Libro marrone: Difference between revisions

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a) Qualcuno dice “Ho fischiettato ***NOTE*** (fischiettando un motivo)”; b) qualcuno scrive “Ho fischiato.” Una parola onomatopeica come “frusciare” può essere considerata uno schema. Chiamiamo un’ingente quantità di processi “confrontare un oggetto con uno schema.” Sotto il nome di “schema” raggruppiamo una gran varietà di processi. In 7) B confronta un’immagine sulla tabella con gli oggetti che ha davanti. Ma in cosa consiste confrontare un’immagine con un oggetto? Supponi che il tavolo mostri: a) l’immagine di un martello, di un paio di pinze, di una sega, di uno scalpello; b) le immagini di venti tipi diversi di farfalle. Immagina in che cosa consisterebbe in questi casi il confronto e nota la differenza. Paragona a questi casi un terzo caso c) in cui le immagini sul tavolo raffigurano pietre di costruzione disegnate in scala e il confronto va fatto con righello e compasso. Supponi che il compito di B consista nel portare un tessuto dello stesso colore del campione. Come si confrontano i colori del campione e del tessuto? Immagina una serie di casi diversi:
a) Qualcuno dice “Ho fischiettato [[File:Brown Book 1-13.png|70px|link=]] (fischiettando un motivo)”; b) qualcuno scrive “Ho fischiato.” Una parola onomatopeica come “frusciare” può essere considerata uno schema. Chiamiamo un’ingente quantità di processi “confrontare un oggetto con uno schema.” Sotto il nome di “schema” raggruppiamo una gran varietà di processi. In 7) B confronta un’immagine sulla tabella con gli oggetti che ha davanti. Ma in cosa consiste confrontare un’immagine con un oggetto? Supponi che il tavolo mostri: a) l’immagine di un martello, di un paio di pinze, di una sega, di uno scalpello; b) le immagini di venti tipi diversi di farfalle. Immagina in che cosa consisterebbe in questi casi il confronto e nota la differenza. Paragona a questi casi un terzo caso c) in cui le immagini sul tavolo raffigurano pietre di costruzione disegnate in scala e il confronto va fatto con righello e compasso. Supponi che il compito di B consista nel portare un tessuto dello stesso colore del campione. Come si confrontano i colori del campione e del tessuto? Immagina una serie di casi diversi:




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<nowiki>***</nowiki>FRECCE***
[[File:Brown Book 1-21a.png|center|280px|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>FRECCE***
[[File:Brown Book 1-21b.png|center|280px|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>FRECC***
[[File:Brown Book 1-21c.png|center|280px|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>TABELLA***
{| style="margin: 0 auto; border: 1px solid #202122; text-align: center; border-spacing: 4px; width: 3em;"
|-
|a
|→
|-
|b
|←
|-
|c
|↑
|-
| d
|↓
|}




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<nowiki>***</nowiki>DISEGNINO***
[[File:Brown Book 1-33.png|center|150px|link=]]




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=34}} B deve tracciare vari disegni lineari ornamentali. Ogni disegno è la ripetizione del solo elemento che A gli fornisce. Quindi se A dà l’ordine “c a d a,” B traccia una linea così: ***CORNYCETTA***
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=34}} B deve tracciare vari disegni lineari ornamentali. Ogni disegno è la ripetizione del solo elemento che A gli fornisce. Quindi se A dà l’ordine “c a d a,” B traccia una linea così: [[File:Brown Book 1-34.png|100px|link=]]


In questo caso credo che si debba dire che “c a d a” è la regola per tracciare il disegno. Approssimando, diremo che a caratterizzare ciò che chiamiamo regola è il fatto di essere applicata ripetutamente, in un numero indefinito di occorrenze. Confronta con 34), per esempio, il caso seguente:
In questo caso credo che si debba dire che “c a d a” è la regola per tracciare il disegno. Approssimando, diremo che a caratterizzare ciò che chiamiamo regola è il fatto di essere applicata ripetutamente, in un numero indefinito di occorrenze. Confronta con 34), per esempio, il caso seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=35}} Un gioco svolto con pezzi di varie forme su una scacchiera. Come ogni pezzo può muoversi lo stabilisce da una regola. Quindi la regola per un pezzo specifico è “ac,” per un altro “acaa” e avanti così. Il primo pezzo può dunque muoversi così: ***FREC***, il secondo in questo modo: ***FRE***. Sia una formula come “ac” sia un diagramma che le corrisponda qui possono venire considerati una regola.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=35}} Un gioco svolto con pezzi di varie forme su una scacchiera. Come ogni pezzo può muoversi lo stabilisce da una regola. Quindi la regola per un pezzo specifico è “ac,” per un altro “acaa” e avanti così. Il primo pezzo può dunque muoversi così: [[File:Brown Book 1-35a.png|40px|link=]], il secondo in questo modo:[[File:Brown Book 1-35b.png|85px|link=]]. Sia una formula come “ac” sia un diagramma che le corrisponda qui possono venire considerati una regola.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=41}} Il gioco assomiglia a 33), ma l’allievo non è addestrato soltanto a servirsi di un’unica tabella; l’addestramento si prefigge fargli impiegare qualunque tabella che correla lettere e frecce. Con ciò intendo semplicemente dire che si tratta di un tipo particolare di addestramento, per certi versi analogo a quello descritto in 30). Definisco un addestramento simile a quello di 30) “''addestramento generico''.” L’addestramento generico forma una famiglia i cui membri sono molto diversi l’uno dall’altro. Quello a cui penso consiste soprattutto: ''a'') in un addestramento a una gamma limitata di azioni, ''b'') nel dare all’allievo un’opportunità di estendere tale gamma, e ''c'') di esercizi e prove a caso. Dopo l’addestramento generico l’ordine dovrà consistere nel fornirgli un segno di questo tipo:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=41}} Il gioco assomiglia a 33), ma l’allievo non è addestrato soltanto a servirsi di un’unica tabella; l’addestramento si prefigge fargli impiegare qualunque tabella che correla lettere e frecce. Con ciò intendo semplicemente dire che si tratta di un tipo particolare di addestramento, per certi versi analogo a quello descritto in 30). Definisco un addestramento simile a quello di 30) “''addestramento generico''.” L’addestramento generico forma una famiglia i cui membri sono molto diversi l’uno dall’altro. Quello a cui penso consiste soprattutto: ''a'') in un addestramento a una gamma limitata di azioni, ''b'') nel dare all’allievo un’opportunità di estendere tale gamma, e ''c'') di esercizi e prove a caso. Dopo l’addestramento generico l’ordine dovrà consistere nel fornirgli un segno di questo tipo:


rrtst
<p style="text-align:center;">rrtst</p>
 
{| style="margin: 0 auto; border: 1px solid #202122; text-align: center; border-spacing: 4px; width: 3em"
<nowiki>***</nowiki>DIAGRA***
|-
|r
|↗
|-
|s
|↖
|-
|t
|↓
|}




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<nowiki>***</nowiki>PURE***
[[File:Brown Book 1-41.png|center|50px|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>GRAFICO***,
[[File:Brown Book 1-71a.png|180px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>GRAFICO***
[[File:Brown Book 1-71b.png|180px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>GRAF***
[[File:Brown Book 1-71a.png|180px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>GRA***
[[File:Brown Book 1-73b.png|180px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>GR***
[[File:Brown Book 1-73c.png|180px|center|link=]]




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Se avessi detto “mentre lo informavo che il treno partiva alle 3.30 e mentre credevo che le cose stessero così, non è accaduto nient’altro oltre al fatto che ho pronunciato la tale frase”, poi qualcuno mi avesse ribattuto “di certo non può ridursi tutto a questo, dato che ci si può ‘limitare a dire una frase’ senza crederci,” io avrei risposto “non volevo dire che tra parlare credendo ciò che si dice e parlare senza credere ciò che si dice non c’è differenza; ma la coppia ‘credere’: :‘non credere’ si riferisce a differenze in casi diversi (le differenze formano una famiglia), non a un’unica differenza, ovvero quella tra la presenza e l’assenza di un certo stato mentale”.
Se avessi detto “mentre lo informavo che il treno partiva alle 3.30 e mentre credevo che le cose stessero così, non è accaduto nient’altro oltre al fatto che ho pronunciato la tale frase”, poi qualcuno mi avesse ribattuto “di certo non può ridursi tutto a questo, dato che ci si può ‘limitare a dire una frase’ senza crederci,” io avrei risposto “non volevo dire che tra parlare credendo ciò che si dice e parlare senza credere ciò che si dice non c’è differenza; ma la coppia ‘credere’: :‘non credere’ si riferisce a differenze in casi diversi (le differenze formano una famiglia), non a un’unica differenza, ovvero quella tra la presenza e l’assenza di un certo stato mentale”.


Consideriamo alcune caratteristiche di atti volontari e involontari. Nel caso del sollevamento del carico pesante, le varie esperienze dello sforzo sono naturalmente quelle che caratterizzano in maniera più netta il sollevamento volontario del peso. Confronta invece con quello appena tratteggiato il caso di scrivere volontariamente, qui nella maggioranza dei casi non ci sarà sforzo; anche se abbiamo l’impressione che scrivere stanchi la mano e tenda i muscoli, non si tratta dell’esperienza di “tirare” e “spingere” che noi chiameremmo tipiche azioni volontarie. Paragona inoltre il modo in cui sollevi la mano per alzare un peso dal modo in cui la sollevi, per esempio, per indicare qualcosa sopra di te. Quest’ultimo va certamente annoverato tra gli atti volontari, anche se quasi certamente l’elemento dello sforzo resterà del tutto assente; infatti il sollevare il braccio per indicare un oggetto è molto simile al sollevare un occhio per guardarlo e qui ci riesce quasi impossibile concepire un qualche sforzo. – Descriviamo ora un atto involontario di sollevare il braccio. C’è il caso del nostro esperimento, caratterizzato dall’assenza totale di tensione muscolare e dal nostro atteggiamento di osservazione nei confronti dell’alzarsi del braccio. Abbiamo però appena esaminato un esempio in cui non c’era tensione muscolare e ci sono casi in cui, nonostante il fatto che assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti dell’azione in corso, quest’ultima la chiameremmo volontaria. Ma in un’ampia classe di casi è proprio la specifica impossibilità ad assumere un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione a caratterizzarla in quanto volontaria: prova per esempio, nell’atto di sollevarla volontariamente, a osservare la tua mano alzarsi. Naturalmente, mentre per così dire compi l’esperimento, la ''vedi'' alzarsi, ma non riesci a seguirla con gli occhi nello stesso modo. Ciò potrebbe diventare più chiaro se confronti due casi in cui si seguono con gli occhi due linee su un foglio; ''A'') essendo una linea irregolare come questa ***GHIRIGORO*** e ''B'') essendo una frase scritta. Scoprirai che soffermandosi su ''A'') lo sguardo, per così dire, tende continuamente a cadere e a intopparsi e invece nel leggere la frase ''B)'' scivola con scorrevolezza.
Consideriamo alcune caratteristiche di atti volontari e involontari. Nel caso del sollevamento del carico pesante, le varie esperienze dello sforzo sono naturalmente quelle che caratterizzano in maniera più netta il sollevamento volontario del peso. Confronta invece con quello appena tratteggiato il caso di scrivere volontariamente, qui nella maggioranza dei casi non ci sarà sforzo; anche se abbiamo l’impressione che scrivere stanchi la mano e tenda i muscoli, non si tratta dell’esperienza di “tirare” e “spingere” che noi chiameremmo tipiche azioni volontarie. Paragona inoltre il modo in cui sollevi la mano per alzare un peso dal modo in cui la sollevi, per esempio, per indicare qualcosa sopra di te. Quest’ultimo va certamente annoverato tra gli atti volontari, anche se quasi certamente l’elemento dello sforzo resterà del tutto assente; infatti il sollevare il braccio per indicare un oggetto è molto simile al sollevare un occhio per guardarlo e qui ci riesce quasi impossibile concepire un qualche sforzo. – Descriviamo ora un atto involontario di sollevare il braccio. C’è il caso del nostro esperimento, caratterizzato dall’assenza totale di tensione muscolare e dal nostro atteggiamento di osservazione nei confronti dell’alzarsi del braccio. Abbiamo però appena esaminato un esempio in cui non c’era tensione muscolare e ci sono casi in cui, nonostante il fatto che assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti dell’azione in corso, quest’ultima la chiameremmo volontaria. Ma in un’ampia classe di casi è proprio la specifica impossibilità ad assumere un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione a caratterizzarla in quanto volontaria: prova per esempio, nell’atto di sollevarla volontariamente, a osservare la tua mano alzarsi. Naturalmente, mentre per così dire compi l’esperimento, la ''vedi'' alzarsi, ma non riesci a seguirla con gli occhi nello stesso modo. Ciò potrebbe diventare più chiaro se confronti due casi in cui si seguono con gli occhi due linee su un foglio; ''A'') essendo una linea irregolare come questa [[File:Brown Book 2-Ts310,118.png|60px|link=]] e ''B'') essendo una frase scritta. Scoprirai che soffermandosi su ''A'') lo sguardo, per così dire, tende continuamente a cadere e a intopparsi e invece nel leggere la frase ''B)'' scivola con scorrevolezza.


Adesso prendi in considerazione un caso in cui assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione volontaria, intendo il caso molto istruttivo del disegnare un quadrato con le sue diagonali mettendo uno specchio sul foglio e muovendo la mano assecondando ciò che si vede nello specchio. Qui si è propensi a dire che le nostre vere ''azioni'', quelle a cui la volizione si applica ''immediatamente'', non sono i movimenti della mano ma qualcosa che li precede, come le azioni dei muscoli. Siamo portati a paragonare tale caso con il seguente: immagina di avere davanti una serie di leve, con le quali, per mezzo di un ingranaggio nascosto, dirigi i movimenti di una matita su un foglio. Avremmo quindi dei dubbi su quale leva tirare per produrre i movimenti desiderati della matita e potremmo dire di aver tirato ''apposta'' tale leva, pur non volendo d’altronde produrre il risultato sbagliato che ne è conseguito. Nonostante ci si suggerisca da solo facilmente, un simile paragone è foriero di molti equivoci. Perché nel caso in cui ci troviamo di fronte delle leve, prima di tirarne una c’è stato qualcosa come l’atto di decidere quale tirare. Ma la nostra volizione agisce per così dire su una tastiera di muscoli, scegliendo quale sarà il prossimo da utilizzare? – A caratterizzare alcune delle azioni che chiamiamo volontarie è il fatto che, in qualche modo, “sappiamo cosa stiamo per fare” prima di farlo. In questo senso diciamo di sapere qual è l’oggetto che indicheremo e quello che chiameremmo “l’atto di sapere” potrebbe consistere nel guardare l’oggetto prima di indicarlo e nel descrivere la sua posizione con parole o immagini. Potremmo descrivere il processo di disegnare il quadrato guardando lo specchio dicendo che i nostri atti erano intenzionali per quanto riguarda l’aspetto motorio ma non per quanto concerne l’aspetto visivo. In quanto prova di tale affermazione, per esempio, potremmo indicare la nostra abilità di ripetere a comando un movimento della mano che ha generato un risultato sbagliato. Ovviamente però sarebbe assurdo dire che il carattere motorio di questo movimento volontario consisteva nel fatto che prima sapevamo ciò che avremo fatto, come se avessimo avuto nella mente un’immagine della sensazione cinestetica e avessimo deciso di generare tale sensazione. Ricorda l’esperimento (?) p. 62; se qui, invece di indicare da lontano il dito che ordini al soggetto di muovere, glielo tocchi, costui lo muoverà sempre senza alcuna difficoltà. Qui si è tentati di dire “certo che ora lo posso muovere, perché adesso so quale dito mi è stato chiesto di muovere.” Questo ci dà l’idea che adesso io ti abbia mostrato che muscolo contrarre per causare il risultato desiderato. La parola “certo” dà l’impressione che, toccandoti il dito io, ti abbia fornito un’unità di informazione per dirti cosa fare. (Come se di solito, quando dici a un uomo di muovere il tale dito, lui potesse eseguire l’ordine perché sa come causare suddetto movimento).
Adesso prendi in considerazione un caso in cui assumiamo un atteggiamento di osservazione nei confronti di un’azione volontaria, intendo il caso molto istruttivo del disegnare un quadrato con le sue diagonali mettendo uno specchio sul foglio e muovendo la mano assecondando ciò che si vede nello specchio. Qui si è propensi a dire che le nostre vere ''azioni'', quelle a cui la volizione si applica ''immediatamente'', non sono i movimenti della mano ma qualcosa che li precede, come le azioni dei muscoli. Siamo portati a paragonare tale caso con il seguente: immagina di avere davanti una serie di leve, con le quali, per mezzo di un ingranaggio nascosto, dirigi i movimenti di una matita su un foglio. Avremmo quindi dei dubbi su quale leva tirare per produrre i movimenti desiderati della matita e potremmo dire di aver tirato ''apposta'' tale leva, pur non volendo d’altronde produrre il risultato sbagliato che ne è conseguito. Nonostante ci si suggerisca da solo facilmente, un simile paragone è foriero di molti equivoci. Perché nel caso in cui ci troviamo di fronte delle leve, prima di tirarne una c’è stato qualcosa come l’atto di decidere quale tirare. Ma la nostra volizione agisce per così dire su una tastiera di muscoli, scegliendo quale sarà il prossimo da utilizzare? – A caratterizzare alcune delle azioni che chiamiamo volontarie è il fatto che, in qualche modo, “sappiamo cosa stiamo per fare” prima di farlo. In questo senso diciamo di sapere qual è l’oggetto che indicheremo e quello che chiameremmo “l’atto di sapere” potrebbe consistere nel guardare l’oggetto prima di indicarlo e nel descrivere la sua posizione con parole o immagini. Potremmo descrivere il processo di disegnare il quadrato guardando lo specchio dicendo che i nostri atti erano intenzionali per quanto riguarda l’aspetto motorio ma non per quanto concerne l’aspetto visivo. In quanto prova di tale affermazione, per esempio, potremmo indicare la nostra abilità di ripetere a comando un movimento della mano che ha generato un risultato sbagliato. Ovviamente però sarebbe assurdo dire che il carattere motorio di questo movimento volontario consisteva nel fatto che prima sapevamo ciò che avremo fatto, come se avessimo avuto nella mente un’immagine della sensazione cinestetica e avessimo deciso di generare tale sensazione. Ricorda l’esperimento (?) p. 62; se qui, invece di indicare da lontano il dito che ordini al soggetto di muovere, glielo tocchi, costui lo muoverà sempre senza alcuna difficoltà. Qui si è tentati di dire “certo che ora lo posso muovere, perché adesso so quale dito mi è stato chiesto di muovere.” Questo ci dà l’idea che adesso io ti abbia mostrato che muscolo contrarre per causare il risultato desiderato. La parola “certo” dà l’impressione che, toccandoti il dito io, ti abbia fornito un’unità di informazione per dirti cosa fare. (Come se di solito, quando dici a un uomo di muovere il tale dito, lui potesse eseguire l’ordine perché sa come causare suddetto movimento).
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A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) (?) si è tentati di adoperare l’espressione “''naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…” Raddrizzandola otterremo: “stabiliamo che il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato sia…” Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sulla gamma più alta dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.
A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) (?) si è tentati di adoperare l’espressione “''naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…” Raddrizzandola otterremo: “stabiliamo che il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato sia…” Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sulla gamma più alta dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.


Consideriamo il caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare” in cui tale termine, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi… il caso in cui studiamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: ***EMOJI***. Lascia che tale viso ti susciti delle impressioni. Puoi essere portato a dire: “di sicuro non vedo meri tratteggi. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''.” Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto a mo’ d’introduzione della descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire e dire per esempio “sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni.” Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione della faccia. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa,” diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che possa venire staccato dal disegno del volto. È come se potessimo dire “questo viso ha un’espressione particolare: proprio questa” (indichiamo qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, indicherei il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti invece di uno solo.) A contribuisce all’illusione è il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “la faccia ''ha'' un’espressione particolare.” Quando invece diciamo “questo ''è'' un volto peculiare,” le cose assumono un altro aspetto. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato).
Consideriamo il caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare” in cui tale termine, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi… il caso in cui studiamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: [[File:Brown Book 2-Ts310,132.png|40px|link=]]. Lascia che tale viso ti susciti delle impressioni. Puoi essere portato a dire: “di sicuro non vedo meri tratteggi. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''.” Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto a mo’ d’introduzione della descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire e dire per esempio “sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni.” Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione della faccia. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa,” diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che possa venire staccato dal disegno del volto. È come se potessimo dire “questo viso ha un’espressione particolare: proprio questa” (indichiamo qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, indicherei il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti invece di uno solo.) A contribuisce all’illusione è il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “la faccia ''ha'' un’espressione particolare.” Quando invece diciamo “questo ''è'' un volto peculiare,” le cose assumono un altro aspetto. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato).


“Questo viso ha un’espressione particolare.” Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
“Questo viso ha un’espressione particolare.” Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
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Ciò che è in corso qui è l’atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è il volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori dalla faccia che vediamo, bensì che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che la faccia eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse un prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del viso fosse trovare il prototipo a cui corrisponde… come se nella nostra mente ci fosse un calco e l’immagine che scorgiamo fosse caduta in tale calco, combaciandoci. Invece abbiamo fatto sprofondare l’immagine nella mente, in cui ha lsciato un calco.
Ciò che è in corso qui è l’atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è il volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori dalla faccia che vediamo, bensì che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che la faccia eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse un prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del viso fosse trovare il prototipo a cui corrisponde… come se nella nostra mente ci fosse un calco e l’immagine che scorgiamo fosse caduta in tale calco, combaciandoci. Invece abbiamo fatto sprofondare l’immagine nella mente, in cui ha lsciato un calco.


Ovviamente, quando diciamo “questa è una ''faccia'', non solo dei tratti di penna,” stiamo operando una distinzione tra un disegno così ***EMOJI*** e uno così ***SCARABOCCHIO***. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, etc. Se invece gli chiedi: “questo che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee a casaccio.” Ora pensa a cercare un uomo in un mosaico di immagini; in tal caso accade spesso che quello che a prima vista sembra “solo linee a casaccio” poi ci appaia come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è una faccia.” Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che riconosciamo il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come una faccia''” va paragonato invece al fatto di scorgere il disegno seguente
Ovviamente, quando diciamo “questa è una ''faccia'', non solo dei tratti di penna,” stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, etc. Se invece gli chiedi: “questo che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee a casaccio.” Ora pensa a cercare un uomo in un mosaico di immagini; in tal caso accade spesso che quello che a prima vista sembra “solo linee a casaccio” poi ci appaia come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è una faccia.” Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che riconosciamo il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come una faccia''” va paragonato invece al fatto di scorgere il disegno seguente




<nowiki>***</nowiki>CUBBOPSEUDO***
[[File:Brown Book 2-Ts310,134c.png|120px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>QUAD***
[[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|120px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>SIEG***
[[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|120px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>HEIL***
[[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|120px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>CUBO***
[[File:Brown Book 2-Ts310,134c.png|120px|center|link=]]




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<nowiki>***</nowiki>CUBO***
[[File:Brown Book 2-Ts310,134c.png|120px|center|link=]]




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''i'') ***CELLULAME DOPPIO***
''i'') [[File:Brown Book 2-Ts310,143a.png|150px|link=]],




''ii'') ***CELLULAME***
''ii'') [[File:Brown Book 2-Ts310,143b.png|90px|link=]].




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Sono tentato di affermare “questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare.” – Al posto però di “posso vedere ''questo'' come ''questa'' faccia” dovrei dire “lo vedo come ''una'' faccia.” Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come ''una'' faccia, lo vedo come ''questa'' faccia!” Nella seconda metà di questa frase la parola “faccia” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come una faccia, lo vedo ''così''”.
Sono tentato di affermare “questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare.” – Al posto però di “posso vedere ''questo'' come ''questa'' faccia” dovrei dire “lo vedo come ''una'' faccia.” Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come ''una'' faccia, lo vedo come ''questa'' faccia!” Nella seconda metà di questa frase la parola “faccia” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come una faccia, lo vedo ''così''”.


Immagina che io affermi “questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio,” lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così'',” vedo la faccia… questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi pare questo, poi mi pare quello” e qui “questo” e “quello” si accompagnerebbero ai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco si impiega questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi mi sto rivolgendo? Supponi che la risposta sia “parlo da solo.” Ciò però è ancora insufficiente. Qui si rischia gravemente di credere di sapere cosa fare con una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’utilizzo, per esempio, delle parole “questo” e “quello?”… oppure: quali sono i diversi impieghi per cui ci serviamo di tali termini? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che viene loro appiccicato addosso indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi è un utilizzo della parola “questo” ad accompagnare il gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali in questo modo,” indicando la svastica. A proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così ***QUAD***, poi mi appare così ***QUAD***.” E questo di certo non è l’impiego che facciamo della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso chiamiamo immagini delle raffigurazioni mentali, perché in certi casi sono paragonabili a immagini e in altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali dell’impiego di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto di ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze sosterremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; diciamo che non è cambiata perché è rimasta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” la si impiega in modi diversi a seconda del fatto che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con un meccanismo, e un’altra grammatica se sono invece dei ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedermi: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, nello stesso momento in cui li ho riconosciuti nelle occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per il futuro? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”
Immagina che io affermi “questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio,” lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così'',” vedo la faccia… questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi pare questo, poi mi pare quello” e qui “questo” e “quello” si accompagnerebbero ai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco si impiega questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi mi sto rivolgendo? Supponi che la risposta sia “parlo da solo.” Ciò però è ancora insufficiente. Qui si rischia gravemente di credere di sapere cosa fare con una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’utilizzo, per esempio, delle parole “questo” e “quello?”… oppure: quali sono i diversi impieghi per cui ci serviamo di tali termini? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che viene loro appiccicato addosso indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi è un utilizzo della parola “questo” ad accompagnare il gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali in questo modo,” indicando la svastica. A proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]].” E questo di certo non è l’impiego che facciamo della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso chiamiamo immagini delle raffigurazioni mentali, perché in certi casi sono paragonabili a immagini e in altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali dell’impiego di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto di ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze sosterremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; diciamo che non è cambiata perché è rimasta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” la si impiega in modi diversi a seconda del fatto che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con un meccanismo, e un’altra grammatica se sono invece dei ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedermi: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, nello stesso momento in cui li ho riconosciuti nelle occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per il futuro? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”


Il pericolo dell’inganno in cui ci siamo imbattuti diventa evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “questo” e “quello” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che nominare consista nel correlare in modo determinato e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con qualcosa. Come impieghiamo tale correlazione sembra pressoché secondario. (Si potrebbe quasi immaginare che il nominare comporti uno specifico atto sacramentale generante una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
Il pericolo dell’inganno in cui ci siamo imbattuti diventa evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “questo” e “quello” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che nominare consista nel correlare in modo determinato e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con qualcosa. Come impieghiamo tale correlazione sembra pressoché secondario. (Si potrebbe quasi immaginare che il nominare comporti uno specifico atto sacramentale generante una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
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Quando abbiamo proposto di dare dei nomi agli aspetti di un disegno, abbiamo fatto sembrare che nel vedere un disegno in due modi diversi e nel dire in entrambi i casi qualcosa, abbiamo fatto qualcosa di più che compiere tale azione priva di interesse; mentre ora notiamo che è l’utilizzo del “nome”, e nello specifico i dettagli di tale impiego, a elargire al nome la sua peculiare significazione.
Quando abbiamo proposto di dare dei nomi agli aspetti di un disegno, abbiamo fatto sembrare che nel vedere un disegno in due modi diversi e nel dire in entrambi i casi qualcosa, abbiamo fatto qualcosa di più che compiere tale azione priva di interesse; mentre ora notiamo che è l’utilizzo del “nome”, e nello specifico i dettagli di tale impiego, a elargire al nome la sua peculiare significazione.


Non si tratta allora di una domanda irrilevante, ma essenziale: “‘A’ e ‘B’ servono a ricordarmi tali aspetti; posso eseguire un ordine come ‘nota nel tale disegno l’aspetto ‘A’’; ci sono, in qualche modo, immagini di questi aspetti correlati ai nomi ‘A’ e ‘B’ (come ***QUAD*** e ***SEMIQUAD***); ‘A’ e ‘B’ vengono impiegati per comunicare con altre persone; di preciso quali gioco contribuiscono a instaurare?”
Non si tratta allora di una domanda irrilevante, ma essenziale: “‘A’ e ‘B’ servono a ricordarmi tali aspetti; posso eseguire un ordine come ‘nota nel tale disegno l’aspetto ‘A’’; ci sono, in qualche modo, immagini di questi aspetti correlati ai nomi ‘A’ e ‘B’ (come [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]] e [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]); ‘A’ e ‘B’ vengono impiegati per comunicare con altre persone; di preciso quali gioco contribuiscono a instaurare?”


Quando dico “non vedo meri trattini (un mero scarabocchio) ma un volto (una parola) con questa fisionomia particolare,” non voglio asserire alcuna caratteristica generale di ciò che osservo, bensì affermare che vedo la fisionomia particolare che in effetti scorgo. È ovvio che qui la mia espressione si muove in un circolo vizioso. Ma ciò accade perché in realtà la fisionomia particolare che ho visto dovrebbe essere entrata nella mia proposizione. – Quando mi accorgo che, “mentre leggo una frase, per tutto il tempo ha luogo un’esperienza specifica,” devo in realtà proseguire piuttosto a lungo nella lettura per ricavare l’impressione specifica così enunciata.
Quando dico “non vedo meri trattini (un mero scarabocchio) ma un volto (una parola) con questa fisionomia particolare,” non voglio asserire alcuna caratteristica generale di ciò che osservo, bensì affermare che vedo la fisionomia particolare che in effetti scorgo. È ovvio che qui la mia espressione si muove in un circolo vizioso. Ma ciò accade perché in realtà la fisionomia particolare che ho visto dovrebbe essere entrata nella mia proposizione. – Quando mi accorgo che, “mentre leggo una frase, per tutto il tempo ha luogo un’esperienza specifica,” devo in realtà proseguire piuttosto a lungo nella lettura per ricavare l’impressione specifica così enunciata.
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Possiamo ora considerare frasi che, diremmo, forniscono un’analisi dell’impressione che ricaviamo, per esempio, da un volto. Prendiamo un’affermazione come “la particolare impressione di questa faccia è dovuta agli occhi piccoli e alla fronte bassa.” Qui le parole “la particolare impressione” possono fare le veci di una specificazione determinata, per esempio “l’espressione stupida.” O invece tali parole possono significare “ciò che rende questa espressione notevole” (cioè straordinaria); oppure “ciò che colpisce in questo volto” (cioè “quello che attira l’attenzione”). Altrimenti la frase potrebbe significare “se alteri di pochissimo ''questi'' tratti, l’espressione cambia del tutto (mentre invece potresti modificarne altri senza che il volto cambi in maniera nemmeno paragonabile al caso precedente).” La forma di quest’affermazione, comunque, non deve indurci erroneamente a pensare che in ogni caso ci sia un’asserzione supplementare della forma di “prima l’espressione era ''questa'', adesso è ''quella''.” Possiamo dire naturalmente “Smith ha aggrottato la fronte e la sua espressione è cambiata da questa a quella,” indicando per esempio due disegni del suo viso. – (Confronta con questa le seguenti due affermazioni: “ha detto queste parole” e “le sue parole dicevano qualcosa”).
Possiamo ora considerare frasi che, diremmo, forniscono un’analisi dell’impressione che ricaviamo, per esempio, da un volto. Prendiamo un’affermazione come “la particolare impressione di questa faccia è dovuta agli occhi piccoli e alla fronte bassa.” Qui le parole “la particolare impressione” possono fare le veci di una specificazione determinata, per esempio “l’espressione stupida.” O invece tali parole possono significare “ciò che rende questa espressione notevole” (cioè straordinaria); oppure “ciò che colpisce in questo volto” (cioè “quello che attira l’attenzione”). Altrimenti la frase potrebbe significare “se alteri di pochissimo ''questi'' tratti, l’espressione cambia del tutto (mentre invece potresti modificarne altri senza che il volto cambi in maniera nemmeno paragonabile al caso precedente).” La forma di quest’affermazione, comunque, non deve indurci erroneamente a pensare che in ogni caso ci sia un’asserzione supplementare della forma di “prima l’espressione era ''questa'', adesso è ''quella''.” Possiamo dire naturalmente “Smith ha aggrottato la fronte e la sua espressione è cambiata da questa a quella,” indicando per esempio due disegni del suo viso. – (Confronta con questa le seguenti due affermazioni: “ha detto queste parole” e “le sue parole dicevano qualcosa”).


Quando, cercando di vedere in che cosa consisteva leggere, ho letto una frase scritta, ho lasciato che l’atto di leggerla mi si imprimesse nella mente e ho detto di aver avuto una particolare impressione, mi si sarebbe potuto chiedere per esempio se a generare tale impressione non sia stata, poniamo, la particolare grafia dell’enunciato. Sarebbe stato come chiedermi se la mia impressione non sarebbe stata diversa se la scrittura fosse stata diversa, se per esempio ogni parola della frase fosse state scritta con una grafia diversa. In questo senso potremmo anche chiederci se l’impressione in fondo non era dovuta al ''senso'' della frase particolare che ho letto. Si potrebbe suggerire: leggi un’altra frase (o la stessa frase scritta in un’altra grafia) e vedi se dici ancora di aver avuto la stessa impressione. La risposta potrebbe essere: “sì, l’impressione che avevo era davvero dovuta alla grafia.” Questo però ''non'' implicherebbe che quando prima ho detto che la frase mi ha dato un’impressione particolare io abbia distinto un’impressione rispetto a un’altra, o che la mia affermazione non fosse del tipo di “questa frase ha ''la propria espressione''.” Ciò diventerà più chiaro se consideriamo l’esempio seguente: immagina di avere tre facce disegnate una accanto all’altra: a) ***FAC***, b) ***FAC***, c) ***FAC***. Dovrebbero essere assolutamente identiche, tranne che per un tratto in più in b) e due punti in c). Contemplo la prima pensando “questo viso ha un’espressione peculiare.” Mi si mostra la seconda e mi si chiede se ha la stessa espressione. Rispondo “sì.” Poi mi mostrano la terza e dico “questa ha un’espressione diversa.” Rispondendo, nei due casi, avrei potuto dire di aver distinto il volto e la sua espressione: perché, pur essendo b) diversa da a), io dico che hanno la stessa espressione, mentre la differenza tra c) e a) corrisponde a una differenza di espressione; e questo potrebbe farci credere che anche nella mia prima enunciazione ho distinto tra volto ed espressione.
Quando, cercando di vedere in che cosa consisteva leggere, ho letto una frase scritta, ho lasciato che l’atto di leggerla mi si imprimesse nella mente e ho detto di aver avuto una particolare impressione, mi si sarebbe potuto chiedere per esempio se a generare tale impressione non sia stata, poniamo, la particolare grafia dell’enunciato. Sarebbe stato come chiedermi se la mia impressione non sarebbe stata diversa se la scrittura fosse stata diversa, se per esempio ogni parola della frase fosse state scritta con una grafia diversa. In questo senso potremmo anche chiederci se l’impressione in fondo non era dovuta al ''senso'' della frase particolare che ho letto. Si potrebbe suggerire: leggi un’altra frase (o la stessa frase scritta in un’altra grafia) e vedi se dici ancora di aver avuto la stessa impressione. La risposta potrebbe essere: “sì, l’impressione che avevo era davvero dovuta alla grafia.” Questo però ''non'' implicherebbe che quando prima ho detto che la frase mi ha dato un’impressione particolare io abbia distinto un’impressione rispetto a un’altra, o che la mia affermazione non fosse del tipo di “questa frase ha ''la propria espressione''.” Ciò diventerà più chiaro se consideriamo l’esempio seguente: immagina di avere tre facce disegnate una accanto all’altra: a) [[File:Brown Book 2-Ts310,159a.png|40px|link=]], b) [[File:Brown Book 2-Ts310,159b.png|40px|link=]], c) [[File:Brown Book 2-Ts310,159c.png|40px|link=]]. Dovrebbero essere assolutamente identiche, tranne che per un tratto in più in b) e due punti in c). Contemplo la prima pensando “questo viso ha un’espressione peculiare.” Mi si mostra la seconda e mi si chiede se ha la stessa espressione. Rispondo “sì.” Poi mi mostrano la terza e dico “questa ha un’espressione diversa.” Rispondendo, nei due casi, avrei potuto dire di aver distinto il volto e la sua espressione: perché, pur essendo b) diversa da a), io dico che hanno la stessa espressione, mentre la differenza tra c) e a) corrisponde a una differenza di espressione; e questo potrebbe farci credere che anche nella mia prima enunciazione ho distinto tra volto ed espressione.


Torniamo all’idea di un senso di familiarità che sorge quando vedo oggetti familiari. Per ponderare se un tale senso esiste o no, probabilmente guardiamo un qualche oggetto e diciamo “quando osservo il mio vecchio cappotto e il cappello, non provo una sensazione particolare?” A questo però rispondiamo: con quale sensazione la confronti, oppure da quale distingui? Diresti che il tuo vecchio cappotto ti genera la stessa sensazione del tuo vecchio amico A, il cui aspetto ti è altrettanto familiare, o che ''ogniqualvolta'' guardi il cappotto in te sorge un senso di intimità e di calore?
Torniamo all’idea di un senso di familiarità che sorge quando vedo oggetti familiari. Per ponderare se un tale senso esiste o no, probabilmente guardiamo un qualche oggetto e diciamo “quando osservo il mio vecchio cappotto e il cappello, non provo una sensazione particolare?” A questo però rispondiamo: con quale sensazione la confronti, oppure da quale distingui? Diresti che il tuo vecchio cappotto ti genera la stessa sensazione del tuo vecchio amico A, il cui aspetto ti è altrettanto familiare, o che ''ogniqualvolta'' guardi il cappotto in te sorge un senso di intimità e di calore?