci che si può immaginare una gran quantità di casi in cui saremmo portati a dire che, nonostante il fatto che l’addestramento per i numerali a cui si sottopongono i bambini indica l’assenza di un limite superiore, l’aritmetica della tribù si rapporta a serie finite di numeri. In 32) i termini “chiusa” e “aperta” (che con una lieve variazione dell’esempio potrebbero trasformarsi in “limitato” e “illimitato”) sono inseriti nel linguaggio della tribù stessa. Se lo si introduce in un tale gioco semplice e chiaramente circoscritto, non c’è naturalmente nulla di misterioso nell’uso della parola “aperta.” Ma la parola in questione corrisponde al nostro “infinita” e i giochi per cui la adoperiamo differiscono da 31) solo in quanto estremamente più complicati. Cioè il nostro impiego del termine “infinita” è ''trasparente'' come l’utilizzo di “aperta” in 32) e la nostra idea che il suo significato sia trascendente si fonda su un’incomprensione.)
(Osservazione: 23 è limitata in modo ovvio dal mazzo di carte. 24): nota l’analogia e la mancanza di analogia tra il ''rifornimento limitato'' di carte in 23) e le parole nella nostra memoria in 24). Osserva che in 26) la limitazione da un lato risiede nello ''strumento'' (il pallottoliere con venti palline) e nel suo utilizzo all’interno del gioco e dall’altro lato (in maniera completamente diversa) nel fatto che nella pratica concreta del gioco non dovranno mai essere contati più di venti oggetti. In 27) quest’ultimo tipo di limitazione era assente, ma la sfera più grossa fungeva come da sottolineatura della limitatezza dei nostri mezzi. 28) è un gioco limitato o illimitato? La pratica che abbiamo descritto fornisce il limite 40. Siamo propensi a dire che tale gioco “contiene in sé” la possibilità di continuare indefinitamente, ma ricorda che abbiamo anche costruito i giochi precedenti come degli inizi di sistemi. In 29) l’aspetto sistematico dei numerali impiegati è perfino più evidente che in 28). Se non fosse che i numerali fino a 20 vanno appresi a memoria, si potrebbe dire che gli strumenti di suddetto gioco non pongono alcuna limitazione. Ciò suggerisce l’idea che al bambino non si insegni a “''capire''” il sistema che scorgiamo nella notazione decimale. Dei membri della tribù di 30) si dovrebbe certamente dire che sono addestrati a costruire numerali indefinitamente, che l’aritmetica del loro linguaggio non è finita, che le loro serie di numeri non hanno termine. (È solo nei casi in cui i numeri sono costruiti “indefinitamente” che diciamo che le persone hanno serie infinite di numeri.) 31) potrebbe mostrarci che si può immaginare una gran quantità di casi in cui saremmo portati a dire che, nonostante il fatto che l’addestramento per i numerali a cui si sottopongono i bambini indica l’assenza di un limite superiore, l’aritmetica della tribù si rapporta a serie finite di numeri. In 32) i termini “chiusa” e “aperta” (che con una lieve variazione dell’esempio potrebbero trasformarsi in “limitato” e “illimitato”) sono inseriti nel linguaggio della tribù stessa. Se lo si introduce in un tale gioco semplice e chiaramente circoscritto, non c’è naturalmente nulla di misterioso nell’uso della parola “aperta.” Ma la parola in questione corrisponde al nostro “infinita” e i giochi per cui la adoperiamo differiscono da 31) solo in quanto estremamente più complicati. Cioè il nostro impiego del termine “infinita” è ''trasparente'' come l’utilizzo di “aperta” in 32) e la nostra idea che il suo significato sia trascendente si fonda su un’incomprensione.)
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=33)}} B si muove in base alle regole che A gli fornisce. B riceve la seguente tabella:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=33}} B si muove in base alle regole che A gli fornisce. B riceve la seguente tabella:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=34)}} B deve tracciare vari disegni lineari ornamentali. Ogni disegno è la ripetizione del solo elemento che A gli fornisce. Quindi se A dà l’ordine “c a d a,” B traccia una linea così: ***CORNYCETTA***
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=34}} B deve tracciare vari disegni lineari ornamentali. Ogni disegno è la ripetizione del solo elemento che A gli fornisce. Quindi se A dà l’ordine “c a d a,” B traccia una linea così: ***CORNYCETTA***


In questo caso credo che si debba dire che “c a d a” è la regola per tracciare il disegno. Approssimando, diremo che a caratterizzare ciò che chiamiamo regola è il fatto di essere applicata ripetutamente, in un numero indefinito di occorrenze. Confronta con 34), per esempio, il caso seguente:
In questo caso credo che si debba dire che “c a d a” è la regola per tracciare il disegno. Approssimando, diremo che a caratterizzare ciò che chiamiamo regola è il fatto di essere applicata ripetutamente, in un numero indefinito di occorrenze. Confronta con 34), per esempio, il caso seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=35)}} Un gioco svolto con pezzi di varie forme su una scacchiera. Come ogni pezzo può muoversi lo stabilisce da una regola. Quindi la regola per un pezzo specifico è “ac,” per un altro “acaa” e avanti così. Il primo pezzo può dunque muoversi così: ***FREC***, il secondo in questo modo: ***FRE***. Sia una formula come “ac” sia un diagramma che le corrisponda qui possono venire considerati una regola.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=35}} Un gioco svolto con pezzi di varie forme su una scacchiera. Come ogni pezzo può muoversi lo stabilisce da una regola. Quindi la regola per un pezzo specifico è “ac,” per un altro “acaa” e avanti così. Il primo pezzo può dunque muoversi così: ***FREC***, il secondo in questo modo: ***FRE***. Sia una formula come “ac” sia un diagramma che le corrisponda qui possono venire considerati una regola.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=36)}} Immagina che dopo aver giocato a 33) varie volte come descritto sopra, si continui con la variazione seguente: B non guarda più la tabella, ma, mentre legge gli ordini di A, le lettere gli richiamano alla mente le immagini delle frecce (per associazione) e B agisce seguendo tali frecce immaginarie.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=36}} Immagina che dopo aver giocato a 33) varie volte come descritto sopra, si continui con la variazione seguente: B non guarda più la tabella, ma, mentre legge gli ordini di A, le lettere gli richiamano alla mente le immagini delle frecce (per associazione) e B agisce seguendo tali frecce immaginarie.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=37)}} Dopo aver giocato varie volte nel modo spiegato sopra, B si sposta seguendo l’ordine scritto come avrebbe fatto guardando o immaginando le frecce, tuttavia senza l’intervento di alcuna immagine. Considera la variazione seguente:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=37}} Dopo aver giocato varie volte nel modo spiegato sopra, B si sposta seguendo l’ordine scritto come avrebbe fatto guardando o immaginando le frecce, tuttavia senza l’intervento di alcuna immagine. Considera la variazione seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=38)}} Mentre B viene addestrato a eseguire un ordine diretto, gli si mostra una sola volta la tabella di 33), dopodiché senza più guardare la tabella B obbedisce agli ordini di A nello stesso modo in cui, ogni volta con l’aiuto della tabella, obbediva in 33).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=38}} Mentre B viene addestrato a eseguire un ordine diretto, gli si mostra una sola volta la tabella di 33), dopodiché senza più guardare la tabella B obbedisce agli ordini di A nello stesso modo in cui, ogni volta con l’aiuto della tabella, obbediva in 33).


In tutti questi casi, diremmo che la tabella 33) è una regola del gioco. Ma in ciascuno dei casi la regola svolge un ruolo diverso. In 33) la tabella è uno strumento utilizzato in quella che chiameremmo la ''pratica'' del gioco. In 36) la rimpiazza invece il lavoro dell’associazione. In 37) perfino l’ombra della tabella è uscita dalla pratica del gioco e in 38) la tabella è dichiaratamente uno strumento utile solo all’''addestramento'' di B.
In tutti questi casi, diremmo che la tabella 33) è una regola del gioco. Ma in ciascuno dei casi la regola svolge un ruolo diverso. In 33) la tabella è uno strumento utilizzato in quella che chiameremmo la ''pratica'' del gioco. In 36) la rimpiazza invece il lavoro dell’associazione. In 37) perfino l’ombra della tabella è uscita dalla pratica del gioco e in 38) la tabella è dichiaratamente uno strumento utile solo all’''addestramento'' di B.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=39)}} Una tribù si serve di un certo sistema di comunicazione. Lo descriverò dicendo che assomiglia al nostro gioco 38), tranne che per l’assenza dell’uso di una tabella da adoperare durante l’addestramento. L’addestramento ''potrebbe'' consistere nell’accompagnare per mano l’allievo lungo il percorso per cui lo si vuole far camminare. Ci si potrebbe però immaginare anche un altro caso:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=39}} Una tribù si serve di un certo sistema di comunicazione. Lo descriverò dicendo che assomiglia al nostro gioco 38), tranne che per l’assenza dell’uso di una tabella da adoperare durante l’addestramento. L’addestramento ''potrebbe'' consistere nell’accompagnare per mano l’allievo lungo il percorso per cui lo si vuole far camminare. Ci si potrebbe però immaginare anche un altro caso:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40)}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “se gli si mostra la lettera ''a'', lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Che in 38) e in 39) l’addestramento ''precede'' l’esecuzione dell’ordine non cambia il processo della sua esecuzione. Ovverossia “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Un tale meccanismo non ''potrebbe'' essere congenito?” Hai però riscontrato una qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato un ''tale'' meccanismo, che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o la spiegazione dei segni abcd data in 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire a sua volta una tabella, e avanti così. (Cfr. 21)
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “se gli si mostra la lettera ''a'', lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Che in 38) e in 39) l’addestramento ''precede'' l’esecuzione dell’ordine non cambia il processo della sua esecuzione. Ovverossia “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Un tale meccanismo non ''potrebbe'' essere congenito?” Hai però riscontrato una qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato un ''tale'' meccanismo, che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o la spiegazione dei segni abcd data in 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire a sua volta una tabella, e avanti così. (Cfr. 21)


Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “va’ da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada costui)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Tale esempio mostra gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “va’ da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada costui)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Tale esempio mostra gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=41)}} Il gioco assomiglia a 33), ma l’allievo non è addestrato soltanto a servirsi di un’unica tabella; l’addestramento si prefigge fargli impiegare qualunque tabella che correla lettere e frecce. Con ciò intendo semplicemente dire che si tratta di un tipo particolare di addestramento, per certi versi analogo a quello descritto in 30). Definisco un addestramento simile a quello di 30) “''addestramento generico''.” L’addestramento generico forma una famiglia i cui membri sono molto diversi l’uno dall’altro. Quello a cui penso consiste soprattutto: ''a'') in un addestramento a una gamma limitata di azioni, ''b'') nel dare all’allievo un’opportunità di estendere tale gamma, e ''c'') di esercizi e prove a caso. Dopo l’addestramento generico l’ordine dovrà consistere nel fornirgli un segno di questo tipo:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=41}} Il gioco assomiglia a 33), ma l’allievo non è addestrato soltanto a servirsi di un’unica tabella; l’addestramento si prefigge fargli impiegare qualunque tabella che correla lettere e frecce. Con ciò intendo semplicemente dire che si tratta di un tipo particolare di addestramento, per certi versi analogo a quello descritto in 30). Definisco un addestramento simile a quello di 30) “''addestramento generico''.” L’addestramento generico forma una famiglia i cui membri sono molto diversi l’uno dall’altro. Quello a cui penso consiste soprattutto: ''a'') in un addestramento a una gamma limitata di azioni, ''b'') nel dare all’allievo un’opportunità di estendere tale gamma, e ''c'') di esercizi e prove a caso. Dopo l’addestramento generico l’ordine dovrà consistere nel fornirgli un segno di questo tipo:


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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=42)}} A dà ordini a B: tali ordini consistono in segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “-” va espletato facendo prima un passo e poi un saltello; l’ordine “..---” alternando due saltelli e tre passi, etc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini.” – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Qualunque ordine si dia nella pratica di gioco contribuisce a costituire tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire che è limitato sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30)). Cfr. questo gioco con il seguente:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=42}} A dà ordini a B: tali ordini consistono in segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “-” va espletato facendo prima un passo e poi un saltello; l’ordine “..---” alternando due saltelli e tre passi, etc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini.” – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Qualunque ordine si dia nella pratica di gioco contribuisce a costituire tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire che è limitato sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30)). Cfr. questo gioco con il seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=43)}} Gli ordini e la loro esecuzione come in 42); ma si usano solo i tre segni “-”, “-..”, “.--”. Diciamo che in 42) nell’esecuzione dell’ordine B è ''guidato'' dal segno fornitogli. Se però ci chiediamo se i tre segni in 43) guidano B nell’esecuzione degli ordini, a seconda del modo in cui guardiamo tale esecuzione, ci sembra di poter rispondere sia sì che no.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=43}} Gli ordini e la loro esecuzione come in 42); ma si usano solo i tre segni “-”, “-..”, “.--”. Diciamo che in 42) nell’esecuzione dell’ordine B è ''guidato'' dal segno fornitogli. Se però ci chiediamo se i tre segni in 43) guidano B nell’esecuzione degli ordini, a seconda del modo in cui guardiamo tale esecuzione, ci sembra di poter rispondere sia sì che no.


Se cerchiamo di decidere se in 43) B è guidato dai segni o meno, siamo portati a dare risposte come la seguente: ''a'') B è guidato se non si limita a guardare a un ordine, per esempio “.--” come a un’unità per poi agire e invece lo legge “parola per parola” (i termini impiegati nel nostro linguaggio essendo “.” e “-”) e agisce in base alle parole lette.
Se cerchiamo di decidere se in 43) B è guidato dai segni o meno, siamo portati a dare risposte come la seguente: ''a'') B è guidato se non si limita a guardare a un ordine, per esempio “.--” come a un’unità per poi agire e invece lo legge “parola per parola” (i termini impiegati nel nostro linguaggio essendo “.” e “-”) e agisce in base alle parole lette.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=44)}} Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o di un attrezzo, che consiste in una tavola con una fessura per guidare il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, etc. Il linguaggio di colore che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muovere in cerchio, in linea retta, etc. Hanno anche un mezzo specifico per descrivere la tavola impiegata. A riguardo si esprimono così: “questa è una tavola il cui il piolo ''può'' essere mosso circolarmente.” In questo caso si potrebbe chiamare la parola “può” un operatore per mezzo del quale una forma di espressione che descrive un’azione si trasforma nella descrizione di uno strumento.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=44}} Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o di un attrezzo, che consiste in una tavola con una fessura per guidare il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, etc. Il linguaggio di colore che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muovere in cerchio, in linea retta, etc. Hanno anche un mezzo specifico per descrivere la tavola impiegata. A riguardo si esprimono così: “questa è una tavola il cui il piolo ''può'' essere mosso circolarmente.” In questo caso si potrebbe chiamare la parola “può” un operatore per mezzo del quale una forma di espressione che descrive un’azione si trasforma nella descrizione di uno strumento.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=45)}} Immagina un popolo nel cui linguaggio non esistono forme proposizionali quali “il libro è nel cassetto” o “l’acqua è nel bicchiere,” perciò ogniqualvolta noi utilizziamo espressioni simili loro invece dicono “il libro può essere preso dal cassetto” o “l’acqua può essere presa dal bicchiere”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=45}} Immagina un popolo nel cui linguaggio non esistono forme proposizionali quali “il libro è nel cassetto” o “l’acqua è nel bicchiere,” perciò ogniqualvolta noi utilizziamo espressioni simili loro invece dicono “il libro può essere preso dal cassetto” o “l’acqua può essere presa dal bicchiere”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=46)}} Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare suddetti bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma di “questo bastone può essere piegato facilmente” oppure di “questo bastone può essere piegato con difficoltà.” Di tali espressioni si servono nel modo in cui noi affermiamo “questo bastone è elastico” o “questo bastone è duro.” Cioè non utilizzano la frase “questo bastone può essere piegato facilmente” come noi ci serviremo della proposizione “mi riesce facile piegare questo bastone.” Invece la impiegano in maniera tale che noi diremmo che stanno descrivendo uno stato del bastone. Per esempio si servono di frasi come “questa capanna è fatta di bastoni che possono essere piegati facilmente.” (Pensa a come noi formiamo gli aggettivi apponendo ai verbi dei suffissi: “-bile”, per esempio in “deformabile”).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=46}} Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare suddetti bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma di “questo bastone può essere piegato facilmente” oppure di “questo bastone può essere piegato con difficoltà.” Di tali espressioni si servono nel modo in cui noi affermiamo “questo bastone è elastico” o “questo bastone è duro.” Cioè non utilizzano la frase “questo bastone può essere piegato facilmente” come noi ci serviremo della proposizione “mi riesce facile piegare questo bastone.” Invece la impiegano in maniera tale che noi diremmo che stanno descrivendo uno stato del bastone. Per esempio si servono di frasi come “questa capanna è fatta di bastoni che possono essere piegati facilmente.” (Pensa a come noi formiamo gli aggettivi apponendo ai verbi dei suffissi: “-bile”, per esempio in “deformabile”).


Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra suddetti esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Ci siamo accorti che la tavola ha una fessura circolare o lineare, etc. In 45) per certi versi le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, etc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo che corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensoria statica.
Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra suddetti esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Ci siamo accorti che la tavola ha una fessura circolare o lineare, etc. In 45) per certi versi le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, etc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo che corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensoria statica.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=47)}} Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio “spara!”, “corri!”, “striscia!”, etc. Costoro dispongono anche di una maniera particolare di descrivere la corporatura di un uomo. Tale descrizione ha la forma di “può correre veloce,” “può scagliare la lancia lontano.” Ciò che mi autorizza a dire che delle frasi siffatte sono descrizioni della corporatura di un uomo è il loro impiego. Quindi, se vedono un uomo con le gambe molto muscolose ma che, per così dire, ha per qualche ragione perso la mobilità degli arti inferiori, dicono che si tratta di un uomo che può correre veloce. L’immagine disegnata di un uomo dai bicipiti robusti la descriverebbero come la rappresentazione di “uno che può scagliare la lancia lontano”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=47}} Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio “spara!”, “corri!”, “striscia!”, etc. Costoro dispongono anche di una maniera particolare di descrivere la corporatura di un uomo. Tale descrizione ha la forma di “può correre veloce,” “può scagliare la lancia lontano.” Ciò che mi autorizza a dire che delle frasi siffatte sono descrizioni della corporatura di un uomo è il loro impiego. Quindi, se vedono un uomo con le gambe molto muscolose ma che, per così dire, ha per qualche ragione perso la mobilità degli arti inferiori, dicono che si tratta di un uomo che può correre veloce. L’immagine disegnata di un uomo dai bicipiti robusti la descriverebbero come la rappresentazione di “uno che può scagliare la lancia lontano”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=48)}} Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standard. Li fa sollevare certi pesi, dondolare le braccia, saltellare, etc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali può scagliare la lancia” o “può lanciare il boomerang” o “ha la salute necessaria per inseguire il nemico,” etc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce però solo in quanto prove per certe attività militari.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=48}} Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standard. Li fa sollevare certi pesi, dondolare le braccia, saltellare, etc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali può scagliare la lancia” o “può lanciare il boomerang” o “ha la salute necessaria per inseguire il nemico,” etc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce però solo in quanto prove per certe attività militari.


Riguardo al presente esempio e ad altri casi, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli forniti del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole. Dunque se asserisco che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere la prova” e “lanciare il boomerang” per giustificare la sostituzione di queste espressioni italiane al posto di quelle originali. A ciò noi ribatteremmo che abbiamo fornito solo una descrizione meramente abbozzata delle pratiche del nostro linguaggio inventato e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far seguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con “fa’ la prova.” A quest’espressione ne segue un’altra che durante le battaglie si impiega per certe azioni militari. In guerra c’è un comando al sentire il quale i membri della tribù scagliano i boomerang e che io dovrei tradurre con “scaglia il boomerang!” Inoltre se un uomo racconta una battaglia al suo capo, utilizza ancora l’espressione che io ho tradotto con “scagliare il boomerang”, stavolta in una descrizione. Ora ciò che caratterizza un ordine in quanto tale o una descrizione in quanto tale o una domanda in quanto tale, etc. è – come abbiamo spiegato – il ruolo giocato dall’enunciazione di tali segni nella pratica complessiva del linguaggio. Ovverosia se una parola del linguaggio della nostra tribù è tradotta correttamente o meno in italiano dipende dal ruolo che tale termine riveste nell’esistenza complessiva della tribù; le occasioni in cui la si usa, le espressioni emotive con cui di solito la si accompagna, le idee che sentirla pronunciare generalmente ridesta o suggerisce negli astanti, etc. A mo’ di esercizio chiediti: in quali casi affermeresti che una certa parola enunciata dai membri della tribù è un saluto? In quali casi diresti che corrisponde al nostro “arrivederci”, in quali invece a “ciao”? In quali casi diresti che una parola straniera corrisponde al nostro “magari”… alle nostre espressioni di dubbio, fiducia, certezza? Ti accorgerai che le giustificazioni per considerare qualcosa come un’espressione di dubbio, convinzione, etc., in gran parte ma ovviamente non sempre, consistono in descrizioni di gesti, del gioco della mimica facciale e perfino del tono di voce. Rammenta allora che l’esperienza personale delle emozioni deve essere in parte un’esperienza assolutamente localizzata; se faccio una smorfia di rabbia, percepisco la tensione muscolare nella mia fronte aggrottata, se piango le sensazioni che sperimento attorno agli occhi sono naturalmente parte, e parte importante, di ciò che provo. Credo sia a questo che si riferisse William James con l’affermazione secondo la quale un uomo non piange perché è triste ma è triste perché piange. Il motivo per cui tale punto resta spesso incompreso è il nostro pensare all’enunciazione di un’emozione come se si trattasse di un qualche espediente artificioso per far sapere agli altri che ne siamo affetti. Invece non c’è confine netto tra tali “espedienti artificiosi” e ciò che si potrebbe chiamare l’espressione emotiva naturale. Cfr. a riguardo: ''a'') piangere, ''b'') alzare la voce per la rabbia, ''c'') scrivere una lettera furiosa, ''d'') suonare il campanello per sgridare un servitore.
Riguardo al presente esempio e ad altri casi, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli forniti del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole. Dunque se asserisco che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere la prova” e “lanciare il boomerang” per giustificare la sostituzione di queste espressioni italiane al posto di quelle originali. A ciò noi ribatteremmo che abbiamo fornito solo una descrizione meramente abbozzata delle pratiche del nostro linguaggio inventato e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far seguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con “fa’ la prova.” A quest’espressione ne segue un’altra che durante le battaglie si impiega per certe azioni militari. In guerra c’è un comando al sentire il quale i membri della tribù scagliano i boomerang e che io dovrei tradurre con “scaglia il boomerang!” Inoltre se un uomo racconta una battaglia al suo capo, utilizza ancora l’espressione che io ho tradotto con “scagliare il boomerang”, stavolta in una descrizione. Ora ciò che caratterizza un ordine in quanto tale o una descrizione in quanto tale o una domanda in quanto tale, etc. è – come abbiamo spiegato – il ruolo giocato dall’enunciazione di tali segni nella pratica complessiva del linguaggio. Ovverosia se una parola del linguaggio della nostra tribù è tradotta correttamente o meno in italiano dipende dal ruolo che tale termine riveste nell’esistenza complessiva della tribù; le occasioni in cui la si usa, le espressioni emotive con cui di solito la si accompagna, le idee che sentirla pronunciare generalmente ridesta o suggerisce negli astanti, etc. A mo’ di esercizio chiediti: in quali casi affermeresti che una certa parola enunciata dai membri della tribù è un saluto? In quali casi diresti che corrisponde al nostro “arrivederci”, in quali invece a “ciao”? In quali casi diresti che una parola straniera corrisponde al nostro “magari”… alle nostre espressioni di dubbio, fiducia, certezza? Ti accorgerai che le giustificazioni per considerare qualcosa come un’espressione di dubbio, convinzione, etc., in gran parte ma ovviamente non sempre, consistono in descrizioni di gesti, del gioco della mimica facciale e perfino del tono di voce. Rammenta allora che l’esperienza personale delle emozioni deve essere in parte un’esperienza assolutamente localizzata; se faccio una smorfia di rabbia, percepisco la tensione muscolare nella mia fronte aggrottata, se piango le sensazioni che sperimento attorno agli occhi sono naturalmente parte, e parte importante, di ciò che provo. Credo sia a questo che si riferisse William James con l’affermazione secondo la quale un uomo non piange perché è triste ma è triste perché piange. Il motivo per cui tale punto resta spesso incompreso è il nostro pensare all’enunciazione di un’emozione come se si trattasse di un qualche espediente artificioso per far sapere agli altri che ne siamo affetti. Invece non c’è confine netto tra tali “espedienti artificiosi” e ciò che si potrebbe chiamare l’espressione emotiva naturale. Cfr. a riguardo: ''a'') piangere, ''b'') alzare la voce per la rabbia, ''c'') scrivere una lettera furiosa, ''d'') suonare il campanello per sgridare un servitore.


{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49)}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “lui ha fatto così-e-così” e un’altra corrispondente a “lui può fare così-e-così” e che tuttavia la seconda la si impieghi solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche l’altra. Che cosa mi può portare ad affermare ciò? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui la si adopera, bisognerebbe chiamare narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “può Tal-dei-tali fare questo?” Si possono descrivere tali circostanze, per esempio dicendo che un capo sceglie degli uomini adatti per certe azioni come attraversare un fiume, scalare una montagna, etc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo che sceglie uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione le parole dette dal capo ma solo gli altri elementi del contesto. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, si tradurrebbe nel nostro “può Tal-dei-tali attraversare il fiume?” A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente guadato il fiume a nuoto. Non si dà la risposta negli stessi termini in cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha guadato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non si risponde invece così nei casi in cui dovrei certamente rispondere “so guadare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese più ardue rispetto al nuoto e non soltanto all’attraversare a nuoto questo particolare fiume.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “lui ha fatto così-e-così” e un’altra corrispondente a “lui può fare così-e-così” e che tuttavia la seconda la si impieghi solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche l’altra. Che cosa mi può portare ad affermare ciò? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui la si adopera, bisognerebbe chiamare narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “può Tal-dei-tali fare questo?” Si possono descrivere tali circostanze, per esempio dicendo che un capo sceglie degli uomini adatti per certe azioni come attraversare un fiume, scalare una montagna, etc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo che sceglie uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione le parole dette dal capo ma solo gli altri elementi del contesto. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, si tradurrebbe nel nostro “può Tal-dei-tali attraversare il fiume?” A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente guadato il fiume a nuoto. Non si dà la risposta negli stessi termini in cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha guadato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non si risponde invece così nei casi in cui dovrei certamente rispondere “so guadare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese più ardue rispetto al nuoto e non soltanto all’attraversare a nuoto questo particolare fiume.


In suddetto linguaggio però le due espressioni “ha fatto così-e-così” e “può fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, vedrai che qualcosa ti porterà ad affermare la prima ipotesi, qualcos’altro invece la seconda. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato definito chiaramente. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “lui può…” se lui ha fatto… è il tuo criterio per stabilire uno stesso significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a creare il significato delle due espressioni, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego della parola “può” – l’espressione di possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere.
In suddetto linguaggio però le due espressioni “ha fatto così-e-così” e “può fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, vedrai che qualcosa ti porterà ad affermare la prima ipotesi, qualcos’altro invece la seconda. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato definito chiaramente. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “lui può…” se lui ha fatto… è il tuo criterio per stabilire uno stesso significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a creare il significato delle due espressioni, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego della parola “può” – l’espressione di possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=50)}} Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati.” Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Faceva parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose.” Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si porgano) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre oggetti (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come “aveva una palla, un bastone e un sonaglio.” In una situazione simile l’adulto interrompe l’elencazione e induce il bambino a completarla. In un’altra occasione magari dice solo “ha avuto…” e lascia che sia il bambino a compiere l’intera elencazione. Il modo per “indurre il bambino a proseguire” potrebbe essere questo: interrompere l’elencazione con una certa espressione facciale e un tono di voce in levare che chiameremmo di aspettativa. Tutto allora dipende dal reagire o meno del bambino a tale “induzione.” C’è però un curioso malinteso in cui è facile cadere, ovvero il considerare “i mezzi esteriori” di cui il maestro si serve per indurre il bambino a proseguire come ciò che potremmo chiamare una maniera indiretta di farsi capire dal bambino. Guardiamo alla situazione come se il bambino già possedesse un linguaggio in cui pensare e il compito dell’insegnante consistesse nell’indurlo a indovinare il significato nel regime dei significati presente nella sua mente, come se nel proprio linguaggio privato l’infante potesse porsi una domanda quale “vuole che continui, che ripeta quel che ha appena detto o qualcos’altro ancora?” (Cfr. 30))
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=50}} Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati.” Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Faceva parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose.” Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si porgano) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre oggetti (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come “aveva una palla, un bastone e un sonaglio.” In una situazione simile l’adulto interrompe l’elencazione e induce il bambino a completarla. In un’altra occasione magari dice solo “ha avuto…” e lascia che sia il bambino a compiere l’intera elencazione. Il modo per “indurre il bambino a proseguire” potrebbe essere questo: interrompere l’elencazione con una certa espressione facciale e un tono di voce in levare che chiameremmo di aspettativa. Tutto allora dipende dal reagire o meno del bambino a tale “induzione.” C’è però un curioso malinteso in cui è facile cadere, ovvero il considerare “i mezzi esteriori” di cui il maestro si serve per indurre il bambino a proseguire come ciò che potremmo chiamare una maniera indiretta di farsi capire dal bambino. Guardiamo alla situazione come se il bambino già possedesse un linguaggio in cui pensare e il compito dell’insegnante consistesse nell’indurlo a indovinare il significato nel regime dei significati presente nella sua mente, come se nel proprio linguaggio privato l’infante potesse porsi una domanda quale “vuole che continui, che ripeta quel che ha appena detto o qualcos’altro ancora?” (Cfr. 30))




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=51)}} Un altro esempio di un tipo primitivo di narrazione di eventi passati: viviamo in un paesaggio con dei punti di riferimento naturali all’orizzonte. È facile quindi ricordare il luogo in cui il sole sorge in una particolare stagione, o quello in cui si libra allo zenit, o quello in cui tramonta. Abbiamo delle immagini caratteristiche del sole in posizioni diverse nel nostro paesaggio. Chiamiamo tale serie di immagini la serie del sole. Disponiamo anche di immagini caratteristiche delle attività di un bambino, sdraiato a letto, intento ad alzarsi, a vestirsi, a pranzare, etc. Questo ''gruppo'' lo chiamerò la serie della vita. Immagino che il bambino, nel corso delle proprie attività quotidiane, sia spesso in grado di notare la posizione del sole. Attiriamo l’attenzione del bambino, intento a fare una certa cosa, sul sole situato in un certo punto. Poi guardiamo sia un’immagine che rappresenta l’attività che sta compiendo sia un’immagine che mostra dove si trova il sole in quel momento. Possiamo quindi abbozzare la storia della giornata del bambino schierando in sequenza sotto le immagini della vita e sopra quella che ho chiamato la serie del sole, le due file nella loro giusta correlazione. Lasceremo poi che sia il bambino a concludere tale storia per immagini, che noi lasceremo incompiuta. A questo punto vorrei dire che tale forma di addestramento (vedi 50) e 30)) è una delle caratteristiche salienti nell’uso del linguaggio o nel pensare.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=51}} Un altro esempio di un tipo primitivo di narrazione di eventi passati: viviamo in un paesaggio con dei punti di riferimento naturali all’orizzonte. È facile quindi ricordare il luogo in cui il sole sorge in una particolare stagione, o quello in cui si libra allo zenit, o quello in cui tramonta. Abbiamo delle immagini caratteristiche del sole in posizioni diverse nel nostro paesaggio. Chiamiamo tale serie di immagini la serie del sole. Disponiamo anche di immagini caratteristiche delle attività di un bambino, sdraiato a letto, intento ad alzarsi, a vestirsi, a pranzare, etc. Questo ''gruppo'' lo chiamerò la serie della vita. Immagino che il bambino, nel corso delle proprie attività quotidiane, sia spesso in grado di notare la posizione del sole. Attiriamo l’attenzione del bambino, intento a fare una certa cosa, sul sole situato in un certo punto. Poi guardiamo sia un’immagine che rappresenta l’attività che sta compiendo sia un’immagine che mostra dove si trova il sole in quel momento. Possiamo quindi abbozzare la storia della giornata del bambino schierando in sequenza sotto le immagini della vita e sopra quella che ho chiamato la serie del sole, le due file nella loro giusta correlazione. Lasceremo poi che sia il bambino a concludere tale storia per immagini, che noi lasceremo incompiuta. A questo punto vorrei dire che tale forma di addestramento (vedi 50) e 30)) è una delle caratteristiche salienti nell’uso del linguaggio o nel pensare.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=52)}} Una variazione di 51). Nella stanza del bebè c’è un grande orologio e per evitare complicazioni immaginiamo che abbia solo la lancetta delle ore. La storia della giornata del bambino è narrata come sopra, ma non c’è la serie del sole; invece scriviamo una delle cifre del quadrante su ognuna delle immagini della vita.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=52}} Una variazione di 51). Nella stanza del bebè c’è un grande orologio e per evitare complicazioni immaginiamo che abbia solo la lancetta delle ore. La storia della giornata del bambino è narrata come sopra, ma non c’è la serie del sole; invece scriviamo una delle cifre del quadrante su ognuna delle immagini della vita.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=53)}} Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile in cui pure, per così dire, c’andrebbe di mezzo il tempo, quello in cui disporremmo solo la serie delle immagini della vita. Potremmo giocare a tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo.” In tal senso si potrebbe affermare che in 53) emergono le idee di prima e di dopo ma non l’idea della misurazione del tempo. Non c’è bisogno di stigmatizzare che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=53}} Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile in cui pure, per così dire, c’andrebbe di mezzo il tempo, quello in cui disporremmo solo la serie delle immagini della vita. Potremmo giocare a tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo.” In tal senso si potrebbe affermare che in 53) emergono le idee di prima e di dopo ma non l’idea della misurazione del tempo. Non c’è bisogno di stigmatizzare che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve.


Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che la vera idea del tempo non c’entri ancora nulla, ma solo un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non contenga in sé un orologio, che l’orologio sia solo lo strumento volgare indicante quando sono le cinque o che esista un’idea di ora che in sé non includa uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto,” “un’ora.” E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai si serve del termine “cinque in punto,” “un’ora,” “tanto tempo,” “poco tempo,” etc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, adesso però abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno di loro è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò diventerà più chiaro considerando l’esempio seguente:
Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che la vera idea del tempo non c’entri ancora nulla, ma solo un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non contenga in sé un orologio, che l’orologio sia solo lo strumento volgare indicante quando sono le cinque o che esista un’idea di ora che in sé non includa uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto,” “un’ora.” E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai si serve del termine “cinque in punto,” “un’ora,” “tanto tempo,” “poco tempo,” etc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, adesso però abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno di loro è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò diventerà più chiaro considerando l’esempio seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=54)}} Se a qualcuno diamo l’ordine “di’ un numero, qualunque numero ti venga in mente,” di solito l’interlocutore è in grado di eseguirlo subito. Immagina che si scopra che i numeri pronunciati in seguito a tale richiesta aumentano – in ogni persona normale – con il passare del giorno; un uomo comincia al mattino con un numero basso e la sera, prima di addormentarsi, arriva al più alto. Considera ciò che potrebbe portare qualcuno a chiamare le reazioni così descritte “un mezzo di misurazione del tempo” o perfino a dire che, mentre le meridiane, etc. sarebbero solo segnali indiretti, tali reazioni sono gli elementi distintivi ''reali'' del passaggio del tempo. (Rifletti sull’affermazione secondo cui il cuore umano è il vero orologio dietro tutti gli altri).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=54}} Se a qualcuno diamo l’ordine “di’ un numero, qualunque numero ti venga in mente,” di solito l’interlocutore è in grado di eseguirlo subito. Immagina che si scopra che i numeri pronunciati in seguito a tale richiesta aumentano – in ogni persona normale – con il passare del giorno; un uomo comincia al mattino con un numero basso e la sera, prima di addormentarsi, arriva al più alto. Considera ciò che potrebbe portare qualcuno a chiamare le reazioni così descritte “un mezzo di misurazione del tempo” o perfino a dire che, mentre le meridiane, etc. sarebbero solo segnali indiretti, tali reazioni sono gli elementi distintivi ''reali'' del passaggio del tempo. (Rifletti sull’affermazione secondo cui il cuore umano è il vero orologio dietro tutti gli altri).


Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali.
Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=55)}} Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come “lastra!”, “colonna!”, etc., B è addestrato a eseguirlo immediatamente. In questo gioco introduciamo un orologio, un ordine viene pronunciato e noi addestriamo il bambino a non eseguirlo finché la lancetta del nostro orologio raggiunge il punto che prima abbiamo indicato con un dito. (Si potrebbe fare per esempio così: tu prima hai addestrato il bambino a eseguire l’ordine immediatamente. Poi dai l’ordine, ma trattieni il bambino e, solo quando la lancetta dell’orologio ha raggiunto un punto specifico del quadrante che indichi con il dito, lo lasci andare).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=55}} Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come “lastra!”, “colonna!”, etc., B è addestrato a eseguirlo immediatamente. In questo gioco introduciamo un orologio, un ordine viene pronunciato e noi addestriamo il bambino a non eseguirlo finché la lancetta del nostro orologio raggiunge il punto che prima abbiamo indicato con un dito. (Si potrebbe fare per esempio così: tu prima hai addestrato il bambino a eseguire l’ordine immediatamente. Poi dai l’ordine, ma trattieni il bambino e, solo quando la lancetta dell’orologio ha raggiunto un punto specifico del quadrante che indichi con il dito, lo lasci andare).


Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso.” Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti dai primi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo genere e dire, per esempio “piastra, adesso!”
Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso.” Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti dai primi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo genere e dire, per esempio “piastra, adesso!”
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=56)}} Prendiamo adesso in considerazione una ''descrizione'' del futuro. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=56}} Prendiamo adesso in considerazione una ''descrizione'' del futuro. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco.


Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Che cos’è tale aspetto e come mai ci appare così lo si può caratterizzare in maniera emblematica riflettendo sulla domanda “quando diventa passato, dove va il presente, e il passato dove si trova?”… in quali circostanze ci affascina un simile interrogativo? In altre circostanze non ci attira affatto e lo liquideremo come un’insensatezza.
Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Che cos’è tale aspetto e come mai ci appare così lo si può caratterizzare in maniera emblematica riflettendo sulla domanda “quando diventa passato, dove va il presente, e il passato dove si trova?”… in quali circostanze ci affascina un simile interrogativo? In altre circostanze non ci attira affatto e lo liquideremo come un’insensatezza.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=57)}} Un gioco si svolge così: un uomo getta un dado e prima di gettarlo disegna su un foglio alcune delle sue sei facce. Se, dopo il tiro, la faccia in cima al dado è una di quelle tratteggiate, costui prova (esprime) soddisfazione. Se invece la faccia visibile è un’altra, il soggetto resta insoddisfatto. Oppure facciamo che i giocatori sono due e, ogni volta che il primo indovina il tiro, il secondo gli dà un centesimo, oppure, in caso di previsione errata, è il primo a pagare il secondo. Nelle circostanze di un gioco simile, disegnare la faccia del dado va chiamato “tirare a indovinare” o “fare una congettura”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=57}} Un gioco si svolge così: un uomo getta un dado e prima di gettarlo disegna su un foglio alcune delle sue sei facce. Se, dopo il tiro, la faccia in cima al dado è una di quelle tratteggiate, costui prova (esprime) soddisfazione. Se invece la faccia visibile è un’altra, il soggetto resta insoddisfatto. Oppure facciamo che i giocatori sono due e, ogni volta che il primo indovina il tiro, il secondo gli dà un centesimo, oppure, in caso di previsione errata, è il primo a pagare il secondo. Nelle circostanze di un gioco simile, disegnare la faccia del dado va chiamato “tirare a indovinare” o “fare una congettura”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=58)}} In una certa tribù si tengono gare di corsa, di sollevamento pesi, etc. e gli spettatori puntano soldi o possedimenti materiali sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono poste in fila e quelli che ho chiamato ‘spettatori’ puntano posando i propri averi (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha posto il proprio oro sull’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto ha messo giù. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica, anche se la si osserva in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità,” “chances,” etc., la chiameremo indubbiamente scommessa. Presuppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo la scoperta del risultato della scommessa. Immagino inoltre che nell’esaminare la disposizione delle scommesse sarei in grado di capire il “''perché''” di tali posizionamenti. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che quello più massiccio sia convalescente o abbia trascurato gli allenamenti, etc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per la disposizione delle scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro “scommetto su di lui perché si è tenuto in forma, l’avversario si è allenato male,” e simili. Potrei descrivere tale situazione dicendo che la mia osservazione mi ha insegnato certe ''cause'' della disposizione delle loro scommesse, ma che, per agire come hanno agito, gli scommettitori avevano invece delle ''ragioni''.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=58}} In una certa tribù si tengono gare di corsa, di sollevamento pesi, etc. e gli spettatori puntano soldi o possedimenti materiali sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono poste in fila e quelli che ho chiamato ‘spettatori’ puntano posando i propri averi (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha posto il proprio oro sull’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto ha messo giù. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica, anche se la si osserva in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità,” “chances,” etc., la chiameremo indubbiamente scommessa. Presuppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo la scoperta del risultato della scommessa. Immagino inoltre che nell’esaminare la disposizione delle scommesse sarei in grado di capire il “''perché''” di tali posizionamenti. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che quello più massiccio sia convalescente o abbia trascurato gli allenamenti, etc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per la disposizione delle scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro “scommetto su di lui perché si è tenuto in forma, l’avversario si è allenato male,” e simili. Potrei descrivere tale situazione dicendo che la mia osservazione mi ha insegnato certe ''cause'' della disposizione delle loro scommesse, ma che, per agire come hanno agito, gli scommettitori avevano invece delle ''ragioni''.


Ma la tribù potrebbe disporre di un linguaggio che include il “fornire ragioni.” Tale gioco di fornire la ragione del perché si agisce in un tal modo non comporta però lo scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente:
Ma la tribù potrebbe disporre di un linguaggio che include il “fornire ragioni.” Tale gioco di fornire la ragione del perché si agisce in un tal modo non comporta però lo scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=59)}} Se un uomo della tribù viene deriso o sgridato per aver perso la scommessa, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=59}} Se un uomo della tribù viene deriso o sgridato per aver perso la scommessa, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta.


Si potrebbe affermare che fornire ragioni in questo modo presuppone che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei rispettivi regimi di allenamento dei suddetti. Questo però è un assunto che, ragionevole o meno, certamente non ho esplicitato nella descrizione del caso. (E non ho nemmeno stabilito che gli scommettitori debbano fornire ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) - È facile immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con “credo che Tal-dei-tali ''possa'' battere Tal-dei-tali in un combattimento,” etc.
Si potrebbe affermare che fornire ragioni in questo modo presuppone che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei rispettivi regimi di allenamento dei suddetti. Questo però è un assunto che, ragionevole o meno, certamente non ho esplicitato nella descrizione del caso. (E non ho nemmeno stabilito che gli scommettitori debbano fornire ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) - È facile immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con “credo che Tal-dei-tali ''possa'' battere Tal-dei-tali in un combattimento,” etc.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=60)}} Immagina analogamente che si ipotizzino congetture sul fatto che un certo carico di polvere da sparo riesca o meno a sbriciolare una determinata roccia e che le congetture siano espresse in forme quali: “questa quantità di polvere da sparo può sbriciolare questa roccia”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=60}} Immagina analogamente che si ipotizzino congetture sul fatto che un certo carico di polvere da sparo riesca o meno a sbriciolare una determinata roccia e che le congetture siano espresse in forme quali: “questa quantità di polvere da sparo può sbriciolare questa roccia”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61)}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo,’ stringendo questo peso la mia mano salirà.” Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo,’ stringendo questo peso la mia mano salirà.” Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.


È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), etc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… etc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), etc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… etc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=62)}} Facciamo questo gioco: A scrive una fila di numeri. B lo guarda e cerca di trovare un sistema nella sequenza di cifre. Quando ci riesce dice: “ora posso continuare.” Tale esempio è particolarmente istruttivo perché “poter continuare” qui sembra essere qualcosa che si instaura all’improvviso sotto forma di un evento chiaramente definito. – Immagina allora che A abbia scritto in fila 1, 5, 11, 19, 29. A quel punto B esclama “adesso posso continuare.” Che cosa è accaduto quando tutt’a un tratto ha visto come continuare? Potrebbero essere accadute molte cose. Supponiamo che nel presente caso, mentre A scriveva un numero dopo l’altro, B si sia sforzato di provare ad applicare varie formule algebriche. Quando A ha scritto “19” B ha avuto l’impulso di tentare la formula aₙ = n² + n – 1. Che poi A abbia aggiunto 29 ha comprovato l’intuizione di B.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=62}} Facciamo questo gioco: A scrive una fila di numeri. B lo guarda e cerca di trovare un sistema nella sequenza di cifre. Quando ci riesce dice: “ora posso continuare.” Tale esempio è particolarmente istruttivo perché “poter continuare” qui sembra essere qualcosa che si instaura all’improvviso sotto forma di un evento chiaramente definito. – Immagina allora che A abbia scritto in fila 1, 5, 11, 19, 29. A quel punto B esclama “adesso posso continuare.” Che cosa è accaduto quando tutt’a un tratto ha visto come continuare? Potrebbero essere accadute molte cose. Supponiamo che nel presente caso, mentre A scriveva un numero dopo l’altro, B si sia sforzato di provare ad applicare varie formule algebriche. Quando A ha scritto “19” B ha avuto l’impulso di tentare la formula aₙ = n² + n – 1. Che poi A abbia aggiunto 29 ha comprovato l’intuizione di B.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=63)}} Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e di idee pigre fluttuanti nella mente, si è detto tra sé “li mette al quadrato e poi aggiunge sempre una cifra in più;” poi ha pensato al numero successivo della sequenza e ha scoperto che concordava con le cifre che andava annotando A. –
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=63}} Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e di idee pigre fluttuanti nella mente, si è detto tra sé “li mette al quadrato e poi aggiunge sempre una cifra in più;” poi ha pensato al numero successivo della sequenza e ha scoperto che concordava con le cifre che andava annotando A. –




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64)}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che posso continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 stilata da A, ha provato una qualche sensazione, o delle sensazioni che spesso accompagnano parole quali “facile!” Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che posso continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 stilata da A, ha provato una qualche sensazione, o delle sensazioni che spesso accompagnano parole quali “facile!” Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento.


Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula aₙ = n² + n – 1 sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti agli occhi della mente, o l’esperienza di scrivere o recitare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule annotate in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi propendiamo per l’affermazione secondo cui “poter…” deve significare qualcosa in più del mero atto di recitare la formula… e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “poter continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi ci porta fuori strada. Quando diciamo “di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché non potremmo chiamare soltanto questo ‘potere…’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B può continuare…” non equivale esattamente a dire “B recita la formula…” ma da ciò non consegue che l’espressione “B può continuare” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B recita la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata e lui allora perlustra con lo sguardo la stanza alla ricerca dell’oggetto denotato dalla parola “sedia.” (L’esempio sarebbe ancora più calzante se costui frugasse dentro la sedia alla ricerca del vero significato della parola “sedia”). È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula etc., ci serviamo della frase “costui può continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però rischia di suggerirci che la frase “B può continuare…” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie.” Ma davvero affermando “adesso posso continuare” B intende qualcosa come “adesso faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, etc., etc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato preparato a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B può continuare…” è utilizzata correttamente in occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B può continuare…” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva costituente lo sfondo del nostro gioco.
Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula aₙ = n² + n – 1 sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti agli occhi della mente, o l’esperienza di scrivere o recitare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule annotate in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi propendiamo per l’affermazione secondo cui “poter…” deve significare qualcosa in più del mero atto di recitare la formula… e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “poter continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi ci porta fuori strada. Quando diciamo “di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché non potremmo chiamare soltanto questo ‘potere…’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B può continuare…” non equivale esattamente a dire “B recita la formula…” ma da ciò non consegue che l’espressione “B può continuare” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B recita la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata e lui allora perlustra con lo sguardo la stanza alla ricerca dell’oggetto denotato dalla parola “sedia.” (L’esempio sarebbe ancora più calzante se costui frugasse dentro la sedia alla ricerca del vero significato della parola “sedia”). È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula etc., ci serviamo della frase “costui può continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però rischia di suggerirci che la frase “B può continuare…” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie.” Ma davvero affermando “adesso posso continuare” B intende qualcosa come “adesso faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, etc., etc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato preparato a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B può continuare…” è utilizzata correttamente in occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B può continuare…” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva costituente lo sfondo del nostro gioco.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65)}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “io posso…” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra suddetto gioco e uno in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “posso fare così-e-così” non c’è una differenza metafisica. Un gioco del tipo di 65) comunque ci mostra il vero impiego dell’espressione “se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali, salvo che in casi molto particolari, risulta priva di significato.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “io posso…” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra suddetto gioco e uno in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “posso fare così-e-così” non c’è una differenza metafisica. Un gioco del tipo di 65) comunque ci mostra il vero impiego dell’espressione “se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali, salvo che in casi molto particolari, risulta priva di significato.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66)}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti kili”; una delle due la si utilizza ogni volta che l’azione eseguita è una prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione eseguita non è una prova.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti kili”; una delle due la si utilizza ogni volta che l’azione eseguita è una prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione eseguita non è una prova.


Vediamo che una vasta rete di parentele familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere,” “essere in grado di,” etc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa andrà in futuro in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che in futuro andrà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. - -
Vediamo che una vasta rete di parentele familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere,” “essere in grado di,” etc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa andrà in futuro in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che in futuro andrà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. - -
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=67)}} Immagina che degli esseri umani o degli animali siano impiegati come macchine di lettura, presupponi che per diventare macchine di lettura abbiano bisogno di un addestramento particolare. L’uomo che li addestra dice di alcuni di loro che sanno già leggere, di altri che non sanno leggere. Prendiamo il caso di uno che finora non ha risposto all’addestramento. Se lo si mette davanti a una parola stampata talvolta emetterà dei suoni e ogni tanto capiterà “per caso” che tali suoni corrispondano più o meno alla parola stampata. Un terzo sente l’allievo in corso di addestramento pronunciare il suono giusto mentre guarda la parola “tavolo.” La terza persona dice “lui legge”, ma l’insegnate ribatte “no, non legge, è solo un caso.” Immaginiamo però che, quando gli si mostrino altre parole e frasi, l’allievo continui a leggerle correttamente. Dopo un po’ l’insegnante dice “adesso sì che sa leggere.” Ma com’è la questione per quanto riguarda la prima parola “tavolo?” L’insegnante dovrebbe dire “mi sbagliavo; ha letto anche quella”, oppure dovrebbe dire “no, è solo dopo che ha cominciato a leggere”? Quand’è che ha davvero iniziato a leggere, oppure: qual è stata la prima parola, o la prima lettera, che ha letto? È evidente che la presente domanda resta priva di senso a meno che io non aggiunga una spiegazione “artificiale” come la seguente: “la prima parola che legge = la prima parola delle prime cento parole consecutive che legge correttamente.” – Supponiamo invece di servirci della parola “leggere” per distinguere tra il caso in cui un particolare processo conscio di scandire le parole ha luogo nella mente di una persona dal caso in cui invece non ha luogo: - allora, almeno la persona che legge saprebbe dire che la tale-o-talaltra parola è stata la prima che ha effettivamente letto. – Invece nel caso diverso di una macchina di lettura che è un meccanismo di connessione tra segni e reazioni a tali segni, quindi per esempio in quello della pianola, diremmo “solo dopo che alla macchina è stata fatta questa-e-questa cosa, per esempio dopo che certe parti sono state connesse con dei cavi, la macchina ha davvero letto; la prima lettera che ha letto è stata una ''d''”. - -
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=67}} Immagina che degli esseri umani o degli animali siano impiegati come macchine di lettura, presupponi che per diventare macchine di lettura abbiano bisogno di un addestramento particolare. L’uomo che li addestra dice di alcuni di loro che sanno già leggere, di altri che non sanno leggere. Prendiamo il caso di uno che finora non ha risposto all’addestramento. Se lo si mette davanti a una parola stampata talvolta emetterà dei suoni e ogni tanto capiterà “per caso” che tali suoni corrispondano più o meno alla parola stampata. Un terzo sente l’allievo in corso di addestramento pronunciare il suono giusto mentre guarda la parola “tavolo.” La terza persona dice “lui legge”, ma l’insegnate ribatte “no, non legge, è solo un caso.” Immaginiamo però che, quando gli si mostrino altre parole e frasi, l’allievo continui a leggerle correttamente. Dopo un po’ l’insegnante dice “adesso sì che sa leggere.” Ma com’è la questione per quanto riguarda la prima parola “tavolo?” L’insegnante dovrebbe dire “mi sbagliavo; ha letto anche quella”, oppure dovrebbe dire “no, è solo dopo che ha cominciato a leggere”? Quand’è che ha davvero iniziato a leggere, oppure: qual è stata la prima parola, o la prima lettera, che ha letto? È evidente che la presente domanda resta priva di senso a meno che io non aggiunga una spiegazione “artificiale” come la seguente: “la prima parola che legge = la prima parola delle prime cento parole consecutive che legge correttamente.” – Supponiamo invece di servirci della parola “leggere” per distinguere tra il caso in cui un particolare processo conscio di scandire le parole ha luogo nella mente di una persona dal caso in cui invece non ha luogo: - allora, almeno la persona che legge saprebbe dire che la tale-o-talaltra parola è stata la prima che ha effettivamente letto. – Invece nel caso diverso di una macchina di lettura che è un meccanismo di connessione tra segni e reazioni a tali segni, quindi per esempio in quello della pianola, diremmo “solo dopo che alla macchina è stata fatta questa-e-questa cosa, per esempio dopo che certe parti sono state connesse con dei cavi, la macchina ha davvero letto; la prima lettera che ha letto è stata una ''d''”. - -


Nel caso 67) con il definire certe creature “macchine da lettura” abbiamo inteso soltanto affermare che reagiscono in una maniera specifica al vedere dei segni stampati. Nessuna connessione tra vedere e reagire, nessun meccanismo interno fa il suo ingresso qui. Sarebbe assurdo se, alla domanda in merito al fatto che se il suo allievo abbia letto o meno l’allievo la parola “tavolo,” l’addestratore avesse risposto “magari l’ha letta,” perché in questo caso non ci sono dubbi su quel che ha fatto. Il cambiamento che ha avuto luogo lo chiameremmo un cambiamento del comportamento generale dell’allievo e in questo caso non abbiamo fornito un significato all’espressione “la prima parola di una nuova era.” (Paragona questo al caso seguente:
Nel caso 67) con il definire certe creature “macchine da lettura” abbiamo inteso soltanto affermare che reagiscono in una maniera specifica al vedere dei segni stampati. Nessuna connessione tra vedere e reagire, nessun meccanismo interno fa il suo ingresso qui. Sarebbe assurdo se, alla domanda in merito al fatto che se il suo allievo abbia letto o meno l’allievo la parola “tavolo,” l’addestratore avesse risposto “magari l’ha letta,” perché in questo caso non ci sono dubbi su quel che ha fatto. Il cambiamento che ha avuto luogo lo chiameremmo un cambiamento del comportamento generale dell’allievo e in questo caso non abbiamo fornito un significato all’espressione “la prima parola di una nuova era.” (Paragona questo al caso seguente:
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=68)}} Supponiamo però che un uomo perfettamente in grado di leggere, a cui si facciano leggere frasi che non ha mai letto prima, le legga sperimentando per tutto il tempo la strana sensazione di sapere a memoria la sequenza di parole in questione. In tal caso diremo che non sta leggendo, cioè considereremo la sua esperienza personale quale criterio distintivo tra il fatto di leggere e il fatto di non leggere?
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=68}} Supponiamo però che un uomo perfettamente in grado di leggere, a cui si facciano leggere frasi che non ha mai letto prima, le legga sperimentando per tutto il tempo la strana sensazione di sapere a memoria la sequenza di parole in questione. In tal caso diremo che non sta leggendo, cioè considereremo la sua esperienza personale quale criterio distintivo tra il fatto di leggere e il fatto di non leggere?




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=69)}} Oppure immagina il caso seguente: a un uomo sotto effetto di una certa droga si mostra un insieme di cinque segni che non sono lettere di alcun alfabeto esistente; guardandoli con tutti i segni esteriori e le esperienze personali dello scandire una parola costui pronuncia “SOPRA.” (Simili situazioni accadono nei sogni. Al risveglio diciamo “mi sembrava di leggere dei segni, ma in realtà non erano affatto dei segni”). In tal caso alcuni sarebbero propensi a dire che il soggetto legge, altri che non legge. Potremmo immaginare che, dopo che l’uomo ha scandito la parola “sopra,” gli si mostrino altre combinazioni di cinque segni e che lui le legga in un modo coerente con quello con cui ha letto la prima sequenza di segni che gli abbiamo fatto vedere. Con una serie di prove simili potremmo scoprire che si è servito di quello che chiameremmo un alfabeto immaginario. Se fosse davvero andata così, saremo inclini a dire “legge” piuttosto che “immagina di leggere, ma in realtà non legge”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=69}} Oppure immagina il caso seguente: a un uomo sotto effetto di una certa droga si mostra un insieme di cinque segni che non sono lettere di alcun alfabeto esistente; guardandoli con tutti i segni esteriori e le esperienze personali dello scandire una parola costui pronuncia “SOPRA.” (Simili situazioni accadono nei sogni. Al risveglio diciamo “mi sembrava di leggere dei segni, ma in realtà non erano affatto dei segni”). In tal caso alcuni sarebbero propensi a dire che il soggetto legge, altri che non legge. Potremmo immaginare che, dopo che l’uomo ha scandito la parola “sopra,” gli si mostrino altre combinazioni di cinque segni e che lui le legga in un modo coerente con quello con cui ha letto la prima sequenza di segni che gli abbiamo fatto vedere. Con una serie di prove simili potremmo scoprire che si è servito di quello che chiameremmo un alfabeto immaginario. Se fosse davvero andata così, saremo inclini a dire “legge” piuttosto che “immagina di leggere, ma in realtà non legge”.


Osserva anche che esiste una serie continua di casi intermedi tra il caso in cui una persona sa a memoria la scritta stampata che si trova davanti e il caso in cui scandisce le lettere di ogni parola senza mai aiutarsi indovinando in base al contesto, in base a ciò che sa a memoria e altri simili stratagemmi.
Osserva anche che esiste una serie continua di casi intermedi tra il caso in cui una persona sa a memoria la scritta stampata che si trova davanti e il caso in cui scandisce le lettere di ogni parola senza mai aiutarsi indovinando in base al contesto, in base a ciò che sa a memoria e altri simili stratagemmi.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=70)}} presupponiamo che il nostro soggetto legga da un testo trascrivendolo, diciamo, dallo stampatello al corsivo. In questo caso possiamo immaginare che costui abbia ricevuto la regola dell’alfabeto sotto forma di tabella che mostra l’alfabeto in stampatello e quello in corsivo in colonne parallele. Allora l’atto di ''derivare'' la copia del testo lo concepiremo così: per ogni lettera la persona che copia guarda la tabella a intervalli frequenti, oppure dice tra sé cose quali “com’è la ''a'' minuscola?”, oppure cerca di visualizzare la tabella senza però guardarla.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=70}} presupponiamo che il nostro soggetto legga da un testo trascrivendolo, diciamo, dallo stampatello al corsivo. In questo caso possiamo immaginare che costui abbia ricevuto la regola dell’alfabeto sotto forma di tabella che mostra l’alfabeto in stampatello e quello in corsivo in colonne parallele. Allora l’atto di ''derivare'' la copia del testo lo concepiremo così: per ogni lettera la persona che copia guarda la tabella a intervalli frequenti, oppure dice tra sé cose quali “com’è la ''a'' minuscola?”, oppure cerca di visualizzare la tabella senza però guardarla.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=71)}} E se invece nell’eseguire il compito il soggetto ha trascritto una “A” in una “b”, una “B” in una “c” e avanti così? Anche questo non dovremmo chiamarlo “leggere” o “derivare”? In tal caso si potrebbe descrivere la procedura che ha impiegato dicendo che ha utilizzato la tabella come noi l’avremmo adoperata se, invece di guardarla da sinistra a destra nel modo seguente:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=71}} E se invece nell’eseguire il compito il soggetto ha trascritto una “A” in una “b”, una “B” in una “c” e avanti così? Anche questo non dovremmo chiamarlo “leggere” o “derivare”? In tal caso si potrebbe descrivere la procedura che ha impiegato dicendo che ha utilizzato la tabella come noi l’avremmo adoperata se, invece di guardarla da sinistra a destra nel modo seguente:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=72)}} che compiendo il processo normale del “controllare” il soggetto abbia trascritto una “A” in una “n,” una B in una “x” agendo dunque, in sintesi, secondo uno schema di frecce che, diremmo, non mostrava alcuna regolarità. Immaginiamo però che
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=72}} che compiendo il processo normale del “controllare” il soggetto abbia trascritto una “A” in una “n,” una B in una “x” agendo dunque, in sintesi, secondo uno schema di frecce che, diremmo, non mostrava alcuna regolarità. Immaginiamo però che




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=73)}} non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n,” la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo che “nel caso 71) tu hai ovviamente ipotizzato che avesse ''compreso la tabella in maniera diversa''; non l’ha capita nel modo normale.” Ma cos’è che chiamiamo “comprendere la tabella in una maniera particolare?” Qualunque processo tu immagini con “comprendere,” è solo un altro legame inserito tra i processi esterni e i processi interni di derivazione che ho descritto nella trascrizione effettiva. In realtà questo processo di comprensione lo si potrebbe naturalmente descrivere per mezzo di uno schema del tipo di quello impiegato in 71) e si potrebbe dire che in un caso specifico il nostro soggetto abbia guardato la tabella così:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=73}} non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n,” la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo che “nel caso 71) tu hai ovviamente ipotizzato che avesse ''compreso la tabella in maniera diversa''; non l’ha capita nel modo normale.” Ma cos’è che chiamiamo “comprendere la tabella in una maniera particolare?” Qualunque processo tu immagini con “comprendere,” è solo un altro legame inserito tra i processi esterni e i processi interni di derivazione che ho descritto nella trascrizione effettiva. In realtà questo processo di comprensione lo si potrebbe naturalmente descrivere per mezzo di uno schema del tipo di quello impiegato in 71) e si potrebbe dire che in un caso specifico il nostro soggetto abbia guardato la tabella così:




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{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=1)}} Immaginiamo di mostrare a B una serie di strumenti: una bilancia, un termometro, uno spettroscopio, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=1}} Immaginiamo di mostrare a B una serie di strumenti: una bilancia, un termometro, uno spettroscopio, etc.




{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=2)}} Si mostra a B una matita, una penna, un calamaio e un ciottolo. Oppure:
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=2}} Si mostra a B una matita, una penna, un calamaio e un ciottolo. Oppure:




{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=3)}} Oltre a vari oggetti familiari gliene si mostra uno di cui lui asserisce “questo sembra sia stato utilizzato per un qualche scopo, ma non saprei dire quale”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=3}} Oltre a vari oggetti familiari gliene si mostra uno di cui lui asserisce “questo sembra sia stato utilizzato per un qualche scopo, ma non saprei dire quale”.


Che cosa succede quando B riconosce una matita?
Che cosa succede quando B riconosce una matita?
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{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=4)}} Diremmo “B ha sempre saputo qual era l’aspetto di una matita; per esempio, se glielo avessero chiesto sarebbe stato in grado di disegnarne una. Non sapeva che l’oggetto che gli avevano dato era una matita che lui non avrebbe avuto difficoltà disegnare”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=4}} Diremmo “B ha sempre saputo qual era l’aspetto di una matita; per esempio, se glielo avessero chiesto sarebbe stato in grado di disegnarne una. Non sapeva che l’oggetto che gli avevano dato era una matita che lui non avrebbe avuto difficoltà disegnare”.


Paragonalo con il caso 5).
Paragonalo con il caso 5).




{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=5)}} Si mostra a B una parola scritta su un foglio tenuto rovesciato. Lui non riconosce la parola. Lentamente si gira il foglio finché B dice “adesso vedo cosa c’è scritto. È ‘matita’”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=5}} Si mostra a B una parola scritta su un foglio tenuto rovesciato. Lui non riconosce la parola. Lentamente si gira il foglio finché B dice “adesso vedo cosa c’è scritto. È ‘matita’”.


Diremmo “ha sempre saputo che aspetto aveva la parola ‘matita.’ Non sapeva che la parola che gli si mostrava, una volta girata, avrebbe avuto l’aspetto di ‘matita’”.
Diremmo “ha sempre saputo che aspetto aveva la parola ‘matita.’ Non sapeva che la parola che gli si mostrava, una volta girata, avrebbe avuto l’aspetto di ‘matita’”.
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{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=6)}} Confronta tale caso con il seguente: nel leggere una lettera non riesci a leggere una parola. In base al contesto indovini di cosa debba trattarsi e adesso sei in grado di leggerla. Riconosci il primo scarabocchio per una ''c'', il secondo per una ''i'', il terzo per una ''b'', il quarto per una ''o''. Questo caso è diverso da quello in cui il termine “cibo” era coperto da una macchia d’inchiostro e tu hai solo ipotizzato che lì avrebbe dovuto trovarsi la parola “cibo”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=6}} Confronta tale caso con il seguente: nel leggere una lettera non riesci a leggere una parola. In base al contesto indovini di cosa debba trattarsi e adesso sei in grado di leggerla. Riconosci il primo scarabocchio per una ''c'', il secondo per una ''i'', il terzo per una ''b'', il quarto per una ''o''. Questo caso è diverso da quello in cui il termine “cibo” era coperto da una macchia d’inchiostro e tu hai solo ipotizzato che lì avrebbe dovuto trovarsi la parola “cibo”.




{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=7)}} Paragona: Vedi una parola e non riesci a leggerla. Qualcuno lo modifica leggermente aggiungendo un trattino, allungando una lineetta, etc. Adesso sei in grado di leggerla. Paragona tale alterazione con il ribaltamento di 5) e osserva come in un certo senso si può dire che, mentre la parola era capovolta, tu hai visto che ''non'' era alterata. Cioè esiste un caso in cui dici “ho guardato la parola mentre era girata e so che adesso è sempre la stessa di quando non l’ho riconosciuta”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=7}} Paragona: Vedi una parola e non riesci a leggerla. Qualcuno lo modifica leggermente aggiungendo un trattino, allungando una lineetta, etc. Adesso sei in grado di leggerla. Paragona tale alterazione con il ribaltamento di 5) e osserva come in un certo senso si può dire che, mentre la parola era capovolta, tu hai visto che ''non'' era alterata. Cioè esiste un caso in cui dici “ho guardato la parola mentre era girata e so che adesso è sempre la stessa di quando non l’ho riconosciuta”.




{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=8)}} Immagina che il gioco tra A e B consista nel fatto che B deve dire se conosce l’oggetto o no ma non di che cosa si tratta. Immagina che, dopo un igrometro che non ha mai visto prima, gli si mostri una normale matita. Nello scorgere l’igrometro B ha detto che non gli era familiare, nel vedere la matita che sapeva che cos’era. Anche se ad A non l’ha detto, a se stesso deve aver detto che si trattava di una matita? Perché dovremmo presupporlo?
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=8}} Immagina che il gioco tra A e B consista nel fatto che B deve dire se conosce l’oggetto o no ma non di che cosa si tratta. Immagina che, dopo un igrometro che non ha mai visto prima, gli si mostri una normale matita. Nello scorgere l’igrometro B ha detto che non gli era familiare, nel vedere la matita che sapeva che cos’era. Anche se ad A non l’ha detto, a se stesso deve aver detto che si trattava di una matita? Perché dovremmo presupporlo?


E allora, quando ha riconosciuto la matita, in quanto che cosa l’ha riconosciuta?
E allora, quando ha riconosciuto la matita, in quanto che cosa l’ha riconosciuta?




{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=9)}} Perfino supponendo che abbia davvero detto a se stesso “ah, questa è una matita,” paragoneresti tale esempio a 4) o 5)? In questi casi si potrebbe dire “ha riconosciuto questo come quello” (per esempio indicando la matita coperta mentre pronuncia “questo” e mentre pronuncia “quello” indicando la penna normale, e operando in 5) in modo analogo)
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=9}} Perfino supponendo che abbia davvero detto a se stesso “ah, questa è una matita,” paragoneresti tale esempio a 4) o 5)? In questi casi si potrebbe dire “ha riconosciuto questo come quello” (per esempio indicando la matita coperta mentre pronuncia “questo” e mentre pronuncia “quello” indicando la penna normale, e operando in 5) in modo analogo)


In 8) la matita non ha subito cambiamenti e le parole “ah, questa è una matita” non si riferivano a un paradigma, di cui B avrebbe riconosciuto la somiglianza con la matita mostratagli.
In 8) la matita non ha subito cambiamenti e le parole “ah, questa è una matita” non si riferivano a un paradigma, di cui B avrebbe riconosciuto la somiglianza con la matita mostratagli.
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{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=10)}} Immagina che qualcuno ti mostri dei colori e ti chieda di nominarli. Indicando un certo oggetto tu dici “questo è rosso.” Se ti chiedessero “come fai a sapere che è rosso?”, che cosa risponderesti?
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=10}} Immagina che qualcuno ti mostri dei colori e ti chieda di nominarli. Indicando un certo oggetto tu dici “questo è rosso.” Se ti chiedessero “come fai a sapere che è rosso?”, che cosa risponderesti?


Naturalmente può essere che B abbia ricevuto una spiegazione generica quale “chiameremo ‘matita’ qualunque oggetto tramite cui si scrive agevolmente su una tavoletta di cera.” Poi A gli mostra, tra gli altri, un piccolo oggetto appuntito e, dopo aver pensato “con questo sarebbe facile scrivere,” B dice “ah, questa è una matita.” In questo caso, diremmo, ha luogo ''una derivazione''. In 8), 9), 10) non ci sono derivazioni. In 4) si potrebbe dire che B ha derivato che l’oggetto mostratogli è una matita per mezzo di un paradigma, oppure che non è avvenuta alcuna derivazione di questo tipo.
Naturalmente può essere che B abbia ricevuto una spiegazione generica quale “chiameremo ‘matita’ qualunque oggetto tramite cui si scrive agevolmente su una tavoletta di cera.” Poi A gli mostra, tra gli altri, un piccolo oggetto appuntito e, dopo aver pensato “con questo sarebbe facile scrivere,” B dice “ah, questa è una matita.” In questo caso, diremmo, ha luogo ''una derivazione''. In 8), 9), 10) non ci sono derivazioni. In 4) si potrebbe dire che B ha derivato che l’oggetto mostratogli è una matita per mezzo di un paradigma, oppure che non è avvenuta alcuna derivazione di questo tipo.