Libro blu: Difference between revisions

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Questo è un ottimo esempio di domanda filosofica. Ci chiede «come si fa a…?» e, anche se ciò ci sconcerta, dobbiamo ammettere che non c’è nulla di più facile che pensare ciò che non accade. Intendo che questo ci mostra nuovamente che la difficoltà in cui ci troviamo non sorge dalla nostra incapacità di immaginare come si fa a pensare qualcosa; proprio come la difficoltà filosofica inerente alla misurazione del tempo non sorgeva a partire dalla nostra incapacità di immaginare come il tempo veniva effettivamente misurato. Lo dico perché talvolta sembra quasi che la nostra difficoltà consista nel ricordare esattamente che cosa è successo quando abbiamo pensato qualcosa, che sia una difficoltà d’introspezione, o qualcosa di simile; mentre in realtà la difficoltà sorge quando guardiamo ai fatti attraverso il mezzo di una forma fuorviante d’espressione.
Questo è un ottimo esempio di domanda filosofica. Ci chiede «come si fa a…?» e, anche se ciò ci sconcerta, dobbiamo ammettere che non c’è nulla di più facile che pensare ciò che non accade. Intendo che questo ci mostra nuovamente che la difficoltà in cui ci troviamo non sorge dalla nostra incapacità di immaginare come si fa a pensare qualcosa; proprio come la difficoltà filosofica inerente alla misurazione del tempo non sorgeva a partire dalla nostra incapacità di immaginare come il tempo veniva effettivamente misurato. Lo dico perché talvolta sembra quasi che la nostra difficoltà consista nel ricordare esattamente che cosa è successo quando abbiamo pensato qualcosa, che sia una difficoltà d’introspezione, o qualcosa di simile; mentre in realtà la difficoltà sorge quando guardiamo ai fatti attraverso il mezzo di una forma fuorviante d’espressione.


«Come si può pensare ciò che non accade? Se penso che il King’s College stia bruciando quando non è così, il fatto del suo bruciare non esiste. E allora come faccio a pensarlo? {{BBB TS reference it|Ts-309,}}Come facciamo a impiccare un ladro che non esiste?» La nostra risposta potrebbe assumere la forma seguente: «Quando non esiste, non lo posso impiccare, ma quando non esiste, lo posso cercare».
«Come si può pensare ciò che non accade? Se penso che il King’s College stia bruciando quando non è così, il fatto del suo bruciare non esiste. E allora come faccio a pensarlo? {{BBB TS reference it|Ts-309,50}} Come facciamo a impiccare un ladro che non esiste?» La nostra risposta potrebbe assumere la forma seguente: «Quando non esiste, non lo posso impiccare, ma quando non esiste, lo posso cercare».


Qui siamo fuorviati dai sostantivi «oggetto del pensiero» e «fatto» e dai diversi significati della parola «esiste».
Qui siamo fuorviati dai sostantivi «oggetto del pensiero» e «fatto» e dai diversi significati della parola «esiste».
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Parlare del fatto come di un «complesso di oggetti» sorge da questa confusione (cfr. ''Tractatus Logico-Philosophicus''). Supponiamo di chiedere: «Come si fa a ''immaginare'' ciò che non esiste?». La risposta sembra essere: «Se lo facciamo, immaginiamo combinazioni inesistenti di elementi esistenti». Un centauro non esiste, ma una testa, un torso e delle braccia umani e delle gambe di cavallo invece esistono. «Non possiamo però immaginare un oggetto totalmente diverso da qualunque oggetto esistente?» – Dovremmo allora essere propensi a rispondere: «No; gli elementi, gli individui, devono esistere. Se la rossezza, la rotondità o la dolcezza non esistessero, non potremmo immaginarli».
Parlare del fatto come di un «complesso di oggetti» sorge da questa confusione (cfr. ''Tractatus Logico-Philosophicus''). Supponiamo di chiedere: «Come si fa a ''immaginare'' ciò che non esiste?». La risposta sembra essere: «Se lo facciamo, immaginiamo combinazioni inesistenti di elementi esistenti». Un centauro non esiste, ma una testa, un torso e delle braccia umani e delle gambe di cavallo invece esistono. «Non possiamo però immaginare un oggetto totalmente diverso da qualunque oggetto esistente?» – Dovremmo allora essere propensi a rispondere: «No; gli elementi, gli individui, devono esistere. Se la rossezza, la rotondità o la dolcezza non esistessero, non potremmo immaginarli».


Ma che cosa intendi con «la rossezza esiste»? Il mio orologio esiste, se non è stato smontato, se non è stato ''distrutto''. Cosa chiameremmo «distruggere la rossezza»? Potremmo naturalmente intendere il fatto di distruggere tutti gli oggetti rossi; ma ciò renderebbe impossibile immaginare un oggetto rosso? Supponiamo che qualcuno ci risponda: «Certamente però degli oggetti rossi devono essere esistiti e tu devi averli visti…». – Ma come fai a saperlo? Supponi che ti dica: «Una pressione esercitata sul bulbo oculare produce un’immagine rossa». Non potrebbe essere stato così che hai conosciuto il rosso per la prima volta? E perché invece non avrebbe potuto trattarsi soltanto di una chiazza rossa nella tua immaginazione? (Della difficoltà che avverti{{BBB TS reference it|Ts-309,}} qui bisognerà discutere in seguito.)
Ma che cosa intendi con «la rossezza esiste»? Il mio orologio esiste, se non è stato smontato, se non è stato ''distrutto''. Cosa chiameremmo «distruggere la rossezza»? Potremmo naturalmente intendere il fatto di distruggere tutti gli oggetti rossi; ma ciò renderebbe impossibile immaginare un oggetto rosso? Supponiamo che qualcuno ci risponda: «Certamente però degli oggetti rossi devono essere esistiti e tu devi averli visti…». – Ma come fai a saperlo? Supponi che ti dica: «Una pressione esercitata sul bulbo oculare produce un’immagine rossa». Non potrebbe essere stato così che hai conosciuto il rosso per la prima volta? E perché invece non avrebbe potuto trattarsi soltanto di una chiazza rossa nella tua immaginazione? (Della difficoltà che avverti {{BBB TS reference it|Ts-309,51}} qui bisognerà discutere in seguito.)


Saremmo ora propensi a dire: «Poiché il fatto che, se esistesse, renderebbe vero il nostro pensiero non sempre esiste, non è il ''fatto'' che pensiamo». Ma ciò dipende solo da come desidero impiegare la parola «fatto». Perché non dovrei dire: «Credo il fatto che il college sta bruciando»? È solo un’espressione goffa per dire: «Credo che il college stia bruciando». Dire «non è il fatto che crediamo» è già di per sé il risultato di una confusione. Pensiamo di stare dicendo qualcosa come: «Non è la canna da zucchero che mangiamo, è lo zucchero»; «Non è Mr Smith quello appeso nella galleria, bensì il suo ritratto».
Saremmo ora propensi a dire: «Poiché il fatto che, se esistesse, renderebbe vero il nostro pensiero non sempre esiste, non è il ''fatto'' che pensiamo». Ma ciò dipende solo da come desidero impiegare la parola «fatto». Perché non dovrei dire: «Credo il fatto che il college sta bruciando»? È solo un’espressione goffa per dire: «Credo che il college stia bruciando». Dire «non è il fatto che crediamo» è già di per sé il risultato di una confusione. Pensiamo di stare dicendo qualcosa come: «Non è la canna da zucchero che mangiamo, è lo zucchero»; «Non è Mr Smith quello appeso nella galleria, bensì il suo ritratto».
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Ciò però non rimuove la difficoltà. Perché ora la domanda è: «Come può qualcosa essere l’ombra di un fatto che non esiste?».
Ciò però non rimuove la difficoltà. Perché ora la domanda è: «Come può qualcosa essere l’ombra di un fatto che non esiste?».


Posso esprimere il problema in una forma diversa dicendo: «Come possiamo sapere di che cosa un’ombra è l’ombra?». – L’ombra sarebbe una specie di ritratto; dunque posso riformulare l’interrogativo dicendo: «Che cosa rende un ritratto un ritratto di Mr N?». La risposta che potrebbe suggerircisi per prima è: «La somiglianza tra il ritratto e Mr N». Tale risposta in effetti mostra ciò che avevamo in mente quando abbiamo parlato{{BBB TS reference it|Ts-309,}} dell’ombra di un fatto. È piuttosto chiaro, tuttavia, che la somiglianza non costituisce la nostra idea di un ritratto; poiché nell’essenza di quest’idea c’è il fatto che debba aver senso parlare di un buon ritratto o di un cattivo ritratto. In altri termini, è essenziale che l’ombra debba essere in grado di rappresentare le cose come in realtà non sono.
Posso esprimere il problema in una forma diversa dicendo: «Come possiamo sapere di che cosa un’ombra è l’ombra?». – L’ombra sarebbe una specie di ritratto; dunque posso riformulare l’interrogativo dicendo: «Che cosa rende un ritratto un ritratto di Mr N?». La risposta che potrebbe suggerircisi per prima è: «La somiglianza tra il ritratto e Mr N». Tale risposta in effetti mostra ciò che avevamo in mente quando abbiamo parlato {{BBB TS reference it|Ts-309,52}} dell’ombra di un fatto. È piuttosto chiaro, tuttavia, che la somiglianza non costituisce la nostra idea di un ritratto; poiché nell’essenza di quest’idea c’è il fatto che debba aver senso parlare di un buon ritratto o di un cattivo ritratto. In altri termini, è essenziale che l’ombra debba essere in grado di rappresentare le cose come in realtà non sono.


Una risposta ovvia e giusta alla domanda «che cosa rende il ritratto il ritratto del tal dei tali?» è che è l’''intenzione''. Ma se desideriamo sapere che cosa significa «avere l’intenzione che questo sia un ritratto del tal dei tali», vediamo che cosa succede effettivamente quando abbiamo quest’intenzione. Ricorda l’occasione in cui abbiamo parlato di cosa accade quando ci aspettiamo l’arrivo di qualcuno tra le quattro e le quattro e mezza. Avere l’intenzione che un quadro sia un ritratto del tal dei tali (da parte del pittore, per esempio) non è né un particolare stato della mente né un particolare processo mentale. Ci sono però moltissime combinazioni di azioni e stati mentali che dovremmo chiamare «avere l’intenzione che…». Potrebbe trattarsi del fatto che gli hanno detto di dipingere un ritratto di N e lui si è seduto davanti a N e ha svolto certe azioni che chiamiamo «copiare la faccia di N». A ciò si potrebbe obiettare dicendo che l’essenza del copiare è l’intenzione di copiare. Ribatterei che ci sono moltissimi processi diversi che chiamiamo «copiare qualcosa». Facciamo un esempio. Disegno un’ellisse su un foglio e ti chiedo di copiarla. Che cosa caratterizza il processo di copiare? Perché è chiaro che non è il{{BBB TS reference it|Ts-309,}} fatto che tu disegni un’ellisse simile. Avresti potuto cercare di copiarla e non riuscirci; oppure avresti potuto disegnare un’ellisse con un’intenzione completamente diversa e avrebbe potuto essere un caso che sia venuta fuori come quella che avresti dovuto copiare. Quindi che cosa fai quando cerchi di copiare un’ellisse? Be’, la guardi, disegni qualcosa su un pezzo di carta, magari misuri ciò che hai disegnato, magari imprechi se scopri che non concorda con il modello o magari dici «adesso copio quest’ellisse» e semplicemente disegni un’ellisse come questa. C’è una varietà infinita di azioni e di parole, che intrattengono una familiarità reciproca, che noi chiamiamo «cercare di copiare».
Una risposta ovvia e giusta alla domanda «che cosa rende il ritratto il ritratto del tal dei tali?» è che è l’''intenzione''. Ma se desideriamo sapere che cosa significa «avere l’intenzione che questo sia un ritratto del tal dei tali», vediamo che cosa succede effettivamente quando abbiamo quest’intenzione. Ricorda l’occasione in cui abbiamo parlato di cosa accade quando ci aspettiamo l’arrivo di qualcuno tra le quattro e le quattro e mezza. Avere l’intenzione che un quadro sia un ritratto del tal dei tali (da parte del pittore, per esempio) non è né un particolare stato della mente né un particolare processo mentale. Ci sono però moltissime combinazioni di azioni e stati mentali che dovremmo chiamare «avere l’intenzione che…». Potrebbe trattarsi del fatto che gli hanno detto di dipingere un ritratto di N e lui si è seduto davanti a N e ha svolto certe azioni che chiamiamo «copiare la faccia di N». A ciò si potrebbe obiettare dicendo che l’essenza del copiare è l’intenzione di copiare. Ribatterei che ci sono moltissimi processi diversi che chiamiamo «copiare qualcosa». Facciamo un esempio. Disegno un’ellisse su un foglio e ti chiedo di copiarla. Che cosa caratterizza il processo di copiare? Perché è chiaro che non è il {{BBB TS reference it|Ts-309,53}} fatto che tu disegni un’ellisse simile. Avresti potuto cercare di copiarla e non riuscirci; oppure avresti potuto disegnare un’ellisse con un’intenzione completamente diversa e avrebbe potuto essere un caso che sia venuta fuori come quella che avresti dovuto copiare. Quindi che cosa fai quando cerchi di copiare un’ellisse? Be’, la guardi, disegni qualcosa su un pezzo di carta, magari misuri ciò che hai disegnato, magari imprechi se scopri che non concorda con il modello o magari dici «adesso copio quest’ellisse» e semplicemente disegni un’ellisse come questa. C’è una varietà infinita di azioni e di parole, che intrattengono una familiarità reciproca, che noi chiamiamo «cercare di copiare».


Supponi che dicessimo: «Il fatto che un’immagine sia il ritratto di un particolare oggetto consiste nel suo essere derivata dall’oggetto in questione in un modo particolare». È facile descrivere ciò che chiameremmo «processi di derivare un’immagine da un oggetto» (grossomodo, processi di proiezione). Ma riscontriamo una strana difficoltà nell’ammettere che qualcuno di questi processi è ciò che chiamiamo «rappresentazione intenzionale». Perché per qualunque processo (attività) noi possiamo descrivere, c’è un modo di reinterpretare tale proiezione. Dunque – si è tentati di dire – un simile processo non può mai essere l’intenzione stessa. Perché potremmo sempre aver inteso il contrario reinterpretando il processo di proiezione. Immagina questo caso: diamo a qualcuno l’ordine di camminare in una certa direzione additando o disegnando una freccia che indica quella direzione. Supponi che disegnare frecce sia il linguaggio in cui generalmente {{BBB TS reference it|Ts-309,}}diamo un tale ordine. Un tale ordine non potrebbe venir interpretato come se significasse che chi lo riceve deve camminare nella direzione opposta a quella della freccia? Ciò ovviamente potrebbe venire fatto aggiungendo alla freccia dei simboli che potremmo chiamare «''un’interpretazione''». È facile immaginare un caso in cui, poniamo, per ingannare qualcuno, potremmo accordarci affinché un ordine vada eseguito nel senso opposto rispetto a quello normale. Il simbolo che aggiunge l’interpretazione alla nostra freccia originale potrebbe, per esempio, essere un’altra feccia. Ogniqualvolta interpretiamo un simbolo in un modo o in un altro, l’interpretazione è un nuovo simbolo aggiunto al primo.
Supponi che dicessimo: «Il fatto che un’immagine sia il ritratto di un particolare oggetto consiste nel suo essere derivata dall’oggetto in questione in un modo particolare». È facile descrivere ciò che chiameremmo «processi di derivare un’immagine da un oggetto» (grossomodo, processi di proiezione). Ma riscontriamo una strana difficoltà nell’ammettere che qualcuno di questi processi è ciò che chiamiamo «rappresentazione intenzionale». Perché per qualunque processo (attività) noi possiamo descrivere, c’è un modo di reinterpretare tale proiezione. Dunque – si è tentati di dire – un simile processo non può mai essere l’intenzione stessa. Perché potremmo sempre aver inteso il contrario reinterpretando il processo di proiezione. Immagina questo caso: diamo a qualcuno l’ordine di camminare in una certa direzione additando o disegnando una freccia che indica quella direzione. Supponi che disegnare frecce sia il linguaggio in cui generalmente {{BBB TS reference it|Ts-309,54}} diamo un tale ordine. Un tale ordine non potrebbe venir interpretato come se significasse che chi lo riceve deve camminare nella direzione opposta a quella della freccia? Ciò ovviamente potrebbe venire fatto aggiungendo alla freccia dei simboli che potremmo chiamare «''un’interpretazione''». È facile immaginare un caso in cui, poniamo, per ingannare qualcuno, potremmo accordarci affinché un ordine vada eseguito nel senso opposto rispetto a quello normale. Il simbolo che aggiunge l’interpretazione alla nostra freccia originale potrebbe, per esempio, essere un’altra feccia. Ogniqualvolta interpretiamo un simbolo in un modo o in un altro, l’interpretazione è un nuovo simbolo aggiunto al primo.


Ora potremmo dire che ogniqualvolta diamo a qualcuno un ordine mostrandogli una freccia, e non lo facciamo «automaticamente», ''intendiamo'' la freccia in un modo o nell’altro. E questo processo di intendere, di qualunque tipo sia, può essere rappresentato da un’altra freccia (che indica nella stessa direzione della prima o in quella opposta). In questa raffigurazione che ci siamo fatti di «intendere e dire» è essenziale che immaginiamo i processi di dire e di intendere come se avessero luogo in due sfere diverse.
Ora potremmo dire che ogniqualvolta diamo a qualcuno un ordine mostrandogli una freccia, e non lo facciamo «automaticamente», ''intendiamo'' la freccia in un modo o nell’altro. E questo processo di intendere, di qualunque tipo sia, può essere rappresentato da un’altra freccia (che indica nella stessa direzione della prima o in quella opposta). In questa raffigurazione che ci siamo fatti di «intendere e dire» è essenziale che immaginiamo i processi di dire e di intendere come se avessero luogo in due sfere diverse.
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{{BBB TS reference it|Ts-309,}}Se allora questo schema deve servire in qualche modo al nostro scopo, bisogna che ci mostri quale dei tre livelli è il livello del significato. Posso, per esempio, fare uno schema a tre livelli, dove quello più basso è sempre il livello del significato. Adotta pure qualunque modello o schema ti aggradi, esso avrà comunque un livello più basso, riguardo al quale non potrà esserci nulla di simile a un’interpretazione. Dire in questo caso che ogni freccia può ancora essere interpretata significherebbe soltanto che ''potrei'' sempre costruire un modello diverso di dire e di intendere che contenesse un livello in più rispetto a quello di cui mi sto servendo.
{{BBB TS reference it|Ts-309,55}} Se allora questo schema deve servire in qualche modo al nostro scopo, bisogna che ci mostri quale dei tre livelli è il livello del significato. Posso, per esempio, fare uno schema a tre livelli, dove quello più basso è sempre il livello del significato. Adotta pure qualunque modello o schema ti aggradi, esso avrà comunque un livello più basso, riguardo al quale non potrà esserci nulla di simile a un’interpretazione. Dire in questo caso che ogni freccia può ancora essere interpretata significherebbe soltanto che ''potrei'' sempre costruire un modello diverso di dire e di intendere che contenesse un livello in più rispetto a quello di cui mi sto servendo.


Mettiamola in questo modo: – ciò che si vuole dire è: «Ogni segno è passibile d’interpretazione; ma il ''significato'' non può essere passibile d’interpretazione. È l’ultima interpretazione». Ora presumo che tu consideri il significato un processo che accompagna il dire e che sia traducibile in, e in tal misura equivalente a, un segno ulteriore. Devi perciò ancora spiegarmi quale ritieni sia il marchio di distinzione tra ''un segno'' e ''il significato''. Se lo fai, per esempio, dicendo che il significato è la freccia che ''immagini'' – in quanto contrapposta a qualunque altra freccia che tu possa disegnare o produrre in qualsiasi altra maniera – così facendo affermi che non considererai alcuna freccia ulteriore un’interpretazione di quella che hai immaginato.
Mettiamola in questo modo: – ciò che si vuole dire è: «Ogni segno è passibile d’interpretazione; ma il ''significato'' non può essere passibile d’interpretazione. È l’ultima interpretazione». Ora presumo che tu consideri il significato un processo che accompagna il dire e che sia traducibile in, e in tal misura equivalente a, un segno ulteriore. Devi perciò ancora spiegarmi quale ritieni sia il marchio di distinzione tra ''un segno'' e ''il significato''. Se lo fai, per esempio, dicendo che il significato è la freccia che ''immagini'' – in quanto contrapposta a qualunque altra freccia che tu possa disegnare o produrre in qualsiasi altra maniera – così facendo affermi che non considererai alcuna freccia ulteriore un’interpretazione di quella che hai immaginato.


Tutto ciò diverrà più chiaro se prendiamo in considerazione ciò che realmente accade quando diciamo una cosa e intendiamo ciò che diciamo. – Chiediamoci: se diciamo a qualcuno «sarei felicissimo di vederti» e lo intendiamo, accanto a queste parole si svolge un processo cosciente, un processo che in sé potrebbe essere {{BBB TS reference it|Ts-309,}}tradotto in parole dette ad alta voce? Ciò non avverrà praticamente mai.
Tutto ciò diverrà più chiaro se prendiamo in considerazione ciò che realmente accade quando diciamo una cosa e intendiamo ciò che diciamo. – Chiediamoci: se diciamo a qualcuno «sarei felicissimo di vederti» e lo intendiamo, accanto a queste parole si svolge un processo cosciente, un processo che in sé potrebbe essere {{BBB TS reference it|Ts-309,56}} tradotto in parole dette ad alta voce? Ciò non avverrà praticamente mai.


Immaginiamo però un esempio in cui accade proprio questo. Poniamo che io abbia l’abitudine di accompagnare ogni frase inglese che pronuncio ad alta voce con una frase tedesca detta silenziosamente a me stesso. Se allora, per una ragione o per l’altra, tu chiami la frase silenziosa il significato di quella detta ad alta voce, il processo di intendere che accompagna il processo di parlare sarebbe tale da poter esso stesso venir tradotto in segni esterni. Oppure, ''prima'' di ogni frase che diciamo ad alta voce ne diciamo il significato (qualunque esso possa essere) a noi stessi in una specie di a parte. Un esempio perlomeno simile al caso che vogliamo discutere sarebbe dire una cosa e al contempo vedere nell’occhio della mente un’immagine che è il significato e concorda o non concorda con ciò che diciamo. Tali casi e casi simili esistono, ma non sono affatto ciò che accade di regola quando diciamo qualcosa e lo intendiamo, oppure intendiamo qualcos’altro. Ci sono naturalmente casi reali in cui ciò che chiamiamo significato è un processo cosciente definito che accompagna, precede o segue l’espressione verbale ed è esso stesso una specie di espressione verbale o risulta traducibile in un’espressione verbale. Un tipico esempio di ciò è l’«a parte» sul palcoscenico.
Immaginiamo però un esempio in cui accade proprio questo. Poniamo che io abbia l’abitudine di accompagnare ogni frase inglese che pronuncio ad alta voce con una frase tedesca detta silenziosamente a me stesso. Se allora, per una ragione o per l’altra, tu chiami la frase silenziosa il significato di quella detta ad alta voce, il processo di intendere che accompagna il processo di parlare sarebbe tale da poter esso stesso venir tradotto in segni esterni. Oppure, ''prima'' di ogni frase che diciamo ad alta voce ne diciamo il significato (qualunque esso possa essere) a noi stessi in una specie di a parte. Un esempio perlomeno simile al caso che vogliamo discutere sarebbe dire una cosa e al contempo vedere nell’occhio della mente un’immagine che è il significato e concorda o non concorda con ciò che diciamo. Tali casi e casi simili esistono, ma non sono affatto ciò che accade di regola quando diciamo qualcosa e lo intendiamo, oppure intendiamo qualcos’altro. Ci sono naturalmente casi reali in cui ciò che chiamiamo significato è un processo cosciente definito che accompagna, precede o segue l’espressione verbale ed è esso stesso una specie di espressione verbale o risulta traducibile in un’espressione verbale. Un tipico esempio di ciò è l’«a parte» sul palcoscenico.
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Ma ciò che ci induce nella tentazione di pensare al significato di ciò che diciamo come a un processo essenzialmente del tipo di quello che abbiamo descritto è l’analogia tra le forme di espressione:
Ma ciò che ci induce nella tentazione di pensare al significato di ciò che diciamo come a un processo essenzialmente del tipo di quello che abbiamo descritto è l’analogia tra le forme di espressione:


«dire qualcosa»
:«dire qualcosa»


«intendere qualcosa»,
:«intendere qualcosa»,


{{BBB TS reference it|Ts-309,}}che sembrano riferirsi a due processi paralleli.
{{BBB TS reference it|Ts-309,57}} che sembrano riferirsi a due processi paralleli.


Un processo che accompagna le nostre parole e che si potrebbe chiamare «il processo di intenderle» è la modulazione della voce con cui pronunciamo le parole; o uno dei processi simili a questo, quale il gioco della mimica facciale. Questi processi accompagnano le parole dette ad alta voce non nel modo in cui una frase tedesca potrebbe accompagnare una frase inglese o nel modo in cui lo scrivere una frase potrebbe accompagnare il pronunciare una frase; ma nel senso in cui la melodia di una canzone accompagna le parole. Questa melodia corrisponde al «sentimento» con cui diciamo la frase. E desidero precisare che tale sentimento è l’espressione con cui la frase è detta, o qualcosa di simile a quest’espressione.
Un processo che accompagna le nostre parole e che si potrebbe chiamare «il processo di intenderle» è la modulazione della voce con cui pronunciamo le parole; o uno dei processi simili a questo, quale il gioco della mimica facciale. Questi processi accompagnano le parole dette ad alta voce non nel modo in cui una frase tedesca potrebbe accompagnare una frase inglese o nel modo in cui lo scrivere una frase potrebbe accompagnare il pronunciare una frase; ma nel senso in cui la melodia di una canzone accompagna le parole. Questa melodia corrisponde al «sentimento» con cui diciamo la frase. E desidero precisare che tale sentimento è l’espressione con cui la frase è detta, o qualcosa di simile a quest’espressione.
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Questa domanda, per come la formuliamo, è già l’espressione di varie confusioni. A mostrarcelo è il mero fatto che suona quasi come una domanda della fisica; come se chiedessi: «Quali sono i costituenti ultimi della materia?» (È una domanda tipicamente metafisica; la caratteristica di una domanda metafisica è che esprimiamo un’assenza di chiarezza riguardo alla grammatica delle parole nella ''forma'' di una domanda scientifica.)
Questa domanda, per come la formuliamo, è già l’espressione di varie confusioni. A mostrarcelo è il mero fatto che suona quasi come una domanda della fisica; come se chiedessi: «Quali sono i costituenti ultimi della materia?» (È una domanda tipicamente metafisica; la caratteristica di una domanda metafisica è che esprimiamo un’assenza di chiarezza riguardo alla grammatica delle parole nella ''forma'' di una domanda scientifica.)


Una delle origini della nostra domanda è l’uso duplice della funzione proposizionale «penso X». Diciamo «penso che accadrà questo e questo», oppure «avviene questo e questo», e anche «penso la stessa ''cosa'' che pensa lui»; e diciamo «lo sto aspettando» e anche «mi aspetto che arrivi». Confronta «lo sto aspettando» con «gli sparo». Se lui non c’è, non gli posso sparare. È così che sorge la domanda: «Come possiamo aspettarci qualcosa che non avviene?», «Come facciamo ad aspettarci un fatto che non esiste?».
Una delle origini della nostra domanda è l’uso duplice della funzione proposizionale «penso X». Diciamo «penso che accadrà questo e questo», oppure «avviene questo e questo», e anche «penso la stessa ''cosa'' che pensa lui»; e diciamo «lo sto {{BBB TS reference it|Ts-309,58}} aspettando» e anche «mi aspetto che arrivi». Confronta «lo sto aspettando» con «gli sparo». Se lui non c’è, non gli posso sparare. È così che sorge la domanda: «Come possiamo aspettarci qualcosa che non avviene?», «Come facciamo ad aspettarci un fatto che non esiste?».


La via d’uscita da questa difficoltà sembra essere: ciò che ci aspettiamo non è il fatto, ma un’ombra del fatto; per così dire, la cosa più vicina al fatto. Abbiamo detto che ciò non fa che respingere la domanda un passo più indietro. Ci sono varie origini di quest’idea di un’ombra, tra cui questa: diciamo «di sicuro due frasi di lingue diverse possono avere lo stesso senso»; e argomentiamo «quindi il senso non è la stessa cosa della frase», e poi chiediamo «che cos’è il senso?». E facciamo di «esso» un’entità umbratile, una delle molte che creiamo quando vogliamo dare significato a sostantivi a cui non corrisponde alcun oggetto materiale.
La via d’uscita da questa difficoltà sembra essere: ciò che ci aspettiamo non è il fatto, ma un’ombra del fatto; per così dire, la cosa più vicina al fatto. Abbiamo detto che ciò non fa che respingere la domanda un passo più indietro. Ci sono varie origini di quest’idea di un’ombra, tra cui questa: diciamo «di sicuro due frasi di lingue diverse possono avere lo stesso senso»; e argomentiamo «quindi il senso non è la stessa cosa della frase», e poi chiediamo «che cos’è il senso?». E facciamo di «esso» un’entità umbratile, una delle molte che creiamo quando vogliamo dare significato a sostantivi a cui non corrisponde alcun oggetto materiale.


Un’altra fonte dell’idea secondo cui l’oggetto del nostro pensiero sarebbe un’ombra è questa: immaginiamo che l’ombra sia un’immagine la cui intenzione ''non può venire messa in questione'', ossia un’immagine che non interpretiamo per comprenderla, ma che comprendiamo senza interpretare. Ci sono immagini di cui dovremmo dire che le interpretiamo, cioè che per comprenderle le traduciamo in un diverso tipo d’immagini; e immagini di cui dovremmo dire che le capiamo immediatamente, senza alcun’interpretazione ulteriore. Se vedi un telegramma scritto in codice e conosci la chiave di tale {{BBB TS reference it|Ts-309,}}codice, in genere non dirai che comprendi il telegramma prima di averlo tradotto nel linguaggio ordinario. Naturalmente avrai soltanto sostituito un tipo di simboli con un altro; ma, se adesso leggi il telegramma nel tuo linguaggio, non avrà luogo alcun processo ulteriore d’interpretazione. – O meglio, ora puoi, in certi casi, tradurre di nuovo il telegramma, per esempio in un’immagine; ma anche in questo caso non farai che sostituire un insieme di simboli con un altro.
Un’altra fonte dell’idea secondo cui l’oggetto del nostro pensiero sarebbe un’ombra è questa: immaginiamo che l’ombra sia un’immagine la cui intenzione ''non può venire messa in questione'', ossia un’immagine che non interpretiamo per comprenderla, ma che comprendiamo senza interpretare. Ci sono immagini di cui dovremmo dire che le interpretiamo, cioè che per comprenderle le traduciamo in un diverso tipo d’immagini; e immagini di cui dovremmo dire che le capiamo immediatamente, senza alcun’interpretazione ulteriore. Se vedi un telegramma scritto in codice e conosci la chiave di tale {{BBB TS reference it|Ts-309,59}} codice, in genere non dirai che comprendi il telegramma prima di averlo tradotto nel linguaggio ordinario. Naturalmente avrai soltanto sostituito un tipo di simboli con un altro; ma, se adesso leggi il telegramma nel tuo linguaggio, non avrà luogo alcun processo ulteriore d’interpretazione. – O meglio, ora puoi, in certi casi, tradurre di nuovo il telegramma, per esempio in un’immagine; ma anche in questo caso non farai che sostituire un insieme di simboli con un altro.


L’ombra, per come la pensiamo, è un qualche tipo d’immagine; infatti, ciò che intendiamo con essa è qualcosa di molto simile a un’immagine che si presenta davanti all’occhio della mente; e ciò a sua volta è qualcosa di non dissimile da una rappresentazione pittorica nel senso ordinario. Una fonte dell’idea dell’ombra è sicuramente il fatto che, in certi casi, dire, sentire o leggere una frase porta delle immagini davanti al nostro occhio della mente, immagini che in maniera più o meno stringente corrispondono alla frase e che sono dunque, in un certo senso, traduzioni della frase in un linguaggio pittorico. – Ma è assolutamente essenziale, per la raffigurazione che immaginiamo essere l’ombra, che si tratti di ciò che chiamerò «una raffigurazione per somiglianza». Con questo, non intendo che sia un’immagine simile a quello che, secondo l’intenzione, dovrebbe rappresentare, ma che sia un’immagine che è corretta solo quando è simile a ciò che rappresenta. Si potrebbe usare, per questo tipo d’immagine, la parola «copia». Approssimando, le copie sono buone immagini quando possono essere facilmente confuse con ciò che rappresentano.
L’ombra, per come la pensiamo, è un qualche tipo d’immagine; infatti, ciò che intendiamo con essa è qualcosa di molto simile a un’immagine che si presenta davanti all’occhio della mente; e ciò a sua volta è qualcosa di non dissimile da una rappresentazione pittorica nel senso ordinario. Una fonte dell’idea dell’ombra è sicuramente il fatto che, in certi casi, dire, sentire o leggere una frase porta delle immagini davanti al nostro occhio della mente, immagini che in maniera più o meno stringente corrispondono alla frase e che sono dunque, in un certo senso, traduzioni della frase in un linguaggio pittorico. – Ma è assolutamente essenziale, per la raffigurazione che immaginiamo essere l’ombra, che si tratti di ciò che chiamerò «una raffigurazione per somiglianza». Con questo, non intendo che sia un’immagine simile a quello che, secondo l’intenzione, dovrebbe rappresentare, ma che sia un’immagine che è corretta solo quando è simile a ciò che rappresenta. Si potrebbe usare, per questo tipo d’immagine, la parola «copia». Approssimando, le copie sono buone immagini quando possono essere facilmente confuse con ciò che rappresentano.


Una proiezione piana di un emisfero {{BBB TS reference it|Ts-309,}}terrestre non è un’immagine per somiglianza o una copia in questo senso. Sarebbe immaginabile che io ritraessi la faccia di una persona proiettandola su un foglio in qualche maniera bizzarra ma correttamente rispetto alla regola adottata per la proiezione, in modo tale che nessuno normalmente chiamerebbe la proiezione «un buon ritratto del tal dei tali», perché non gli assomiglierebbe affatto.
Una proiezione piana di un emisfero {{BBB TS reference it|Ts-309,60}} terrestre non è un’immagine per somiglianza o una copia in questo senso. Sarebbe immaginabile che io ritraessi la faccia di una persona proiettandola su un foglio in qualche maniera bizzarra ma correttamente rispetto alla regola adottata per la proiezione, in modo tale che nessuno normalmente chiamerebbe la proiezione «un buon ritratto del tal dei tali», perché non gli assomiglierebbe affatto.


Se teniamo a mente la possibilità di un’immagine che, per quanto corretta, non ha alcuna somiglianza con il suo oggetto, l’interpolazione di un’ombra tra la frase e la realtà perde completamente il suo scopo. Perché adesso la frase in sé può fare la funzione di tale ombra. La frase è semplicemente un’immagine di questo genere, priva della benché minima somiglianza con ciò che rappresenta. Se fossimo dubbiosi circa il modo in cui la frase «il King’s College sta bruciando» possa essere una raffigurazione del King’s College che sta bruciando, dovremmo soltanto chiederci: «Come spiegheremmo cosa significa la frase?». Tale spiegazione potrebbe consistere di definizioni ostensive. Diremmo, per esempio, «questo è il King’s College» (indicando l’edificio), «questo è il fuoco» (indicando il fuoco). È così che colleghiamo le parole con le cose.
Se teniamo a mente la possibilità di un’immagine che, per quanto corretta, non ha alcuna somiglianza con il suo oggetto, l’interpolazione di un’ombra tra la frase e la realtà perde completamente il suo scopo. Perché adesso la frase in sé può fare la funzione di tale ombra. La frase è semplicemente un’immagine di questo genere, priva della benché minima somiglianza con ciò che rappresenta. Se fossimo dubbiosi circa il modo in cui la frase «il King’s College sta bruciando» possa essere una raffigurazione del King’s College che sta bruciando, dovremmo soltanto chiederci: «Come spiegheremmo cosa significa la frase?». Tale spiegazione potrebbe consistere di definizioni ostensive. Diremmo, per esempio, «questo è il King’s College» (indicando l’edificio), «questo è il fuoco» (indicando il fuoco). È così che colleghiamo le parole con le cose.


L’idea che ciò desideriamo che accada debba essere presente come un’ombra nel nostro desiderio è profondamente radicata nelle nostre forme di espressione. In effetti, però, potremmo dire che è soltanto la seconda miglior assurdità rispetto a quella che dovremmo vorremmo dire. Se non fosse troppo assurdo, dovremmo dire che il fatto che desideriamo dev’essere presente nel nostro desiderio. Come possiamo infatti desiderare che ''proprio questo'' accada se proprio questo non è presente nel nostro desiderio? {{BBB TS reference it|Ts-309,}}È proprio vero: la mera ombra non basta; perché si ferma prima dell’oggetto; noi vogliamo che il desiderio contenga l’oggetto stesso. – Vogliamo che il desiderio che Mr Smith venga in questa stanza desideri che solo ''Mr Smith'', non un sostituto, compia ''la venuta'', non un sostituto di questa, ''nella mia stanza'', non in un sostituto di questa. Ma questo però è proprio ciò che abbiamo detto.
L’idea che ciò desideriamo che accada debba essere presente come un’ombra nel nostro desiderio è profondamente radicata nelle nostre forme di espressione. In effetti, però, potremmo dire che è soltanto la seconda miglior assurdità rispetto a quella che dovremmo vorremmo dire. Se non fosse troppo assurdo, dovremmo dire che il fatto che desideriamo dev’essere presente nel nostro desiderio. Come possiamo infatti desiderare che ''proprio questo'' accada se proprio questo non è presente nel nostro desiderio? {{BBB TS reference it|Ts-309,61}} È proprio vero: la mera ombra non basta; perché si ferma prima dell’oggetto; noi vogliamo che il desiderio contenga l’oggetto stesso. – Vogliamo che il desiderio che Mr Smith venga in questa stanza desideri che solo ''Mr Smith'', non un sostituto, compia ''la venuta'', non un sostituto di questa, ''nella mia stanza'', non in un sostituto di questa. Ma questo però è proprio ciò che abbiamo detto.


Potremmo descrivere la nostra confusione così: in perfetto accordo con la nostra forma abituale di espressione pensiamo al fatto che desideriamo accada come a una cosa che non è ancora qui e che, perciò, non posso indicare. Per comprendere la grammatica della nostra espressione «oggetto del nostro desiderio» consideriamo semplicemente la risposta che diamo alla domanda: «Qual è l’oggetto del tuo desiderio?». La risposta a questa domanda naturalmente è «desidero che accada questo e questo.» Ma quale sarebbe la risposta se poi chiedessimo: «E qual è l’oggetto di questo desiderio?»? Potrebbe solo consistere in una ripetizione della nostra precedente espressione del desiderio, oppure in una traduzione in qualche altra forma d’espressione. Potremmo, per esempio, indicare ciò che desideravamo con altre parole o illustrarlo con un’immagine, ecc., ecc. Ora, quando abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’oggetto del nostro desiderio sia, per così dire, un uomo che non è ancora entrato nella nostra stanza e dunque non può ancora essere visto, immaginiamo che qualunque spiegazione di ciò che desideriamo sia soltanto la migliore alternativa alla spiegazione che ci mostrerebbe ''il fatto reale'', – che, temiamo, non può ancora essere {{BBB TS reference it|Ts-309,}}mostrato poiché non è ancora entrato. – È come se dicessi a qualcuno «mi aspetto che arrivi Mr Smith» e lui mi chiedesse «chi è Mr Smith?» e io rispondessi: «Non te lo posso mostrare ora, poiché non è ancora qui. Posso solo mostrarti una sua immagine». Sembra quasi che io non possa spiegare interamente che cosa ho desiderato fino a quando ciò non è effettivamente accaduto. Naturalmente, però, non è così. In verità non è necessario che, dopo che il desiderio si è realizzato, io sia in grado di fornire una spiegazione migliore di ciò che ho desiderato rispetto a prima; perché è perfettamente possibile che io abbia mostrato Mr Smith al mio amico, e che gli abbia mostrato cosa significa «venire», e che gli abbia mostrato che cos’è la mia stanza, prima dell’arrivo nella mia stanza di Mr Smith.
Potremmo descrivere la nostra confusione così: in perfetto accordo con la nostra forma abituale di espressione pensiamo al fatto che desideriamo accada come a una cosa che non è ancora qui e che, perciò, non posso indicare. Per comprendere la grammatica della nostra espressione «oggetto del nostro desiderio» consideriamo semplicemente la risposta che diamo alla domanda: «Qual è l’oggetto del tuo desiderio?». La risposta a questa domanda naturalmente è «desidero che accada questo e questo.» Ma quale sarebbe la risposta se poi chiedessimo: «E qual è l’oggetto di questo desiderio?»? Potrebbe solo consistere in una ripetizione della nostra precedente espressione del desiderio, oppure in una traduzione in qualche altra forma d’espressione. Potremmo, per esempio, indicare ciò che desideravamo con altre parole o illustrarlo con un’immagine, ecc., ecc. Ora, quando abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’oggetto del nostro desiderio sia, per così dire, un uomo che non è ancora entrato nella nostra stanza e dunque non può ancora essere visto, immaginiamo che qualunque spiegazione di ciò che desideriamo sia soltanto la migliore alternativa alla spiegazione che ci mostrerebbe ''il fatto reale'', – che, temiamo, non può ancora essere {{BBB TS reference it|Ts-309,62}} mostrato poiché non è ancora entrato. – È come se dicessi a qualcuno «mi aspetto che arrivi Mr Smith» e lui mi chiedesse «chi è Mr Smith?» e io rispondessi: «Non te lo posso mostrare ora, poiché non è ancora qui. Posso solo mostrarti una sua immagine». Sembra quasi che io non possa spiegare interamente che cosa ho desiderato fino a quando ciò non è effettivamente accaduto. Naturalmente, però, non è così. In verità non è necessario che, dopo che il desiderio si è realizzato, io sia in grado di fornire una spiegazione migliore di ciò che ho desiderato rispetto a prima; perché è perfettamente possibile che io abbia mostrato Mr Smith al mio amico, e che gli abbia mostrato cosa significa «venire», e che gli abbia mostrato che cos’è la mia stanza, prima dell’arrivo nella mia stanza di Mr Smith.


La nostra difficoltà può essere posta così: pensiamo a cose, – ma come fanno queste cose a entrare nei nostri pensieri? Pensiamo a Mr Smith; ma Mr Smith non deve per forza essere presente. Una sua immagine non basta; come facciamo infatti a sapere chi rappresenta? In realtà, nessun suo sostituto basterà. Allora come può lui stesso essere un oggetto dei nostri pensieri? (Qui mi servo dell’espressione «oggetto del nostro pensiero» in un modo diverso da prima. Intendo una cosa ''a cui'' sto pensando, non «ciò che sto pensando».)
La nostra difficoltà può essere posta così: pensiamo a cose, – ma come fanno queste cose a entrare nei nostri pensieri? Pensiamo a Mr Smith; ma Mr Smith non deve per forza essere presente. Una sua immagine non basta; come facciamo infatti a sapere chi rappresenta? In realtà, nessun suo sostituto basterà. Allora come può lui stesso essere un oggetto dei nostri pensieri? (Qui mi servo dell’espressione «oggetto del nostro pensiero» in un modo diverso da prima. Intendo una cosa ''a cui'' sto pensando, non «ciò che sto pensando».)


Abbiamo detto che la connessione tra il nostro pensare o parlare di un uomo e l’uomo stesso è stata istituita quando, per spiegare il significato della locuzione «Mr Smith», abbiamo indicato costui, dicendo «questo è Mr Smith». Non c’è nulla di misterioso in questa connessione. Ossia, non c’è alcun atto mentale bizzarro che in qualche modo ha evocato Mr Smith nelle nostre menti quando in realtà {{BBB TS reference it|Ts-309,}}lui non c’è. Ciò che rende difficile vedere che la connessione è questa è una strana forma di espressione del linguaggio ordinario, la quale fa sembrare che la connessione tra il nostro pensiero (o l’espressione del nostro pensiero) e la cosa a cui pensiamo debba essere sussistita ''durante'' l’atto del pensare.
Abbiamo detto che la connessione tra il nostro pensare o parlare di un uomo e l’uomo stesso è stata istituita quando, per spiegare il significato della locuzione «Mr Smith», abbiamo indicato costui, dicendo «questo è Mr Smith». Non c’è nulla di misterioso in questa connessione. Ossia, non c’è alcun atto mentale bizzarro che in qualche modo ha evocato Mr Smith nelle nostre menti quando in realtà {{BBB TS reference it|Ts-309,63}} lui non c’è. Ciò che rende difficile vedere che la connessione è questa è una strana forma di espressione del linguaggio ordinario, la quale fa sembrare che la connessione tra il nostro pensiero (o l’espressione del nostro pensiero) e la cosa a cui pensiamo debba essere sussistita ''durante'' l’atto del pensare.


«Non è bizzarro che in Europa si dovrebbe essere in grado di intendere qualcuno che si trova in America?» – Se qualcuno ci avesse detto «Napoleone venne incoronato nel 1804» e noi gli chiedessimo «intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?», lui poi potrebbe dire «sì, intendevo lui». L’uso del tempo passato «intendevo» potrebbe dare l’impressione che, quando l’interlocutore ha detto che Napoleone venne incoronato nel 1804, l’idea di Napoleone in quanto vincitore della battaglia di Austerlitz dovesse essere presente nella sua mente.
«Non è bizzarro che in Europa si dovrebbe essere in grado di intendere qualcuno che si trova in America?» – Se qualcuno ci avesse detto «Napoleone venne incoronato nel 1804» e noi gli chiedessimo «intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?», lui poi potrebbe dire «sì, intendevo lui». L’uso del tempo passato «intendevo» potrebbe dare l’impressione che, quando l’interlocutore ha detto che Napoleone venne incoronato nel 1804, l’idea di Napoleone in quanto vincitore della battaglia di Austerlitz dovesse essere presente nella sua mente.
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Questo è in parte ciò che ci fa pensare all’intendere o al pensare come a una strana ''attività mentale''; dove la parola «mentale» indica che non dobbiamo aspettarci di comprendere come funzionano queste cose.
Questo è in parte ciò che ci fa pensare all’intendere o al pensare come a una strana ''attività mentale''; dove la parola «mentale» indica che non dobbiamo aspettarci di comprendere come funzionano queste cose.


Ciò che abbiamo detto riguardo al pensare può applicarsi anche all’immaginare. Qualcuno dice di immaginare che il King’s College stia bruciando. Gli chiediamo: «Come fai a sapere che è il ''King’s College'' che immagini stia bruciando? Non potrebbe essere un edificio diverso, ma molto simile? In {{BBB TS reference it|Ts-309,}}fondo, la tua immaginazione è davvero talmente esatta da escludere che vi sia una decina di edifici di cui la tua immagine potrebbe essere la rappresentazione?» – Tu però dici: «Non ci sono dubbi che immagino il King’s College e non un altro edificio». Ma non potrebbe essere proprio il dire così a creare la connessione che vogliamo? Dire così infatti è come scrivere le parole «Ritratto di tal dei tali» sotto un dipinto. Avrebbe potuto essere che, ''mentre'' immaginavi che il King’s College stesse bruciando, tu dicessi le parole «il King’s College sta bruciando». Ma in moltissimi casi, mentre hai l’immagine, non pronunci certo mentalmente parole esplicative. E considera che, anche se le pronunci, non compi l’intero tragitto tra la tua immagine e il King’s College, ma giungi solo fino alle parole «King’s College.» La connessione tra queste parole e il King’s College, forse, è stata istituita in un’altra occasione.
Ciò che abbiamo detto riguardo al pensare può applicarsi anche all’immaginare. Qualcuno dice di immaginare che il King’s College stia bruciando. Gli chiediamo: «Come fai a sapere che è il ''King’s College'' che immagini stia bruciando? Non potrebbe essere un edificio diverso, ma molto simile? In {{BBB TS reference it|Ts-309,64}} fondo, la tua immaginazione è davvero talmente esatta da escludere che vi sia una decina di edifici di cui la tua immagine potrebbe essere la rappresentazione?» – Tu però dici: «Non ci sono dubbi che immagino il King’s College e non un altro edificio». Ma non potrebbe essere proprio il dire così a creare la connessione che vogliamo? Dire così infatti è come scrivere le parole «Ritratto di tal dei tali» sotto un dipinto. Avrebbe potuto essere che, ''mentre'' immaginavi che il King’s College stesse bruciando, tu dicessi le parole «il King’s College sta bruciando». Ma in moltissimi casi, mentre hai l’immagine, non pronunci certo mentalmente parole esplicative. E considera che, anche se le pronunci, non compi l’intero tragitto tra la tua immagine e il King’s College, ma giungi solo fino alle parole «King’s College.» La connessione tra queste parole e il King’s College, forse, è stata istituita in un’altra occasione.


L’errore che siamo propensi a compiere in tutto il nostro ragionare su tali argomenti è pensare che immagini ed esperienze di ogni genere, che sono in qualche senso strettamente connesse le une alle altre, debbano essere contemporaneamente presenti nella nostra mente. Se cantiamo una melodia che sappiamo a memoria, o recitiamo l’alfabeto, le note e le lettere paiono tenersi assieme; ognuna sembra tirarsi dietro la successiva come se fossero perle dello stesso filo e tirandone fuori una ho tirato fuori quella che la seguiva.
L’errore che siamo propensi a compiere in tutto il nostro ragionare su tali argomenti è pensare che immagini ed esperienze di ogni genere, che sono in qualche senso strettamente connesse le une alle altre, debbano essere contemporaneamente presenti nella nostra mente. Se cantiamo una melodia che sappiamo a memoria, o recitiamo l’alfabeto, le note e le lettere paiono tenersi assieme; ognuna sembra tirarsi dietro la successiva come se fossero perle dello stesso filo e tirandone fuori una ho tirato fuori quella che la seguiva.


Non c’è dubbio che, vedendo l’immagine di un filo di perline che viene tirato fuori da una scatola attraverso un foro nel coperchio, io direi: «Queste perline prima dovevano tutte essere nella scatola». Ma è facile capire che questo è fare{{BBB TS reference it|Ts-309,}} un’ipotesi. Avrei visto la stessa immagine se le perline avessero gradualmente cominciato a esistere nel foro del coperchio. Trascuriamo facilmente la distinzione tra affermare un evento mentale conscio e fare un’ipotesi su ciò che si potrebbe chiamare il meccanismo della mente. A maggior ragione perché tali ipotesi o raffigurazioni del funzionamento della nostra mente sono incorporate in molte forme d’espressione del nostro linguaggio ordinario. Il tempo passato «intendevo» nella frase «intendevo colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz» è soltanto una parte di una tale raffigurazione, essendo la mente concepita come un luogo in cui ciò che ricordiamo è custodito, immagazzinato, prima che noi lo esprimiamo. Se fischietto una melodia che conosco bene e vengo interrotto a metà, e se poi qualcuno mi chiede «sapevi come continuare?», io dovrei rispondere «sì, lo sapevo». Che genere di processo è questo ''sapere come continuare''? Parrebbe che, mentre sapevo come continuare, l’intero prosieguo della melodia dovesse essere presente.
Non c’è dubbio che, vedendo l’immagine di un filo di perline che viene tirato fuori da una scatola attraverso un foro nel coperchio, io direi: «Queste perline prima dovevano tutte essere nella scatola». Ma è facile capire che questo è fare {{BBB TS reference it|Ts-309,65}} un’ipotesi. Avrei visto la stessa immagine se le perline avessero gradualmente cominciato a esistere nel foro del coperchio. Trascuriamo facilmente la distinzione tra affermare un evento mentale conscio e fare un’ipotesi su ciò che si potrebbe chiamare il meccanismo della mente. A maggior ragione perché tali ipotesi o raffigurazioni del funzionamento della nostra mente sono incorporate in molte forme d’espressione del nostro linguaggio ordinario. Il tempo passato «intendevo» nella frase «intendevo colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz» è soltanto una parte di una tale raffigurazione, essendo la mente concepita come un luogo in cui ciò che ricordiamo è custodito, immagazzinato, prima che noi lo esprimiamo. Se fischietto una melodia che conosco bene e vengo interrotto a metà, e se poi qualcuno mi chiede «sapevi come continuare?», io dovrei rispondere «sì, lo sapevo». Che genere di processo è questo ''sapere come continuare''? Parrebbe che, mentre sapevo come continuare, l’intero prosieguo della melodia dovesse essere presente.


Poniti una domanda come: «Quanto ci si mette a sapere come proseguire?». Oppure si tratta di un processo istantaneo? Non stiamo commettendo un errore simile al confondere l’esistenza del disco registrato di una melodia con l’esistenza della melodia? Non stiamo presupponendo che, ogniqualvolta una melodia viene a esistere, debba esserci una specie di disco registrato da cui essa è suonata?
Poniti una domanda come: «Quanto ci si mette a sapere come proseguire?». Oppure si tratta di un processo istantaneo? Non stiamo commettendo un errore simile al confondere l’esistenza del disco registrato di una melodia con l’esistenza della melodia? Non stiamo presupponendo che, ogniqualvolta una melodia viene a esistere, debba esserci una specie di disco registrato da cui essa è suonata?


Considera l’esempio seguente: in mia presenza si fa sparare una pistola e io dico: «Questo boato non è stato forte come me {{BBB TS reference it|Ts-309,}}l’aspettavo.» Qualcuno mi chiede: «Come è possibile? C’è stato un boato, più forte di quello della pistola, nella tua immaginazione?». Devo confessare che non c’è stato nulla di simile. Lui allora mi dice: «Quindi non ti aspettavi davvero un boato più forte, – bensì forse la sua ombra. – E come facevi a sapere che era l’ombra di un boato più forte?». – Vediamo che cosa, in un tale caso, potrebbe essere realmente accaduto. Magari attendendo lo scoppio ho aperto la bocca, ho afferrato qualcosa per sorreggermi e magari ho detto: «Sarà tremendo». Poi, quando la detonazione è cessata: «Dopo tutto, non è stato così forte». – Certe tensioni nel mio corpo si allentano. Ma qual è la connessione tra queste tensioni, il fatto di aprire la bocca, ecc., e un vero boato più forte? Magari questa connessione è stata istituita dal fatto di aver sentito un tale boato e di aver avuto l’esperienza citata.
Considera l’esempio seguente: in mia presenza si fa sparare una pistola e io dico: «Questo boato non è stato forte come me {{BBB TS reference it|Ts-309,66}} l’aspettavo». Qualcuno mi chiede: «Come è possibile? C’è stato un boato, più forte di quello della pistola, nella tua immaginazione?». Devo confessare che non c’è stato nulla di simile. Lui allora mi dice: «Quindi non ti aspettavi davvero un boato più forte, – bensì forse la sua ombra. – E come facevi a sapere che era l’ombra di un boato più forte?». – Vediamo che cosa, in un tale caso, potrebbe essere realmente accaduto. Magari attendendo lo scoppio ho aperto la bocca, ho afferrato qualcosa per sorreggermi e magari ho detto: «Sarà tremendo». Poi, quando la detonazione è cessata: «Dopo tutto, non è stato così forte». – Certe tensioni nel mio corpo si allentano. Ma qual è la connessione tra queste tensioni, il fatto di aprire la bocca, ecc., e un vero boato più forte? Magari questa connessione è stata istituita dal fatto di aver sentito un tale boato e di aver avuto l’esperienza citata.


Esamina espressioni quali: «avere in mente un’idea», «analizzare l’idea che si ha nella mente.». Per non lasciarti fuorviare da esse, osserva ciò che accade realmente quando, per esempio, scrivendo una lettera cerchi le parole che esprimono correttamente l’idea che hai «nella mente». Dire che cerchiamo di esprimere l’idea che abbiamo nella nostra mente è utilizzare una metafora, una metafora che ci si suggerisce naturalmente da sola; e che va bene finché non ci fuorvia mentre facciamo filosofia. Perché, quando rammentiamo ciò che accade realmente in tali casi, troviamo una gran varietà di processi più o meno simili l’uno all’altro. – Potremmo essere portati a dire che in tutte queste situazioni, in ogni caso, siamo ''guidati'' da qualcosa nella nostra mente. {{BBB TS reference it|Ts-309,}}Tuttavia, le parole «guidato» e «cosa nella nostra mente» sono impiegate in tanti sensi quanti quelli in cui sono impiegate le parole «idea» ed «espressione di un’idea».
Esamina espressioni quali: «avere in mente un’idea», «analizzare l’idea che si ha nella mente». Per non lasciarti fuorviare da esse, osserva ciò che accade realmente quando, per esempio, scrivendo una lettera cerchi le parole che esprimono correttamente l’idea che hai «nella mente». Dire che cerchiamo di esprimere l’idea che abbiamo nella nostra mente è utilizzare una metafora, una metafora che ci si suggerisce naturalmente da sola; e che va bene finché non ci fuorvia mentre facciamo filosofia. Perché, quando rammentiamo ciò che accade realmente in tali casi, troviamo una gran varietà di processi più o meno simili l’uno all’altro. – Potremmo essere portati a dire che in tutte queste situazioni, in ogni caso, siamo ''guidati'' da qualcosa nella nostra mente. {{BBB TS reference it|Ts-309,67}} Tuttavia, le parole «guidato» e «cosa nella nostra mente» sono impiegate in tanti sensi quanti quelli in cui sono impiegate le parole «idea» ed «espressione di un’idea».


La locuzione «esprimere un’idea che è nella nostra mente» suggerisce che ciò che stiamo cercando di esprimere a parole sia già espresso, soltanto in un diverso linguaggio; che questa espressione è davanti all’occhio della nostra mente; e che quel che facciamo è tradurre dal linguaggio mentale nel linguaggio verbale. Nella maggioranza dei casi che chiamiamo «esprimere un’idea, ecc.» però succede qualcosa di molto diverso. Immagina che cosa succede in casi come questo: sto cercando una parola. Mi si suggeriscono varie parole e io le rifiuto. Alla fine, se ne propone una e dico: «Ecco cosa intendevo!».
La locuzione «esprimere un’idea che è nella nostra mente» suggerisce che ciò che stiamo cercando di esprimere a parole sia già espresso, soltanto in un diverso linguaggio; che questa espressione è davanti all’occhio della nostra mente; e che quel che facciamo è tradurre dal linguaggio mentale nel linguaggio verbale. Nella maggioranza dei casi che chiamiamo «esprimere un’idea, ecc.» però succede qualcosa di molto diverso. Immagina che cosa succede in casi come questo: sto cercando una parola. Mi si suggeriscono varie parole e io le rifiuto. Alla fine, se ne propone una e dico: «Ecco cosa intendevo!».
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(Saremmo propensi a dire che la prova dell’impossibilità di trisecare l’angolo con riga e compasso analizza la nostra idea della trisezione di un angolo. Ma la dimostrazione ci dà una nuova idea di trisezione, di cui prima della costruzione della dimostrazione eravamo sprovvisti. La dimostrazione ci ha condotto lungo una strada ''che eravamo portati a prendere''; ma ci ha condotti lontano da dove eravamo e non ci ha soltanto mostrato chiaramente il luogo in cui eravamo rimasti tutto il tempo.)
(Saremmo propensi a dire che la prova dell’impossibilità di trisecare l’angolo con riga e compasso analizza la nostra idea della trisezione di un angolo. Ma la dimostrazione ci dà una nuova idea di trisezione, di cui prima della costruzione della dimostrazione eravamo sprovvisti. La dimostrazione ci ha condotto lungo una strada ''che eravamo portati a prendere''; ma ci ha condotti lontano da dove eravamo e non ci ha soltanto mostrato chiaramente il luogo in cui eravamo rimasti tutto il tempo.)


Ritorniamo al punto in cui abbiamo detto che non abbiamo guadagnato nulla presupponendo che un’ombra debba intervenire tra l’espressione del nostro pensiero e la realtà di cui il nostro pensiero si interessa. Abbiamo detto che, se volevamo un’immagine della realtà, la frase in sé costituisce già una tale immagine (non, però, {{BBB TS reference it|Ts-309,}}«una raffigurazione per somiglianza»).
Ritorniamo al punto in cui abbiamo detto che non abbiamo guadagnato nulla presupponendo che un’ombra debba intervenire tra l’espressione del nostro pensiero e la realtà di cui il nostro pensiero si interessa. Abbiamo detto che, se volevamo un’immagine della realtà, la frase in sé costituisce già una tale immagine (non, però, {{BBB TS reference it|Ts-309,68}} «una raffigurazione per somiglianza»).


Finora ho cercato di rimuovere la tentazione di pensare che «''debba'' esserci» ciò che si chiama un processo mentale del pensare, sperare, desiderare, credere, ecc. indipendente dal processo dell’esprimere un pensiero, una speranza, un desiderio, ecc. Voglio darti la seguente regola pratica: se provi sconcerto riguardo alla natura del pensiero, della credenza, della conoscenza e simili, rimpiazza il pensiero con l’espressione del pensiero, ecc. La difficoltà che risiede in questa sostituzione, e al contempo l’intero suo scopo, è qui: l’espressione della credenza, del pensiero, ecc. è solo una frase; – e la frase ha senso solo in quanto membro di un sistema di linguaggio; come un’espressione all’interno di un calcolo. Ora siamo tentati d’immaginare questo calcolo, per così dire, come uno sfondo permanente dietro ogni frase che diciamo, e di pensare che, anche se la frase per com’è scritta su un foglio o pronunciata è isolata, nell’atto mentale del pensare invece il calcolo è presente – tutto nel suo insieme. L’atto mentale sembra fare in una maniera miracolosa ciò che non potrebbe essere fatto da alcun atto di manipolazione di simboli. Quando la tentazione di pensare che in un certo senso l’intero calcolo dev’essere presente contemporaneamente svanisce, non c’è più bisogno di ''postulare'' l’esistenza di uno strano tipo di atto mentale che affianchi la nostra espressione. Ciò, naturalmente, non significa che abbiamo mostrato che strani atti di coscienza non accompagnino l’espressione dei nostri pensieri! Solamente non diciamo più che ''devono per forza'' accompagnarli. {{BBB TS reference it|Ts-309,}}
Finora ho cercato di rimuovere la tentazione di pensare che «''debba'' esserci» ciò che si chiama un processo mentale del pensare, sperare, desiderare, credere, ecc. indipendente dal processo dell’esprimere un pensiero, una speranza, un desiderio, ecc. Voglio darti la seguente regola pratica: se provi sconcerto riguardo alla natura del pensiero, della credenza, della conoscenza e simili, rimpiazza il pensiero con l’espressione del pensiero, ecc. La difficoltà che risiede in questa sostituzione, e al contempo l’intero suo scopo, è qui: l’espressione della credenza, del pensiero, ecc. è solo una frase; – e la frase ha senso solo in quanto membro di un sistema di linguaggio; come un’espressione all’interno di un calcolo. Ora siamo tentati d’immaginare questo calcolo, per così dire, come uno sfondo permanente dietro ogni frase che diciamo, e di pensare che, anche se la frase per com’è scritta su un foglio o pronunciata è isolata, nell’atto mentale del pensare invece il calcolo è presente – tutto nel suo insieme. L’atto mentale sembra fare in una maniera miracolosa ciò che non potrebbe essere fatto da alcun atto di manipolazione di simboli. Quando la tentazione di pensare che in un certo senso l’intero calcolo dev’essere presente contemporaneamente svanisce, non c’è più bisogno di ''postulare'' l’esistenza di uno strano tipo di atto mentale che affianchi la nostra espressione. Ciò, naturalmente, non significa che abbiamo mostrato che strani atti di coscienza non accompagnino l’espressione dei nostri pensieri! Solamente non diciamo più che ''devono per forza'' accompagnarli. {{BBB TS reference it|Ts-309,69}}


«Ma l’espressione dei nostri pensieri può sempre mentire, perché possiamo dire una cosa e intenderne un’altra.» Immagina le molte cose diverse che accadono quando diciamo una cosa e ne intendiamo un’altra! – Fa’ il seguente esperimento: pronuncia la frase «fa caldo in questa stanza» e intendi «fa freddo». Osserva attentamente ciò che stai facendo.
«Ma l’espressione dei nostri pensieri può sempre mentire, perché possiamo dire una cosa e intenderne un’altra.» Immagina le molte cose diverse che accadono quando diciamo una cosa e ne intendiamo un’altra! – Fa’ il seguente esperimento: pronuncia la frase «fa caldo in questa stanza» e intendi «fa freddo». Osserva attentamente ciò che stai facendo.
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Fa’ il seguente esperimento: di’ e intendi una frase, per esempio – «probabilmente domani pioverà». Ora pensa di nuovo lo stesso pensiero, intendi ciò che hai appena inteso, ma senza dire nulla (né ad alta voce né a te stesso). Se il pensare che domani pioverà ha accompagnato il dire che domani pioverà, allora compi solo la prima attività e rinuncia alla seconda. – Se pensare e parlare stessero nella relazione che c’è tra le parole e la melodia di una canzone, potremmo rinunciare a parlare e pensare e basta, proprio come possiamo cantare la melodia senza le parole.
Fa’ il seguente esperimento: di’ e intendi una frase, per esempio – «probabilmente domani pioverà». Ora pensa di nuovo lo stesso pensiero, intendi ciò che hai appena inteso, ma senza dire nulla (né ad alta voce né a te stesso). Se il pensare che domani pioverà ha accompagnato il dire che domani pioverà, allora compi solo la prima attività e rinuncia alla seconda. – Se pensare e parlare stessero nella relazione che c’è tra le parole e la melodia di una canzone, potremmo rinunciare a parlare e pensare e basta, proprio come possiamo cantare la melodia senza le parole.


Ma non si può, in ogni caso, parlare e basta, rinunciando a pensare? {{BBB TS reference it|Ts-309,}}Certamente, – ma osserva che genere di cosa stai facendo se parli senza pensare. Osserva innanzitutto che a distinguere il processo che potremmo chiamare «parlare e intendere ciò che si dice» da quello di parlare senza pensare non è necessariamente ciò che accade ''mentre tu parli''. Ciò che distingue le due cose potrebbe benissimo essere ciò che accade prima o dopo che tu parli.
Ma non si può, in ogni caso, parlare e basta, rinunciando a pensare? {{BBB TS reference it|Ts-309,70}} Certamente, – ma osserva che genere di cosa stai facendo se parli senza pensare. Osserva innanzitutto che a distinguere il processo che potremmo chiamare «parlare e intendere ciò che si dice» da quello di parlare senza pensare non è necessariamente ciò che accade ''mentre tu parli''. Ciò che distingue le due cose potrebbe benissimo essere ciò che accade prima o dopo che tu parli.


Supponi che io provi, deliberatamente, a parlare senza pensare; – concretamente, che cosa farei? Potrei leggere una frase da un libro, cercare di leggerla automaticamente, ossia tentando di impedirmi di seguire la frase con le immagini e sensazioni che altrimenti essa produrrebbe. Un modo di farlo consisterebbe nel concentrare l’attenzione su qualcos’altro mentre pronuncio la frase, per esempio dandomi un bel pizzicotto mentre la pronuncio. – Mettiamola così: pronunciare una frase senza pensare consiste nell’accendere l’eloquio e nello spegnere certi accompagnamenti dell’eloquio. Ora chiediti: pensare la frase senza pronunciarla consiste nel girare l’interruttore (accendendo ciò che prima abbiamo spento e viceversa)? Ossia: pensare la frase senza pronunciarla consiste semplicemente nel tenere acceso ciò che accompagnava le parole ma rinunciando alle parole? Prova a pensare i pensieri di una frase senza la frase e vedi se è questo ciò che accade.
Supponi che io provi, deliberatamente, a parlare senza pensare; – concretamente, che cosa farei? Potrei leggere una frase da un libro, cercare di leggerla automaticamente, ossia tentando di impedirmi di seguire la frase con le immagini e sensazioni che altrimenti essa produrrebbe. Un modo di farlo consisterebbe nel concentrare l’attenzione su qualcos’altro mentre pronuncio la frase, per esempio dandomi un bel pizzicotto mentre la pronuncio. – Mettiamola così: pronunciare una frase senza pensare consiste nell’accendere l’eloquio e nello spegnere certi accompagnamenti dell’eloquio. Ora chiediti: pensare la frase senza pronunciarla consiste nel girare l’interruttore (accendendo ciò che prima abbiamo spento e viceversa)? Ossia: pensare la frase senza pronunciarla consiste semplicemente nel tenere acceso ciò che accompagnava le parole ma rinunciando alle parole? Prova a pensare i pensieri di una frase senza la frase e vedi se è questo ciò che accade.


Tiriamo le somme: se vagliamo gli utilizzi che facciamo di parole quali «pensare», «intendere», «desiderare», ecc., {{BBB TS reference it|Ts-309,}}lo svolgimento di un tale processo ci sbarazza della tentazione di cercare un atto caratteristico del pensare, indipendente dall’atto di esprimere i nostri pensieri e clandestinamente riposto in qualche strano mezzo. Le forme stabilite di espressione non ci impediscono più di riconoscere che l’esperienza di pensare ''può'' essere solo l’esperienza di dire, o può consistere di quest’esperienza più altre che l’accompagnano.  (È utile anche esaminare il caso seguente: supponi che una moltiplicazione faccia parte di una frase; chiediti che cosa comporti il dire la moltiplicazione «7 × 5 = 35» pensandola e, invece, il dirla senza pensarla.) Il vaglio della grammatica di una parola indebolisce la posizione di certi standard della nostra espressione che ci impedivano di vedere i fatti con una prospettiva imparziale. Le nostre ricerche hanno tentato di rimuovere tale parzialità, che ci costringe a pensare che i fatti ''debbano'' conformarsi a certe immagini incorporate nel nostro linguaggio.
Tiriamo le somme: se vagliamo gli utilizzi che facciamo di parole quali «pensare», «intendere», «desiderare», ecc., {{BBB TS reference it|Ts-309,71}} lo svolgimento di un tale processo ci sbarazza della tentazione di cercare un atto caratteristico del pensare, indipendente dall’atto di esprimere i nostri pensieri e clandestinamente riposto in qualche strano mezzo. Le forme stabilite di espressione non ci impediscono più di riconoscere che l’esperienza di pensare ''può'' essere solo l’esperienza di dire, o può consistere di quest’esperienza più altre che l’accompagnano.  (È utile anche esaminare il caso seguente: supponi che una moltiplicazione faccia parte di una frase; chiediti che cosa comporti il dire la moltiplicazione «7 × 5 = 35» pensandola e, invece, il dirla senza pensarla.) Il vaglio della grammatica di una parola indebolisce la posizione di certi standard della nostra espressione che ci impedivano di vedere i fatti con una prospettiva imparziale. Le nostre ricerche hanno tentato di rimuovere tale parzialità, che ci costringe a pensare che i fatti ''debbano'' conformarsi a certe immagini incorporate nel nostro linguaggio.


«Intendere» è una delle parole di cui si può dire che svolgono uno strano lavoro nel nostro linguaggio. Sono queste parole a causare buona parte dei grattacapi filosofici. Immagina un’istituzione in cui la maggioranza dei membri esercita certe funzioni regolari, funzioni che possono essere facilmente descritte, poniamo, negli statuti dell’istituzione. Ci sono, tuttavia, alcuni membri a cui vengono assegnati lavori strani, che possono comunque essere di grande importanza. – Ciò che causa la maggior parte degli inciampi filosofici è il fatto che siamo tentati di descrivere l’uso di importanti parole dai «lavori strani» come se fossero parole con funzioni normali.{{BBB TS reference it|Ts-309,}}
«Intendere» è una delle parole di cui si può dire che svolgono uno strano lavoro nel nostro linguaggio. Sono queste parole a causare buona parte dei grattacapi filosofici. Immagina un’istituzione in cui la maggioranza dei membri esercita certe funzioni regolari, funzioni che possono essere facilmente descritte, poniamo, negli statuti dell’istituzione. Ci sono, tuttavia, alcuni membri a cui vengono assegnati lavori strani, che possono comunque essere di grande importanza. – Ciò che causa la maggior parte degli inciampi filosofici è il fatto che siamo tentati di descrivere l’uso di importanti parole dai «lavori strani» come se fossero parole con funzioni normali. {{BBB TS reference it|Ts-309,72}}


La ragione per cui non ho parlato subito di esperienze personali è che pensare a questo argomento solleva una serie di difficoltà filosofiche che minacciano di mandare in pezzi tutte le nostre nozioni di senso comune riguardo a ciò che comunemente chiamiamo gli oggetti della nostra esperienza. Venendo colpiti da questi problemi avremmo l’impressione che tutto quello che abbiamo detto sui segni e sui vari oggetti che abbiamo menzionato nei nostri esempi debba rientrare in questo calderone.
La ragione per cui non ho parlato subito di esperienze personali è che pensare a questo argomento solleva una serie di difficoltà filosofiche che minacciano di mandare in pezzi tutte le nostre nozioni di senso comune riguardo a ciò che comunemente chiamiamo gli oggetti della nostra esperienza. Venendo colpiti da questi problemi avremmo l’impressione che tutto quello che abbiamo detto sui segni e sui vari oggetti che abbiamo menzionato nei nostri esempi debba rientrare in questo calderone.
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Per descrivere tale situazione, in un certo senso tipica dello studio della filosofia, talvolta si è detto che nessun problema filosofico può essere risolto fino a quando non sono risolti tutti i problemi filosofici; ciò significa che fino a quando non sono risolti tutti, ogni nuova difficoltà rende passibili di dubbio tutti i risultati precedentemente conseguiti. Parlando in termini così generali, a una simile affermazione si può rispondere solo in maniera approssimativa: cioè dicendo che ogni nuovo problema può mettere in dubbio la ''posizione'' che i risultati parziali dovrebbero occupare nel quadro finale. Poi si parlerà di dover reinterpretare tali risultati; io risponderei: devono essere posti in un diverso ambiente.
Per descrivere tale situazione, in un certo senso tipica dello studio della filosofia, talvolta si è detto che nessun problema filosofico può essere risolto fino a quando non sono risolti tutti i problemi filosofici; ciò significa che fino a quando non sono risolti tutti, ogni nuova difficoltà rende passibili di dubbio tutti i risultati precedentemente conseguiti. Parlando in termini così generali, a una simile affermazione si può rispondere solo in maniera approssimativa: cioè dicendo che ogni nuovo problema può mettere in dubbio la ''posizione'' che i risultati parziali dovrebbero occupare nel quadro finale. Poi si parlerà di dover reinterpretare tali risultati; io risponderei: devono essere posti in un diverso ambiente.


Immagina che dobbiamo mettere in ordine i libri di una biblioteca. Quando cominciamo, i libri giacciono alla rinfusa sul pavimento. Ci sarebbero molti modi di ordinarli e metterli al loro posto. Si potrebbero prendere i libri uno per uno e metterli uno alla volta al posto giusto sullo scaffale. Oppure {{BBB TS reference it|Ts-309,}}potremmo raccogliere vari libri dal pavimento e metterli in fila su uno scaffale, soltanto per indicare che dovrebbero stare assieme in quell’ordine. Man mano che mettiamo in ordine la biblioteca, questa fila di libri dovrà tutta intera essere spostata altrove. Sarebbe però sbagliato dire che metterli assieme su uno scaffale, allora, non era compiere un passo verso il risultato finale. In questo caso, infatti, è piuttosto ovvio che aver messo assieme dei libri che dovevano stare assieme è stato un evidente successo, anche se l’intera fila ha poi dovuto essere spostata. Alcuni dei maggiori successi della filosofia però potrebbero essere paragonati soltanto all’atto di prendere alcuni libri che sembravano dover stare assieme e di disporli tutti su scaffali diversi; senza che nulla risulti definitivo circa la loro posizione tranne il fatto che non stanno più l’uno accanto all’altro. L’osservatore che non conosce la difficoltà del compito, in tal caso, potrebbe ben pensare che non sia stato conseguito alcun successo. – La difficoltà in filosofia consiste nel non dire più di quanto si sa. Per esempio, nel vedere che quando abbiamo messo due libri assieme nel loro giusto ordine non li abbiamo perciò disposti nelle loro posizioni definitive.
Immagina che dobbiamo mettere in ordine i libri di una biblioteca. Quando cominciamo, i libri giacciono alla rinfusa sul pavimento. Ci sarebbero molti modi di ordinarli e metterli al loro posto. Si potrebbero prendere i libri uno per uno e metterli uno alla volta al posto giusto sullo scaffale. Oppure {{BBB TS reference it|Ts-309,73}} potremmo raccogliere vari libri dal pavimento e metterli in fila su uno scaffale, soltanto per indicare che dovrebbero stare assieme in quell’ordine. Man mano che mettiamo in ordine la biblioteca, questa fila di libri dovrà tutta intera essere spostata altrove. Sarebbe però sbagliato dire che metterli assieme su uno scaffale, allora, non era compiere un passo verso il risultato finale. In questo caso, infatti, è piuttosto ovvio che aver messo assieme dei libri che dovevano stare assieme è stato un evidente successo, anche se l’intera fila ha poi dovuto essere spostata. Alcuni dei maggiori successi della filosofia però potrebbero essere paragonati soltanto all’atto di prendere alcuni libri che sembravano dover stare assieme e di disporli tutti su scaffali diversi; senza che nulla risulti definitivo circa la loro posizione tranne il fatto che non stanno più l’uno accanto all’altro. L’osservatore che non conosce la difficoltà del compito, in tal caso, potrebbe ben pensare che non sia stato conseguito alcun successo. – La difficoltà in filosofia consiste nel non dire più di quanto si sa. Per esempio, nel vedere che quando abbiamo messo due libri assieme nel loro giusto ordine non li abbiamo perciò disposti nelle loro posizioni definitive.


Quando pensiamo alla relazione degli oggetti che ci circondano con l’esperienza personale che noi ne facciamo, talvolta siamo tentati di dire che queste esperienze personali sono il materiale di cui è fatta la realtà. Come sorge tale tentazione diventerà chiaro in seguito.
Quando pensiamo alla relazione degli oggetti che ci circondano con l’esperienza personale che noi ne facciamo, talvolta siamo tentati di dire che queste esperienze personali sono il materiale di cui è fatta la realtà. Come sorge tale tentazione diventerà chiaro in seguito.


Quando pensiamo così, abbiamo l’impressione di perdere la nostra salda presa sugli oggetti che ci circondano. E invece ci rimangono {{BBB TS reference it|Ts-309,}}molte esperienze personali separate di individui. Queste esperienze personali, di nuovo, sembrano vaghe e in costante flusso. Il nostro linguaggio non pare essere stato concepito per descriverle. Siamo tentati di pensare che, per poter chiarire tali questioni filosoficamente, il linguaggio ordinario è troppo rozzo, che ci serve un linguaggio più sottile.
Quando pensiamo così, abbiamo l’impressione di perdere la nostra salda presa sugli oggetti che ci circondano. E invece ci rimangono {{BBB TS reference it|Ts-309,74}} molte esperienze personali separate di individui. Queste esperienze personali, di nuovo, sembrano vaghe e in costante flusso. Il nostro linguaggio non pare essere stato concepito per descriverle. Siamo tentati di pensare che, per poter chiarire tali questioni filosoficamente, il linguaggio ordinario è troppo rozzo, che ci serve un linguaggio più sottile.


Ci pare di aver fatto una scoperta – che potrei descrivere dicendo che il terreno su cui stavamo e che sembrava solido e affidabile si è rivelato acquitrinoso e malsicuro. – Cioè, questo accade quando filosofiamo; perché non appena torniamo al punto di vista del senso comune una simile incertezza ''generale'' scompare.
Ci pare di aver fatto una scoperta – che potrei descrivere dicendo che il terreno su cui stavamo e che sembrava solido e affidabile si è rivelato acquitrinoso e malsicuro. – Cioè, questo accade quando filosofiamo; perché non appena torniamo al punto di vista del senso comune una simile incertezza ''generale'' scompare.


Questa bizzarra situazione può essere in parte chiarita con un esempio; anzi, con una specie di parabola che illustra la difficoltà in cui ci troviamo e che mostra inoltre la via di uscita da difficoltà di questo genere: i divulgatori scientifici ci hanno detto che il pavimento su cui camminiamo non è solido, come appare al senso comune, poiché si è scoperto che il legno consiste di uno spazio riempito da particelle tanto rade che potremmo quasi considerarlo vuoto. Ciò potrebbe sconcertarci, perché naturalmente in un certo senso sappiamo che il pavimento è solido o che, se non lo è, questo potrebbe dipendere dalla sua eventuale marcescenza, ma non dal fatto che è composto di elettroni. Affermare, per quest’ultimo motivo, che il pavimento non è solido è usare il linguaggio in modo improprio. Perché anche se le particelle fossero grandi come granelli di sabbia e vicine l’una all’altra come i granelli tra loro in un mucchio di sabbia, il {{BBB TS reference it|Ts-309,}}pavimento non sarebbe comunque solido se fosse composto da tali particelle nel modo in cui un mucchio di sabbia è fatto di granelli. La nostra perplessità era fondata su un malinteso; l’immagine dello spazio pressoché vuoto era stata ''applicata'' a sproposito. Poiché tale immagine della struttura della materia era intesa a spiegare proprio il fenomeno della sua solidità.
Questa bizzarra situazione può essere in parte chiarita con un esempio; anzi, con una specie di parabola che illustra la difficoltà in cui ci troviamo e che mostra inoltre la via di uscita da difficoltà di questo genere: i divulgatori scientifici ci hanno detto che il pavimento su cui camminiamo non è solido, come appare al senso comune, poiché si è scoperto che il legno consiste di uno spazio riempito da particelle tanto rade che potremmo quasi considerarlo vuoto. Ciò potrebbe sconcertarci, perché naturalmente in un certo senso sappiamo che il pavimento è solido o che, se non lo è, questo potrebbe dipendere dalla sua eventuale marcescenza, ma non dal fatto che è composto di elettroni. Affermare, per quest’ultimo motivo, che il pavimento non è solido è usare il linguaggio in modo improprio. Perché anche se le particelle fossero grandi come granelli di sabbia e vicine l’una all’altra come i granelli tra loro in un mucchio di sabbia, il {{BBB TS reference it|Ts-309,75}} pavimento non sarebbe comunque solido se fosse composto da tali particelle nel modo in cui un mucchio di sabbia è fatto di granelli. La nostra perplessità era fondata su un malinteso; l’immagine dello spazio pressoché vuoto era stata ''applicata'' a sproposito. Poiché tale immagine della struttura della materia era intesa a spiegare proprio il fenomeno della sua solidità.


Come in quest’esempio la parola «solidità» è stata utilizzata a sproposito e sembrava che avessimo mostrato che nulla era realmente solido, ugualmente, nell’affermare le nostre perplessità riguardo alla ''vaghezza generale'' dell’esperienza sensoriale e al flusso di tutti i fenomeni, impieghiamo le parole «flusso» e «vaghezza» a sproposito, in maniera tipicamente metafisica, ossia senza un’antitesi; mentre nell’impiego corretto e quotidiano, la vaghezza si contrappone alla chiarezza, il flusso alla stabilità, l’imprecisione alla precisione, e il ''problema'' alla ''soluzione''. Persino la parola «problema», si potrebbe dire, è applicata malamente a proposito dei grattacapi filosofici. Queste difficoltà, fintantoché sembrano problemi, sono stuzzicanti e appaiono insolubili.
Come in quest’esempio la parola «solidità» è stata utilizzata a sproposito e sembrava che avessimo mostrato che nulla era realmente solido, ugualmente, nell’affermare le nostre perplessità riguardo alla ''vaghezza generale'' dell’esperienza sensoriale e al flusso di tutti i fenomeni, impieghiamo le parole «flusso» e «vaghezza» a sproposito, in maniera tipicamente metafisica, ossia senza un’antitesi; mentre nell’impiego corretto e quotidiano, la vaghezza si contrappone alla chiarezza, il flusso alla stabilità, l’imprecisione alla precisione, e il ''problema'' alla ''soluzione''. Persino la parola «problema», si potrebbe dire, è applicata malamente a proposito dei grattacapi filosofici. Queste difficoltà, fintantoché sembrano problemi, sono stuzzicanti e appaiono insolubili.
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Ho la tentazione di dire che solo la mia esperienza è reale: «So che vedo, sento, provo dolore, ecc. ma non che ciò accada a qualcun altro. Questo non posso saperlo, perché io sono io e loro sono loro».
Ho la tentazione di dire che solo la mia esperienza è reale: «So che vedo, sento, provo dolore, ecc. ma non che ciò accada a qualcun altro. Questo non posso saperlo, perché io sono io e loro sono loro».


D’altra parte, mi vergogno a dire a qualcuno che la mia esperienza è l’unica reale; e so che l’interlocutore mi risponderà che potrebbe affermare esattamente lo stesso della propria esperienza. Ciò pare condurci a uno sciocco cavillo. Inoltre, {{BBB TS reference it|Ts-309,}}mi si dice: «Se provi compassione per il dolore di un altro, di certo devi perlomeno ''credere'' che costui provi dolore». Ma come posso mai ''credere'' ciò? Come possono queste parole avere un senso per me? Come potrei anche solo essermi fatto l’idea dell’esperienza di un altro se di essa non è nemmeno possibile alcuna evidenza?
D’altra parte, mi vergogno a dire a qualcuno che la mia esperienza è l’unica reale; e so che l’interlocutore mi risponderà che potrebbe affermare esattamente lo stesso della propria esperienza. Ciò pare condurci a uno sciocco cavillo. Inoltre, {{BBB TS reference it|Ts-309,76}} mi si dice: «Se provi compassione per il dolore di un altro, di certo devi perlomeno ''credere'' che costui provi dolore». Ma come posso mai ''credere'' ciò? Come possono queste parole avere un senso per me? Come potrei anche solo essermi fatto l’idea dell’esperienza di un altro se di essa non è nemmeno possibile alcuna evidenza?


Ma non era questa una domanda bizzarra da porre? ''Non posso'' credere che qualcun altro abbia dei dolori? Non è facilissimo crederlo? – È una riposta dire che le cose sono come appaiono al senso comune? – Di nuovo, non c’è bisogno di dirlo, non sentiamo simili difficoltà nella vita ordinaria. Né sarebbe vera l’affermazione che le sentiamo quando analizziamo le nostre esperienze mediante l’introspezione, o quando le investighiamo scientificamente. In qualche modo però, quando osserviamo le nostre esperienze in un certo modo, la nostra espressione tende a ingarbugliarsi. Abbiamo l’impressione di non avere i pezzi giusti per completare il puzzle, o di non averli tutti. Ma ci sono tutti, solo che sono tutti mischiati; e tra il puzzle e il presente caso c’è un’altra analogia: non serve a nulla tentare di far combaciare i pezzi a forza. Tutto ciò che dovremmo fare è guardarli ''attentamente'' e sistemarli.{{BBB TS reference it|Ts-309,}}
Ma non era questa una domanda bizzarra da porre? ''Non posso'' credere che qualcun altro abbia dei dolori? Non è facilissimo crederlo? – È una riposta dire che le cose sono come appaiono al senso comune? – Di nuovo, non c’è bisogno di dirlo, non sentiamo simili difficoltà nella vita ordinaria. Né sarebbe vera l’affermazione che le sentiamo quando analizziamo le nostre esperienze mediante l’introspezione, o quando le investighiamo scientificamente. In qualche modo però, quando osserviamo le nostre esperienze in un certo modo, la nostra espressione tende a ingarbugliarsi. Abbiamo l’impressione di non avere i pezzi giusti per completare il puzzle, o di non averli tutti. Ma ci sono tutti, solo che sono tutti mischiati; e tra il puzzle e il presente caso c’è un’altra analogia: non serve a nulla tentare di far combaciare i pezzi a forza. Tutto ciò che dovremmo fare è guardarli ''attentamente'' e sistemarli. {{BBB TS reference it|Ts-309,77}}


Ci sono proposizioni di cui possiamo dire che descrivono fatti nel mondo materiale (mondo esterno). Approssimativamente, trattano di oggetti fisici; corpi, fluidi, ecc. Non sto pensando in particolare alle leggi delle scienze naturali, ma a qualunque proposizione come «i tulipani nel nostro giardino sono in piena fioritura», oppure «Smith arriverà da un momento all’altro». D’altro canto, ci sono proposizioni che descrivono esperienze personali, come quando il soggetto in un esperimento psicologico descrive le proprie esperienze sensoriali; per esempio, la sua esperienza visiva, indipendente da quali corpi sono effettivamente davanti ai suoi occhi e, nota bene, indipendente anche da qualunque processo che potrebbe essere osservato in atto nella sua retina, nei suoi nervi, nel suo cervello o in altre parti del suo corpo. (Cioè, indipendente da fatti sia fisici sia fisiologici.)
Ci sono proposizioni di cui possiamo dire che descrivono fatti nel mondo materiale (mondo esterno). Approssimativamente, trattano di oggetti fisici; corpi, fluidi, ecc. Non sto pensando in particolare alle leggi delle scienze naturali, ma a qualunque proposizione come «i tulipani nel nostro giardino sono in piena fioritura», oppure «Smith arriverà da un momento all’altro». D’altro canto, ci sono proposizioni che descrivono esperienze personali, come quando il soggetto in un esperimento psicologico descrive le proprie esperienze sensoriali; per esempio, la sua esperienza visiva, indipendente da quali corpi sono effettivamente davanti ai suoi occhi e, nota bene, indipendente anche da qualunque processo che potrebbe essere osservato in atto nella sua retina, nei suoi nervi, nel suo cervello o in altre parti del suo corpo. (Cioè, indipendente da fatti sia fisici sia fisiologici.)


A prima vista può sembrare (il perché però può chiarirsi solo in seguito) che qui abbiamo due tipi di mondi, mondi fatti di materiali diversi; un mondo mentale e un mondo fisico. Il mondo mentale in effetti può essere immaginato come gassoso o anzi etereo. E qui permettimi ti ricordarti il ruolo bizzarro svolto dal gassoso e dall’etereo in filosofia, – quando percepiamo che un sostantivo non è utilizzato come ciò che in generale chiameremmo il nome di un oggetto, e quando dunque non possiamo fare a meno di dire a noi stessi che è il nome di un oggetto etereo. Cioè, conosciamo già l’idea di «oggetti eterei» in quanto sotterfugio, quando siamo in imbarazzo circa la grammatica di certe parole{{BBB TS reference it|Ts-309,}} e sappiamo soltanto che non sono usate come nomi di oggetti materiali. Questo è un indizio su come il problema dei due materiali, ''mente'' e ''materia'', finirà per dissolversi.
A prima vista può sembrare (il perché però può chiarirsi solo in seguito) che qui abbiamo due tipi di mondi, mondi fatti di materiali diversi; un mondo mentale e un mondo fisico. Il mondo mentale in effetti può essere immaginato come gassoso o anzi etereo. E qui permettimi ti ricordarti il ruolo bizzarro svolto dal gassoso e dall’etereo in filosofia, – quando percepiamo che un sostantivo non è utilizzato come ciò che in generale chiameremmo il nome di un oggetto, e quando dunque non possiamo fare a meno di dire a noi stessi che è il nome di un oggetto etereo. Cioè, conosciamo già l’idea di «oggetti eterei» in quanto sotterfugio, quando siamo in imbarazzo circa la grammatica di certe parole {{BBB TS reference it|Ts-309,78}} e sappiamo soltanto che non sono usate come nomi di oggetti materiali. Questo è un indizio su come il problema dei due materiali, ''mente'' e ''materia'', finirà per dissolversi.


Talvolta si ha l’impressione che i fenomeni dell’esperienza personale siano in un certo senso fenomeni che hanno luogo negli strati più alti dell’atmosfera, in contrapposizione ai fenomeni materiali che accadono al livello del suolo. Ci sono prospettive secondo cui tali fenomeni negli strati più alti sorgono quando i fenomeni materiali raggiungono un certo grado di complessità. Per esempio, che i fenomeni mentali, l’esperienza sensoriale, la volizione, ecc. emergono una volta che si è evoluto un tipo di corpo animale di una certa complessità. Pare esserci in questo una qualche verità ovvia, poiché l’ameba certamente non parla né scrive né dibatte, mentre noi sì. D’altro canto, qui sorge il problema che potrebbe esprimersi con la domanda: «È possibile per una macchina pensare?» (sia che l’azione di questa macchina possa essere prevista dalle leggi della fisica oppure, eventualmente, solo da leggi di un altro tipo che valgono per il comportamento degli organismi). Il grattacapo espresso in tale domanda non consiste in realtà nel fatto che non conosciamo ancora una macchina in grado di svolgere un tale compito. La domanda non è analoga a quella che qualcuno avrebbe potuto fare un secolo fa: «Può una macchina liquefare un gas?». Il grattacapo consiste invece nel fatto che la frase «una macchina pensa» (percepisce, desidera) sembra in qualche modo priva di senso. È come se avessimo chiesto: «Il numero 3 ha un colore?». («Che colore potrebbe essere, visto che ovviamente{{BBB TS reference it|Ts-309,}} non ha nessuno dei colori a noi noti?») Perché in un aspetto della questione, l’esperienza personale, lungi dall’essere il ''prodotto'' di processi fisici, chimici, fisiologici, pare essere la ''base'' stessa di qualunque cosa sensata noi diciamo riguardo a tali processi. Guardando la cosa da questo punto di vista siamo portati a usare la nostra idea di un materiale da costruzione in un’altra maniera fuorviante ancora, e a dire quindi che il mondo intero, mentale e fisico, è fatto di un materiale soltanto.
Talvolta si ha l’impressione che i fenomeni dell’esperienza personale siano in un certo senso fenomeni che hanno luogo negli strati più alti dell’atmosfera, in contrapposizione ai fenomeni materiali che accadono al livello del suolo. Ci sono prospettive secondo cui tali fenomeni negli strati più alti sorgono quando i fenomeni materiali raggiungono un certo grado di complessità. Per esempio, che i fenomeni mentali, l’esperienza sensoriale, la volizione, ecc. emergono una volta che si è evoluto un tipo di corpo animale di una certa complessità. Pare esserci in questo una qualche verità ovvia, poiché l’ameba certamente non parla né scrive né dibatte, mentre noi sì. D’altro canto, qui sorge il problema che potrebbe esprimersi con la domanda: «È possibile per una macchina pensare?» (sia che l’azione di questa macchina possa essere prevista dalle leggi della fisica oppure, eventualmente, solo da leggi di un altro tipo che valgono per il comportamento degli organismi). Il grattacapo espresso in tale domanda non consiste in realtà nel fatto che non conosciamo ancora una macchina in grado di svolgere un tale compito. La domanda non è analoga a quella che qualcuno avrebbe potuto fare un secolo fa: «Può una macchina liquefare un gas?». Il grattacapo consiste invece nel fatto che la frase «una macchina pensa» (percepisce, desidera) sembra in qualche modo priva di senso. È come se avessimo chiesto: «Il numero 3 ha un colore?». («Che colore potrebbe essere, visto che ovviamente {{BBB TS reference it|Ts-309,79}} non ha nessuno dei colori a noi noti?») Perché in un aspetto della questione, l’esperienza personale, lungi dall’essere il ''prodotto'' di processi fisici, chimici, fisiologici, pare essere la ''base'' stessa di qualunque cosa sensata noi diciamo riguardo a tali processi. Guardando la cosa da questo punto di vista siamo portati a usare la nostra idea di un materiale da costruzione in un’altra maniera fuorviante ancora, e a dire quindi che il mondo intero, mentale e fisico, è fatto di un materiale soltanto.


Quando guardiamo a tutto ciò che sappiamo e possiamo dire sul mondo come fondato sull’esperienza personale, allora ciò che sappiamo sembra perdere buona parte del suo valore, della sua affidabilità e della sua solidità. Siamo allora portati a dire che è tutto «soggettivo»; e «soggettivo» è utilizzato dispregiativamente, come quando diciamo che un’opinione è ''meramente'' soggettiva, una questione di gusto. Ora, il fatto che ciò sembri scuotere l’autorità dell’esperienza e della conoscenza indica che qui il nostro linguaggio ci induce nella tentazione di tracciare qualche analogia fuorviante. Ciò dovrebbe rammentarci il caso in cui il divulgatore scientifico sembrava averci mostrato che il pavimento su cui camminiamo non è davvero solido perché fatto di elettroni.
Quando guardiamo a tutto ciò che sappiamo e possiamo dire sul mondo come fondato sull’esperienza personale, allora ciò che sappiamo sembra perdere buona parte del suo valore, della sua affidabilità e della sua solidità. Siamo allora portati a dire che è tutto «soggettivo»; e «soggettivo» è utilizzato dispregiativamente, come quando diciamo che un’opinione è ''meramente'' soggettiva, una questione di gusto. Ora, il fatto che ciò sembri scuotere l’autorità dell’esperienza e della conoscenza indica che qui il nostro linguaggio ci induce nella tentazione di tracciare qualche analogia fuorviante. Ciò dovrebbe rammentarci il caso in cui il divulgatore scientifico sembrava averci mostrato che il pavimento su cui camminiamo non è davvero solido perché fatto di elettroni.
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Ci ritroviamo a combattere i problemi causati dal nostro modo di esprimerci.
Ci ritroviamo a combattere i problemi causati dal nostro modo di esprimerci.


Un altro di questi grattacapi, strettamente imparentato con il precedente, è espresso nella frase: «Posso sapere solo che io ho esperienze personali, non che ce le ha qualcun altro». – Che qualcun altro abbia esperienze personali andrebbe quindi considerata un’ipotesi non necessaria? – Ma è davvero un’ipotesi? Come faccio a fare {{BBB TS reference it|Ts-309,}}l’ipotesi, se essa trascende ogni possibile esperienza? Come potrebbe tale ipotesi essere garantita dal significato? (Non sarebbe come cartamoneta non garantita dall’oro?) – È inutile che qualcuno ci dica che, anche se non sappiamo se il prossimo prova dolore, certamente lo crediamo quando, per esempio, lo compatiamo. Certamente non lo compatiremmo se non credessimo che prova dolore; ma questa è una credenza filosofica, metafisica: un realista mi compatisce più di un idealista o di un solipsista? – Infatti, il solipsista chiede: «Come ''possiamo'' credere che un altro provi dolore? Che cosa significa crederlo? Come può avere senso l’espressione di una simile congettura?». Ora, la risposta del filosofo del senso comune (che, nota bene, non è l’uomo del senso comune, il quale è lontano dal realismo tanto quanto dall’idealismo) è che sicuramente non c’è difficoltà nell’idea del supporre, pensare, immaginare che qualcun altro abbia ciò che ho io. Ma il guaio del realista consiste sempre nel fatto che costui non risolve ma salta le difficoltà scorte dai suoi avversari, che peraltro non riescono a risolverle. La risposta realista, per noi, si limita a far risaltare la difficoltà; perché chi argomenta così trascura la differenza tra diversi utilizzi delle parole «avere», «immaginare». «A ha un dente d’oro» significa che il dente è nella bocca di A. Il caso del mal di denti, che io sostengo di non sentire perché è nella sua bocca, non è analogo al caso del dente {{BBB TS reference it|Ts-309,}}d’oro. A causare il problema è l’analogia apparente, e di nuovo la mancanza di analogia, tra questi due casi. Ed è quest’elemento problematico della nostra grammatica che il realista non vede. È concepibile che io provi dolore al dente nella bocca di un altro uomo; e chi dice di non poter sentire il mal di denti altrui non sta rifiutando ''questo''. Vedremo chiaramente la difficoltà grammaticale in cui ci troviamo soltanto se prenderemo dimestichezza con l’idea di provare dolore nel corpo altrui. Perché altrimenti, riflettendo sconcertati su tale problema, tenderemo a confondere la nostra proposizione metafisica «non posso sentire il suo dolore» con la proposizione empirica «non possiamo avere (non abbiamo di regola) dolori nel dente di un altro». In quest’ultima proposizione il verbo «potere» è utilizzato nello stesso modo in cui lo si impiega nella proposizione «un chiodo di ferro non può graffiare il vetro». (Potremmo riscriverla nella forma «l’esperienza insegna che un chiodo di ferro ''non'' graffia il vetro», sbarazzandoci dunque del «potere».) Per vedere che è concepibile che una persona provi dolore nel corpo di un altro, si deve esaminare che genere di fatti consideriamo criteri del fatto che un dolore sia in un certo luogo. È facile immaginare il caso seguente: quando vedo le mie mani non sono sempre consapevole della loro connessione con il resto del corpo. Ossia, spesso vedo la mano muoversi ma non vedo il braccio che la connette al torace. Né è necessario che, in un momento simile, controlli in qualche altro modo l’esistenza del mio braccio. Quindi la mano, per quanto ne so, potrebbe essere connessa al {{BBB TS reference it|Ts-309,}}corpo di un uomo che sta in piedi alle mie spalle (o potrebbe, naturalmente, non essere collegata ad alcun corpo umano). Supponi che io senta un dolore e che sulla base soltanto dell’evidenza di tale dolore, per esempio tenendo gli occhi chiusi, io lo chiami un dolore alla mano sinistra. Qualcuno mi chiede di toccare il punto dolente con la mano destra. Lo faccio, e guardandomi attorno percepisco di stare toccando la mano del mio vicino (ossia la mano connessa al torace del mio vicino).
Un altro di questi grattacapi, strettamente imparentato con il precedente, è espresso nella frase: «Posso sapere solo che io ho esperienze personali, non che ce le ha qualcun altro». – Che qualcun altro abbia esperienze personali andrebbe quindi considerata un’ipotesi non necessaria? – Ma è davvero un’ipotesi? Come faccio a fare {{BBB TS reference it|Ts-309,80}} l’ipotesi, se essa trascende ogni possibile esperienza? Come potrebbe tale ipotesi essere garantita dal significato? (Non sarebbe come cartamoneta non garantita dall’oro?) – È inutile che qualcuno ci dica che, anche se non sappiamo se il prossimo prova dolore, certamente lo crediamo quando, per esempio, lo compatiamo. Certamente non lo compatiremmo se non credessimo che prova dolore; ma questa è una credenza filosofica, metafisica: un realista mi compatisce più di un idealista o di un solipsista? – Infatti, il solipsista chiede: «Come ''possiamo'' credere che un altro provi dolore? Che cosa significa crederlo? Come può avere senso l’espressione di una simile congettura?». Ora, la risposta del filosofo del senso comune (che, nota bene, non è l’uomo del senso comune, il quale è lontano dal realismo tanto quanto dall’idealismo) è che sicuramente non c’è difficoltà nell’idea del supporre, pensare, immaginare che qualcun altro abbia ciò che ho io. Ma il guaio del realista consiste sempre nel fatto che costui non risolve ma salta le difficoltà scorte dai suoi avversari, che peraltro non riescono a risolverle. La risposta realista, per noi, si limita a far risaltare la difficoltà; perché chi argomenta così trascura la differenza tra diversi utilizzi delle parole «avere», «immaginare». «A ha un dente d’oro» significa che il dente è nella bocca di A. Il caso del mal di denti, che io sostengo di non sentire perché è nella sua bocca, non è analogo al caso del dente {{BBB TS reference it|Ts-309,81}} d’oro. A causare il problema è l’analogia apparente, e di nuovo la mancanza di analogia, tra questi due casi. Ed è quest’elemento problematico della nostra grammatica che il realista non vede. È concepibile che io provi dolore al dente nella bocca di un altro uomo; e chi dice di non poter sentire il mal di denti altrui non sta rifiutando ''questo''. Vedremo chiaramente la difficoltà grammaticale in cui ci troviamo soltanto se prenderemo dimestichezza con l’idea di provare dolore nel corpo altrui. Perché altrimenti, riflettendo sconcertati su tale problema, tenderemo a confondere la nostra proposizione metafisica «non posso sentire il suo dolore» con la proposizione empirica «non possiamo avere (non abbiamo di regola) dolori nel dente di un altro». In quest’ultima proposizione il verbo «potere» è utilizzato nello stesso modo in cui lo si impiega nella proposizione «un chiodo di ferro non può graffiare il vetro». (Potremmo riscriverla nella forma «l’esperienza insegna che un chiodo di ferro ''non'' graffia il vetro», sbarazzandoci dunque del «potere».) Per vedere che è concepibile che una persona provi dolore nel corpo di un altro, si deve esaminare che genere di fatti consideriamo criteri del fatto che un dolore sia in un certo luogo. È facile immaginare il caso seguente: quando vedo le mie mani non sono sempre consapevole della loro connessione con il resto del corpo. Ossia, spesso vedo la mano muoversi ma non vedo il braccio che la connette al torace. Né è necessario che, in un momento simile, controlli in qualche altro modo l’esistenza del mio braccio. Quindi la mano, per quanto ne so, potrebbe essere connessa al {{BBB TS reference it|Ts-309,82}} corpo di un uomo che sta in piedi alle mie spalle (o potrebbe, naturalmente, non essere collegata ad alcun corpo umano). Supponi che io senta un dolore e che sulla base soltanto dell’evidenza di tale dolore, per esempio tenendo gli occhi chiusi, io lo chiami un dolore alla mano sinistra. Qualcuno mi chiede di toccare il punto dolente con la mano destra. Lo faccio, e guardandomi attorno percepisco di stare toccando la mano del mio vicino (ossia la mano connessa al torace del mio vicino).


Fatti questa domanda: come sappiamo dove indicare quando ci chiedono di indicare il punto dolente? Questo genere di indicare può essere paragonato all’indicare un punto nero su un foglio quando qualcuno dice «indica il punto nero sul foglio»? Supponi che ti dicano «tu indichi questo punto perché sai prima di indicarlo che il dolore è lì»; chiediti «che cosa significa ''sapere'' che il dolore è lì?» La parola «lì» si riferisce a una località; ma in quale spazio, cioè, una «località» in che senso? Sappiamo qual è il luogo del dolore nello spazio euclideo, in modo tale che quando sappiamo di avere dei dolori sappiamo quanto tali dolori distano da due delle pareti di questa stanza e dal pavimento? Quando ho dolore nella punta del dito e poi con quel dito mi tocco il dente, il mio dolore adesso è sia un mal di denti sia un dolore al dito? Sicuramente in un certo senso si può dire che il dolore sia localizzato nel dente. La ragione per cui in questo caso è sbagliato dire che ho mal di denti è che per essere nel dente il dolore dovrebbe distare un millimetro e mezzo dalla punta del dito? Ricorda che la parola «dove» può riferirsi a località in svariati sensi{{BBB TS reference it|Ts-309,}} diversi. (Con questa parola si giocano molti giochi grammaticali ''più'' o ''meno'' simili gli uni agli altri. Pensa ai vari usi del numerale «1».) Posso sapere dov’è una cosa e poi indicarla in virtù di tale conoscenza. La conoscenza mi dice dove indicare. Qui abbiamo concepito tale conoscenza come la condizione per indicare volontariamente l’oggetto. Quindi possiamo dire: «Posso indicare il punto che intendi perché lo vedo», «posso darti indicazioni per arrivare quel tale luogo perché so dov’è; prima gira a destra, ecc.». Ora si è propensi a dire «devo sapere dov’è una cosa prima di poterla indicare». Magari saresti meno entusiasta di dire «devo sapere dov’è una cosa prima di poterla guardare». Talvolta naturalmente quest’ultima affermazione è corretta. Ma siamo tentati di pensare che ci sia un particolare stato psichico o evento, la conoscenza del luogo, che deve precedere ogni atto volontario di indicare, muoversi verso, ecc. Pensa al caso analogo: «Si può obbedire a un ordine solo dopo averlo compreso».
Fatti questa domanda: come sappiamo dove indicare quando ci chiedono di indicare il punto dolente? Questo genere di indicare può essere paragonato all’indicare un punto nero su un foglio quando qualcuno dice «indica il punto nero sul foglio»? Supponi che ti dicano «tu indichi questo punto perché sai prima di indicarlo che il dolore è lì»; chiediti «che cosa significa ''sapere'' che il dolore è lì?» La parola «lì» si riferisce a una località; ma in quale spazio, cioè, una «località» in che senso? Sappiamo qual è il luogo del dolore nello spazio euclideo, in modo tale che quando sappiamo di avere dei dolori sappiamo quanto tali dolori distano da due delle pareti di questa stanza e dal pavimento? Quando ho dolore nella punta del dito e poi con quel dito mi tocco il dente, il mio dolore adesso è sia un mal di denti sia un dolore al dito? Sicuramente in un certo senso si può dire che il dolore sia localizzato nel dente. La ragione per cui in questo caso è sbagliato dire che ho mal di denti è che per essere nel dente il dolore dovrebbe distare un millimetro e mezzo dalla punta del dito? Ricorda che la parola «dove» può riferirsi a località in svariati sensi {{BBB TS reference it|Ts-309,83}} diversi. (Con questa parola si giocano molti giochi grammaticali ''più'' o ''meno'' simili gli uni agli altri. Pensa ai vari usi del numerale «1».) Posso sapere dov’è una cosa e poi indicarla in virtù di tale conoscenza. La conoscenza mi dice dove indicare. Qui abbiamo concepito tale conoscenza come la condizione per indicare volontariamente l’oggetto. Quindi possiamo dire: «Posso indicare il punto che intendi perché lo vedo», «posso darti indicazioni per arrivare quel tale luogo perché so dov’è; prima gira a destra, ecc.». Ora si è propensi a dire «devo sapere dov’è una cosa prima di poterla indicare». Magari saresti meno entusiasta di dire «devo sapere dov’è una cosa prima di poterla guardare». Talvolta naturalmente quest’ultima affermazione è corretta. Ma siamo tentati di pensare che ci sia un particolare stato psichico o evento, la conoscenza del luogo, che deve precedere ogni atto volontario di indicare, muoversi verso, ecc. Pensa al caso analogo: «Si può obbedire a un ordine solo dopo averlo compreso».


Se indico il punto dolente sul mio braccio, in che senso si può dire che sapevo dov’era il dolore prima d’indicare quel punto? Prima d’indicare avrei potuto dire «il dolore è nel mio braccio sinistro». Supponiamo che il mio braccio sia stato ricoperto di un reticolo di linee numerate in modo tale che io possa riferirmi a ogni luogo della sua superficie. Prima di poterlo indicare, avrei dovuto per forza essere in grado di descrivere il punto dolente per mezzo di queste coordinate? Ciò che voglio dire è che l’atto d’indicare ''determina'' un luogo del dolore. Questo {{BBB TS reference it|Ts-309,}}atto d’indicare, comunque, non va confuso con quello di trovare, il punto dolente tastando. Le due attività infatti possono portare a esiti diversi.
Se indico il punto dolente sul mio braccio, in che senso si può dire che sapevo dov’era il dolore prima d’indicare quel punto? Prima d’indicare avrei potuto dire «il dolore è nel mio braccio sinistro». Supponiamo che il mio braccio sia stato ricoperto di un reticolo di linee numerate in modo tale che io possa riferirmi a ogni luogo della sua superficie. Prima di poterlo indicare, avrei dovuto per forza essere in grado di descrivere il punto dolente per mezzo di queste coordinate? Ciò che voglio dire è che l’atto d’indicare ''determina'' un luogo del dolore. Questo {{BBB TS reference it|Ts-309,84}} atto d’indicare, comunque, non va confuso con quello di trovare, il punto dolente tastando. Le due attività infatti possono portare a esiti diversi.


Può essere pensata un’enorme quantità di casi in cui dovremmo dire che qualcuno ha dolore nel corpo di un’altra persona; o, magari, in un pezzo di arredamento, o in un punto vuoto. Certamente non bisogna dimenticare che un dolore in un punto particolare del nostro corpo, per esempio in un dente superiore, ha un suo peculiare circondario tattile e cinestetico; sollevando la mano di una poca distanza tocchiamo l’occhio; e la locuzione «a poca distanza» qui si riferisce alla distanza tattile o alla distanza cinestetica o a entrambe. (È facile immaginare distanze tattili e cinestetiche correlate in modo diversi dal solito. La distanza tra la nostra bocca e il nostro occhio potrebbe sembrare molto grande «ai muscoli del nostro braccio» quando muoviamo un dito dalla bocca all’occhio. Pensa a quanto immagini che sia grande la carie mentre il dentista ti trapana e ti sonda il dente.)
Può essere pensata un’enorme quantità di casi in cui dovremmo dire che qualcuno ha dolore nel corpo di un’altra persona; o, magari, in un pezzo di arredamento, o in un punto vuoto. Certamente non bisogna dimenticare che un dolore in un punto particolare del nostro corpo, per esempio in un dente superiore, ha un suo peculiare circondario tattile e cinestetico; sollevando la mano di una poca distanza tocchiamo l’occhio; e la locuzione «a poca distanza» qui si riferisce alla distanza tattile o alla distanza cinestetica o a entrambe. (È facile immaginare distanze tattili e cinestetiche correlate in modo diversi dal solito. La distanza tra la nostra bocca e il nostro occhio potrebbe sembrare molto grande «ai muscoli del nostro braccio» quando muoviamo un dito dalla bocca all’occhio. Pensa a quanto immagini che sia grande la carie mentre il dentista ti trapana e ti sonda il dente.)


Quando ho detto che se solleviamo di poco la mano tocchiamo l’occhio, mi riferivo soltanto all’evidenza tattile. Ossia, il criterio per il fatto che il mio dito toccasse l’occhio doveva consistere solo nel fatto che io provassi la sensazione particolare che mi avrebbe fatto dire che mi stavo toccando l’occhio, anche in assenza di evidenze visive e anche se, guardandomi allo specchio, avessi visto il mio dito toccare non l’occhio ma, poniamo, la fronte. Proprio come la «poca distanza» a cui mi riferivo era tattile o cinestetica, così anche i luoghi di cui ho detto che «{{BBB TS reference it|Ts-309,}}sono poco distanti» erano luoghi tattili. Dire che nello spazio tattile o cinestetico il mio dito si muove dal dente all’occhio significa allora che ho le esperienze tattili e cinestetiche che normalmente abbiamo quando diciamo «il mio dito si muove dal dente all’occhio». Ma ciò che consideriamo come evidenza di quest’ultima proposizione non è affatto, come sappiamo tutti, qualcosa di soltanto tattile o cinestetico. Infatti, se avessi le sensazioni tattili o cinestetiche in questione, potrei ancora negare la proposizione «il mio dito si muove… ecc.…» sulla base di ciò che ho visto. Tale proposizione è una proposizione inerente a oggetti fisici. (E ora non pensare che l’espressione «oggetti fisici» sia intesa a distinguere un tipo di oggetto fisico da un altro.) La grammatica delle proposizioni che chiamiamo proposizioni inerenti a oggetti fisici ammette una varietà di evidenze in favore di ogni proposizione di questo tipo. Caratterizza la grammatica della proposizione «il mio dito si muove ecc.» che io considero le proposizioni «lo vedo muoversi», «lo sento muoversi», «lui lo vede muoversi», «lui mi dice che si muove», ecc., come evidenze in suo favore. Ora, se dico «vedo la mia mano muoversi», a prima vista ciò pare presupporre che io concordi con la proposizione «la mia mano si muove». Ma se considero la proposizione «vedo la mia mano muoversi» come una delle evidenze in favore della proposizione «la mia mano si muove», la verità della seconda non è, naturalmente, presupposta nella verità della prima. Si potrebbe quindi suggerire l’espressione «sembra che la mia mano si stia muovendo» al posto di «vedo la mia mano muoversi». Ma tale espressione, {{BBB TS reference it|Ts-309,}}pur indicando che la mia mano potrebbe sembrare in movimento senza davvero esserlo, potrebbe comunque suggerire che dopo tutto, per dare l’impressione che si stia muovendo, dev’esserci una mano; mentre potremmo facilmente immaginare casi in cui la proposizione che descrive l’evidenza visiva è vera e allo stesso tempo altre evidenze ci fanno dire che non ho questa mano. Il nostro modo ordinario di espressione lo occulta. Nel linguaggio ordinario scontiamo l’handicap di dover descrivere, per esempio, una sensazione tattile per mezzo dei termini per oggetti fisici come la parola «occhio», «dito», ecc., quando ciò che vogliamo dire non implica l’esistenza di un occhio o dito ecc.: dobbiamo impiegare una descrizione indiretta delle nostre sensazioni. Questo naturalmente non significa che il nostro linguaggio ordinario è insufficiente per i nostri scopi, ma che è un po’ scomodo e talvolta fuorviante. La ragione di questa peculiarità del nostro linguaggio è naturalmente la regolare coincidenza di certe esperienze sensoriali. Quindi quando sento il mio braccio muoversi, nella maggior parte dei casi lo vedo anche muoversi. E se lo tocco con la mano, anche la mano sente il movimento, ecc. (L’uomo a cui è stato amputato un piede descriverà un particolare dolore come dolore al piede.) In tali casi sentiamo di avere grande necessità di un’espressione come: «Una sensazione si sposta dalla mia guancia tattile al mio occhio tattile». Ho detto tutto questo perché, se sei consapevole dell’ambiente tattile e cinestetico di un dolore, puoi avere difficoltà a immaginare che si potrebbe avere mal di denti in un punto che non siano i propri denti. Ma se {{BBB TS reference it|Ts-309,}}immaginiamo un tale caso, ciò significa semplicemente che immaginiamo una correlazione tra esperienze visive, tattili, cinestetiche, ecc. diversa dalla correlazione ordinaria. Quindi possiamo immaginare una persona che abbia la sensazione del mal di denti più quelle esperienze tattili e cinestetiche che normalmente sono collegate con il vedere la propria mano spostarsi dalla propria bocca al proprio naso, al proprio occhio, ecc., ma correlate all’esperienza visiva della sua mano che si muove verso tali punti sul viso di un’altra persona. Oppure possiamo anche immaginare una persona che abbia la sensazione cinestetica di muovere la propria mano e la sensazione tattile, nelle dita e in faccia, delle proprie dita che si muovono sulla propria faccia, mentre le sensazioni cinestetiche e visive che ha dovrebbero essere descritte come quelle delle sue dita che si muovono sul suo ginocchio. Se avessimo una sensazione di mal di denti più certe sensazioni tattili e cinestetiche che solitamente sono caratteristiche del toccare il dente dolorante e le parti a esso adiacenti del nostro viso, e se queste sensazioni fossero accompagnate dal vedere la mia mano toccare lo spigolo del tavolo e muoversi su di esso, allora saremmo incerti se chiamare quest’esperienza un’esperienza di mal di denti nel tavolo o meno. Se, d’altro canto, le sensazioni tattili e cinestetiche descritte fossero correlate all’esperienza visiva di vedere la mia mano toccare un dente o altre parti del viso di un’altra persona, non c’è dubbio che chiamerei quest’esperienza «mal di denti nel dente di un’altra persona».
Quando ho detto che se solleviamo di poco la mano tocchiamo l’occhio, mi riferivo soltanto all’evidenza tattile. Ossia, il criterio per il fatto che il mio dito toccasse l’occhio doveva consistere solo nel fatto che io provassi la sensazione particolare che mi avrebbe fatto dire che mi stavo toccando l’occhio, anche in assenza di evidenze visive e anche se, guardandomi allo specchio, avessi visto il mio dito toccare non l’occhio ma, poniamo, la fronte. Proprio come la «poca distanza» a cui mi riferivo era tattile o cinestetica, così anche i luoghi di cui ho detto che «sono {{BBB TS reference it|Ts-309,85}} poco distanti» erano luoghi tattili. Dire che nello spazio tattile o cinestetico il mio dito si muove dal dente all’occhio significa allora che ho le esperienze tattili e cinestetiche che normalmente abbiamo quando diciamo «il mio dito si muove dal dente all’occhio». Ma ciò che consideriamo come evidenza di quest’ultima proposizione non è affatto, come sappiamo tutti, qualcosa di soltanto tattile o cinestetico. Infatti, se avessi le sensazioni tattili o cinestetiche in questione, potrei ancora negare la proposizione «il mio dito si muove… ecc.…» sulla base di ciò che ho visto. Tale proposizione è una proposizione inerente a oggetti fisici. (E ora non pensare che l’espressione «oggetti fisici» sia intesa a distinguere un tipo di oggetto fisico da un altro.) La grammatica delle proposizioni che chiamiamo proposizioni inerenti a oggetti fisici ammette una varietà di evidenze in favore di ogni proposizione di questo tipo. Caratterizza la grammatica della proposizione «il mio dito si muove ecc.» che io considero le proposizioni «lo vedo muoversi», «lo sento muoversi», «lui lo vede muoversi», «lui mi dice che si muove», ecc., come evidenze in suo favore. Ora, se dico «vedo la mia mano muoversi», a prima vista ciò pare presupporre che io concordi con la proposizione «la mia mano si muove». Ma se considero la proposizione «vedo la mia mano muoversi» come una delle evidenze in favore della proposizione «la mia mano si muove», la verità della seconda non è, naturalmente, presupposta nella verità della prima. Si potrebbe quindi suggerire l’espressione «sembra che la mia mano si stia muovendo» al posto di «vedo la mia mano muoversi». Ma tale espressione, {{BBB TS reference it|Ts-309,86}} pur indicando che la mia mano potrebbe sembrare in movimento senza davvero esserlo, potrebbe comunque suggerire che dopo tutto, per dare l’impressione che si stia muovendo, dev’esserci una mano; mentre potremmo facilmente immaginare casi in cui la proposizione che descrive l’evidenza visiva è vera e allo stesso tempo altre evidenze ci fanno dire che non ho questa mano. Il nostro modo ordinario di espressione lo occulta. Nel linguaggio ordinario scontiamo l’handicap di dover descrivere, per esempio, una sensazione tattile per mezzo dei termini per oggetti fisici come la parola «occhio», «dito», ecc., quando ciò che vogliamo dire non implica l’esistenza di un occhio o dito ecc.: dobbiamo impiegare una descrizione indiretta delle nostre sensazioni. Questo naturalmente non significa che il nostro linguaggio ordinario è insufficiente per i nostri scopi, ma che è un po’ scomodo e talvolta fuorviante. La ragione di questa peculiarità del nostro linguaggio è naturalmente la regolare coincidenza di certe esperienze sensoriali. Quindi quando sento il mio braccio muoversi, nella maggior parte dei casi lo vedo anche muoversi. E se lo tocco con la mano, anche la mano sente il movimento, ecc. (L’uomo a cui è stato amputato un piede descriverà un particolare dolore come dolore al piede.) In tali casi sentiamo di avere grande necessità di un’espressione come: «Una sensazione si sposta dalla mia guancia tattile al mio occhio tattile». Ho detto tutto questo perché, se sei consapevole dell’ambiente tattile e cinestetico di un dolore, puoi avere difficoltà a immaginare che si potrebbe avere mal di denti in un punto che non siano i propri denti. Ma se {{BBB TS reference it|Ts-309,87}} immaginiamo un tale caso, ciò significa semplicemente che immaginiamo una correlazione tra esperienze visive, tattili, cinestetiche, ecc. diversa dalla correlazione ordinaria. Quindi possiamo immaginare una persona che abbia la sensazione del mal di denti più quelle esperienze tattili e cinestetiche che normalmente sono collegate con il vedere la propria mano spostarsi dalla propria bocca al proprio naso, al proprio occhio, ecc., ma correlate all’esperienza visiva della sua mano che si muove verso tali punti sul viso di un’altra persona. Oppure possiamo anche immaginare una persona che abbia la sensazione cinestetica di muovere la propria mano e la sensazione tattile, nelle dita e in faccia, delle proprie dita che si muovono sulla propria faccia, mentre le sensazioni cinestetiche e visive che ha dovrebbero essere descritte come quelle delle sue dita che si muovono sul suo ginocchio. Se avessimo una sensazione di mal di denti più certe sensazioni tattili e cinestetiche che solitamente sono caratteristiche del toccare il dente dolorante e le parti a esso adiacenti del nostro viso, e se queste sensazioni fossero accompagnate dal vedere la mia mano toccare lo spigolo del tavolo e muoversi su di esso, allora saremmo incerti se chiamare quest’esperienza un’esperienza di mal di denti nel tavolo o meno. Se, d’altro canto, le sensazioni tattili e cinestetiche descritte fossero correlate all’esperienza visiva di vedere la mia mano toccare un dente o altre parti del viso di un’altra persona, non c’è dubbio che chiamerei quest’esperienza «mal di denti nel dente di un’altra persona».


Ho detto che l’uomo che sosteneva che fosse impossibile {{BBB TS reference it|Ts-309,}}sentire il dolore del prossimo non desiderava perciò negare che una persona potesse provare dolore nel corpo di un’altra persona. In effetti, costui avrebbe detto: «Posso avere mal di denti nel dente di qualcun altro, ma non il ''suo'' mal di denti».
Ho detto che l’uomo che sosteneva che fosse impossibile {{BBB TS reference it|Ts-309,88}} sentire il dolore del prossimo non desiderava perciò negare che una persona potesse provare dolore nel corpo di un’altra persona. In effetti, costui avrebbe detto: «Posso avere mal di denti nel dente di qualcun altro, ma non il ''suo'' mal di denti».


Quindi la proposizione «A ha un dente d’oro» e «A ha mal di denti» non sono impiegate in maniera analoga. Differiscono nella loro grammatica, che a prima vista potrebbe sembrare identica.
Quindi la proposizione «A ha un dente d’oro» e «A ha mal di denti» non sono impiegate in maniera analoga. Differiscono nella loro grammatica, che a prima vista potrebbe sembrare identica.


Riguardo all’uso della parola «immaginare» – si potrebbe dire: «Di sicuro esiste un atto ben definito d’immaginare che l’altra persona ha dolore». Naturalmente noi non lo neghiamo, né neghiamo alcun’altra affermazione che verta su fatti. Ma vediamo: se ci facciamo un’immagine del dolore di un’altra persona, l’applichiamo nella stessa maniera in cui applichiamo l’immagine, per esempio, di un occhio nero quando immaginiamo che l’altra persona abbia un occhio nero? Sostituiamo di nuovo l’immaginare, nel senso ordinario, col creare una raffigurazione pittorica. (Questo potrebbe benissimo essere ''il'' modo in cui certi esseri immaginano.) Poniamo allora che qualcuno immagini in questo modo che A ha un occhio nero. Un’applicazione molto importante di questa raffigurazione consisterà nel confrontarla con l’occhio reale per vedere se la raffigurazione è corretta. Quando immaginiamo vividamente qualcuno che patisce dei dolori, spesso della nostra immagine entra a far parte ciò che potremmo chiamare l’ombra di un dolore avvertito nella località corrispondente a quella in cui diciamo che l’altro sente il suo dolore. Ma il senso in cui un’immagine è un’immagine è determinato dal modo in cui la si confronta con la realtà. Questo potremmo chiamarlo il metodo di proiezione. Ora pensa all’atto di confrontare un’immagine del mal di denti di A con il suo{{BBB TS reference it|Ts-309,}} mal di denti. Come li confronteresti? Se dici che li confronti «indirettamente» tramite il suo comportamento fisico, ti rispondo che ciò significa che ''non'' li confronti come confronti la raffigurazione del suo comportamento con il suo comportamento.
Riguardo all’uso della parola «immaginare» – si potrebbe dire: «Di sicuro esiste un atto ben definito d’immaginare che l’altra persona ha dolore». Naturalmente noi non lo neghiamo, né neghiamo alcun’altra affermazione che verta su fatti. Ma vediamo: se ci facciamo un’immagine del dolore di un’altra persona, l’applichiamo nella stessa maniera in cui applichiamo l’immagine, per esempio, di un occhio nero quando immaginiamo che l’altra persona abbia un occhio nero? Sostituiamo di nuovo l’immaginare, nel senso ordinario, col creare una raffigurazione pittorica. (Questo potrebbe benissimo essere ''il'' modo in cui certi esseri immaginano.) Poniamo allora che qualcuno immagini in questo modo che A ha un occhio nero. Un’applicazione molto importante di questa raffigurazione consisterà nel confrontarla con l’occhio reale per vedere se la raffigurazione è corretta. Quando immaginiamo vividamente qualcuno che patisce dei dolori, spesso della nostra immagine entra a far parte ciò che potremmo chiamare l’ombra di un dolore avvertito nella località corrispondente a quella in cui diciamo che l’altro sente il suo dolore. Ma il senso in cui un’immagine è un’immagine è determinato dal modo in cui la si confronta con la realtà. Questo potremmo chiamarlo il metodo di proiezione. Ora pensa all’atto di confrontare un’immagine del mal di denti di A con il suo {{BBB TS reference it|Ts-309,89}} mal di denti. Come li confronteresti? Se dici che li confronti «indirettamente» tramite il suo comportamento fisico, ti rispondo che ciò significa che ''non'' li confronti come confronti la raffigurazione del suo comportamento con il suo comportamento.


Di nuovo, quando dici «ti concedo che non puoi ''sapere'' quando A prova dolore, puoi solo congetturarlo» non vedi la difficoltà contenuta nei diversi usi delle espressioni «fare congetture» e «sapere». A che tipo d’impossibilità ti riferivi quando hai detto che non ''potevi'' saperlo? Non stavi pensando a un caso analogo a quello in cui non si poteva sapere se l’altra persona avesse un dente d’oro in bocca perché aveva la bocca chiusa? Qui ciò che non sapevi potevi comunque immaginare di saperlo; aveva senso dire che avevi visto il dente anche se non l’avevi visto; o meglio, ha senso dire che non vedi il dente e quindi ha senso anche dire che lo vedi. Quando invece mi hai concesso che un uomo non può ''sapere'' se l’altra persona prova dolore, tu non volevi dire che nella realtà dei fatti le persone non lo sapevano, ma che non aveva senso dire che lo sapevano (e quindi neanche dire che non lo sapevano). Se dunque in questo caso usi l’espressione «congetturare» o «credere», non la usi in quanto contrapposta a «sapere». Cioè non hai affermato che sapere era un obiettivo che non sei stato in grado di raggiungere e che devi accontentarti di fare congetture; bensì che non c’è obiettivo in questo gioco. Ugualmente, quando qualcuno dice «non puoi contare{{BBB TS reference it|Ts-309,}} fino in fondo la serie dei numeri cardinali», questo qualcuno non fa un’affermazione inerente alla fragilità umana, ma a una convenzione che abbiamo istituito. La nostra affermazione non è paragonabile, anche se vi viene sempre falsamente paragonata, a un’affermazione come «è impossibile per un essere umano attraversare a nuoto l’Atlantico»; ma ''è'' analoga a un’affermazione come «non c’è traguardo in una gara di resistenza». E questa è una delle cose avvertite debolmente da chi è insoddisfatto della spiegazione secondo cui si non può sapere… si può solo congetturare…
Di nuovo, quando dici «ti concedo che non puoi ''sapere'' quando A prova dolore, puoi solo congetturarlo» non vedi la difficoltà contenuta nei diversi usi delle espressioni «fare congetture» e «sapere». A che tipo d’impossibilità ti riferivi quando hai detto che non ''potevi'' saperlo? Non stavi pensando a un caso analogo a quello in cui non si poteva sapere se l’altra persona avesse un dente d’oro in bocca perché aveva la bocca chiusa? Qui ciò che non sapevi potevi comunque immaginare di saperlo; aveva senso dire che avevi visto il dente anche se non l’avevi visto; o meglio, ha senso dire che non vedi il dente e quindi ha senso anche dire che lo vedi. Quando invece mi hai concesso che un uomo non può ''sapere'' se l’altra persona prova dolore, tu non volevi dire che nella realtà dei fatti le persone non lo sapevano, ma che non aveva senso dire che lo sapevano (e quindi neanche dire che non lo sapevano). Se dunque in questo caso usi l’espressione «congetturare» o «credere», non la usi in quanto contrapposta a «sapere». Cioè non hai affermato che sapere era un obiettivo che non sei stato in grado di raggiungere e che devi accontentarti di fare congetture; bensì che non c’è obiettivo in questo gioco. Ugualmente, quando qualcuno dice «non puoi contare {{BBB TS reference it|Ts-309,90}} fino in fondo la serie dei numeri cardinali», questo qualcuno non fa un’affermazione inerente alla fragilità umana, ma a una convenzione che abbiamo istituito. La nostra affermazione non è paragonabile, anche se vi viene sempre falsamente paragonata, a un’affermazione come «è impossibile per un essere umano attraversare a nuoto l’Atlantico»; ma ''è'' analoga a un’affermazione come «non c’è traguardo in una gara di resistenza». E questa è una delle cose avvertite debolmente da chi è insoddisfatto della spiegazione secondo cui si non può sapere… si può solo congetturare…


Se siamo arrabbiati con qualcuno perché in una fredda giornata è uscito con il raffreddore, talvolta diciamo: «Non ce l’ho mica io il tuo raffreddore». Ciò può significare: «Non soffro quando tu prendi il raffreddore». Questa è una proposizione insegnataci dall’esperienza. Perché potremmo immaginare una connessione, per così dire, senza fili tra due corpi che facesse sentire dolore nella testa a una persona quando l’altro esponesse la propria all’aria fredda. In questo caso si potrebbe argomentare che i dolori sono miei perché sono sentiti nella mia testa; immagina però che io e qualcun altro avessimo parte dei nostri corpi in comune, diciamo una mano. Immagina che i nervi e i tendini del mio braccio e del braccio di A fossero connessi a questa mano grazie a un’operazione. Ora immagina la mano punta da una vespa. Piangiamo entrambi, i nostri volti si contorcono, forniamo la stessa descrizione del dolore, ecc. Dovremmo dire di provare lo stesso dolore o dolori diversi? Se in tal caso tu dici: «Sentiamo dolore nello stesso punto, nello stesso corpo, le nostre descrizioni combaciano, tuttavia il mio dolore non può essere il suo», suppongo che per giustificare tale affermazione tu sia propenso a dire: {{BBB TS reference it|Ts-309,}}«Perché il mio dolore è il mio dolore e il suo dolore è il suo dolore». E qui stai facendo un’affermazione grammaticale sull’uso di una locuzione quale «lo stesso dolore». Dici che non desideri usare la locuzione «lui ha il mio dolore» o «abbiamo entrambi lo stesso dolore» e invece magari userai una locuzione quale «il suo dolore è esattamente come il mio». (Non sarebbe una confutazione dire che i due non possono avere lo stesso dolore perché qualcuno potrebbe anestetizzare o uccidere l’uno mentre l’altro continua a provare dolore.) Naturalmente, se escludiamo l’espressione «ho il suo mal di denti» dal nostro linguaggio, escludiamo perciò anche «ho (o sento) il mio mal di denti». Un’altra forma della nostra affermazione metafisica è questa: «I dati sensoriali di una persona sono soltanto suoi, privati». Questo modo di esprimersi è ancora più fuorviante, perché pare ancora più simile a una proposizione empirica; il filosofo che dice così può ben pensare di star esprimendo una sorta di verità scientifica.
Se siamo arrabbiati con qualcuno perché in una fredda giornata è uscito con il raffreddore, talvolta diciamo: «Non ce l’ho mica io il tuo raffreddore». Ciò può significare: «Non soffro quando tu prendi il raffreddore». Questa è una proposizione insegnataci dall’esperienza. Perché potremmo immaginare una connessione, per così dire, senza fili tra due corpi che facesse sentire dolore nella testa a una persona quando l’altro esponesse la propria all’aria fredda. In questo caso si potrebbe argomentare che i dolori sono miei perché sono sentiti nella mia testa; immagina però che io e qualcun altro avessimo parte dei nostri corpi in comune, diciamo una mano. Immagina che i nervi e i tendini del mio braccio e del braccio di A fossero connessi a questa mano grazie a un’operazione. Ora immagina la mano punta da una vespa. Piangiamo entrambi, i nostri volti si contorcono, forniamo la stessa descrizione del dolore, ecc. Dovremmo dire di provare lo stesso dolore o dolori diversi? Se in tal caso tu dici: «Sentiamo dolore nello stesso punto, nello stesso corpo, le nostre descrizioni combaciano, tuttavia il mio dolore non può essere il suo», suppongo che per giustificare tale affermazione tu sia propenso a dire: {{BBB TS reference it|Ts-309,91}} «Perché il mio dolore è il mio dolore e il suo dolore è il suo dolore». E qui stai facendo un’affermazione grammaticale sull’uso di una locuzione quale «lo stesso dolore». Dici che non desideri usare la locuzione «lui ha il mio dolore» o «abbiamo entrambi lo stesso dolore» e invece magari userai una locuzione quale «il suo dolore è esattamente come il mio». (Non sarebbe una confutazione dire che i due non possono avere lo stesso dolore perché qualcuno potrebbe anestetizzare o uccidere l’uno mentre l’altro continua a provare dolore.) Naturalmente, se escludiamo l’espressione «ho il suo mal di denti» dal nostro linguaggio, escludiamo perciò anche «ho (o sento) il mio mal di denti». Un’altra forma della nostra affermazione metafisica è questa: «I dati sensoriali di una persona sono soltanto suoi, privati». Questo modo di esprimersi è ancora più fuorviante, perché pare ancora più simile a una proposizione empirica; il filosofo che dice così può ben pensare di star esprimendo una sorta di verità scientifica.


Impieghiamo la locuzione «due libri hanno lo stesso colore», ma potremmo benissimo dire: «non possono avere lo ''stesso'' colore, perché, in fondo, questo libro ha il suo colore e quel libro ha a sua volta il suo colore». Anche questo sarebbe affermare una regola grammaticale, – una regola in disaccordo con il nostro uso ordinario. La ragione per cui si dovrebbe pensare a questi due usi diversi è la seguente: confrontiamo il caso dei dati sensoriali con quello dei corpi fisici, nel quale facciamo una distinzione tra «questa è la stessa sedia che ho visto un’ora fa» e «questa non è la stessa sedia, ma una sedia esattamente {{BBB TS reference it|Ts-309,}}identica all’altra». Qui ha senso dire, e si tratta di una proposizione empirica: «A e B non possono aver visto la stessa sedia, perché A era a Londra e B era a Cambridge; hanno visto due sedie esattamente identiche». (Qui sarà utile considerare i diversi criteri per ciò che chiamiamo «identità di questi oggetti». Come applichiamo le affermazioni: «questo è lo stesso giorno…», «questa è la stessa parola…», «questa è la stessa occasione…», ecc.?)
Impieghiamo la locuzione «due libri hanno lo stesso colore», ma potremmo benissimo dire: «non possono avere lo ''stesso'' colore, perché, in fondo, questo libro ha il suo colore e quel libro ha a sua volta il suo colore». Anche questo sarebbe affermare una regola grammaticale, – una regola in disaccordo con il nostro uso ordinario. La ragione per cui si dovrebbe pensare a questi due usi diversi è la seguente: confrontiamo il caso dei dati sensoriali con quello dei corpi fisici, nel quale facciamo una distinzione tra «questa è la stessa sedia che ho visto un’ora fa» e «questa non è la stessa sedia, ma una sedia esattamente {{BBB TS reference it|Ts-309,92}} identica all’altra». Qui ha senso dire, e si tratta di una proposizione empirica: «A e B non possono aver visto la stessa sedia, perché A era a Londra e B era a Cambridge; hanno visto due sedie esattamente identiche». (Qui sarà utile considerare i diversi criteri per ciò che chiamiamo «identità di questi oggetti». Come applichiamo le affermazioni: «questo è lo stesso giorno…», «questa è la stessa parola…», «questa è la stessa occasione…», ecc.?)


Ciò che abbiamo fatto in queste discussioni è stato quello che facciamo sempre quando ci imbattiamo nella parola «può» in una proposizione metafisica. Mostriamo che questa proposizione nasconde una regola grammaticale. Ovverosia, distruggiamo la somiglianza esteriore tra una proposizione metafisica e una proposizione empirica e cerchiamo di trovare la forma di espressione che soddisfa una certa brama dei metafisici che il nostro linguaggio ordinario non soddisfa e che, finché resta insoddisfatta, produce lo sconcerto metafisico. Di nuovo, quando in un senso metafisico dico «quando provo dolore ''devo'' sempre saperlo», ciò rende semplicemente la parola «sapere» ridondante; invece di «so che provo dolore», posso tranquillamente dire «provo dolore». Naturalmente, la situazione cambia se diamo un senso alla locuzione «dolore inconscio», fissando criteri empirici per il caso in cui qualcuno ha dolore e non lo sa, e se poi diciamo (giustamente o erroneamente) che di fatto nessuno ha mai provato dolore senza saperlo.
Ciò che abbiamo fatto in queste discussioni è stato quello che facciamo sempre quando ci imbattiamo nella parola «può» in una proposizione metafisica. Mostriamo che questa proposizione nasconde una regola grammaticale. Ovverosia, distruggiamo la somiglianza esteriore tra una proposizione metafisica e una proposizione empirica e cerchiamo di trovare la forma di espressione che soddisfa una certa brama dei metafisici che il nostro linguaggio ordinario non soddisfa e che, finché resta insoddisfatta, produce lo sconcerto metafisico. Di nuovo, quando in un senso metafisico dico «quando provo dolore ''devo'' sempre saperlo», ciò rende semplicemente la parola «sapere» ridondante; invece di «so che provo dolore», posso tranquillamente dire «provo dolore». Naturalmente, la situazione cambia se diamo un senso alla locuzione «dolore inconscio», fissando criteri empirici per il caso in cui qualcuno ha dolore e non lo sa, e se poi diciamo (giustamente o erroneamente) che di fatto nessuno ha mai provato dolore senza saperlo.


Quando diciamo «non posso sentire il suo dolore» ci si suggerisce l’idea di una{{BBB TS reference it|Ts-309,}} barriera insormontabile. Pensa subito a un caso simile: «I colori verde e blu non possono essere contemporaneamente nello stesso punto». Qui l’immagine d’impossibilità fisica che ci si suggerisce non è, forse, quella di una barriera; sentiamo invece che i due colori si ostacolano reciprocamente. Qual è l’origine di quest’idea? – Diciamo che tre persone non possono sedersi una accanto all’altra su questa panca; non c’è spazio. Il caso dei colori non è analogo a questo; ma è in qualche modo analogo al dire: «un metro e mezzo non ci sta tre volte in un metro». Questa è una regola grammaticale e afferma un’impossibilità logica. La proposizione «tre uomini non possono sedersi l’uno accanto all’altro su una panca di un metro scarso» afferma un’impossibilità fisica; e questo esempio mostra chiaramente perché le due impossibilità sono confuse. (Confronta la proposizione «lui è quindici centimetri più alto di me» con «1,80 metri è 15 centimetri più di 1,65 metri.» Le due proposizioni sono di tipo assolutamente diverso, ma sono perfettamente somiglianti.) La ragione per cui in questi casi ci si suggerisce l’idea dell’impossibilità fisica è che da un lato decidiamo di non usare una particolare forma di espressione, dall’altro siamo fortemente tentati di usarla, innanzitutto perché ci sembra ottimo inglese o ottimo tedesco ecc. e poi, secondariamente, perché ci sono forme di espressioni molto simili che vengono impiegate in altri settori del nostro linguaggio. Abbiamo deciso di non usare la locuzione «quelle due cose sono nello stesso luogo, ecc.»; tuttavia essa ci si raccomanda fortemente attraverso l’analogia con{{BBB TS reference it|Ts-309,}} altri casi, in modo tale che noi, in un certo senso, dobbiamo espellere questa forma di espressione con la forza. Ecco perché abbiamo l’impressione di stare rifiutando una proposizione universalmente falsa. Ci facciamo un’immagine come quella dei due colori che si ostacolano reciprocamente, o di una barriera che non permette a una persona di avvicinarsi all’esperienza di un altro più che osservandone il comportamento; ma guardando più da vicino ci accorgiamo di non poter applicare l’immagine che ci siamo fatti.
Quando diciamo «non posso sentire il suo dolore» ci si suggerisce l’idea di una {{BBB TS reference it|Ts-309,93}} barriera insormontabile. Pensa subito a un caso simile: «I colori verde e blu non possono essere contemporaneamente nello stesso punto». Qui l’immagine d’impossibilità fisica che ci si suggerisce non è, forse, quella di una barriera; sentiamo invece che i due colori si ostacolano reciprocamente. Qual è l’origine di quest’idea? – Diciamo che tre persone non possono sedersi una accanto all’altra su questa panca; non c’è spazio. Il caso dei colori non è analogo a questo; ma è in qualche modo analogo al dire: «un metro e mezzo non ci sta tre volte in un metro». Questa è una regola grammaticale e afferma un’impossibilità logica. La proposizione «tre uomini non possono sedersi l’uno accanto all’altro su una panca di un metro scarso» afferma un’impossibilità fisica; e questo esempio mostra chiaramente perché le due impossibilità sono confuse. (Confronta la proposizione «lui è quindici centimetri più alto di me» con «1,80 metri è 15 centimetri più di 1,65 metri.» Le due proposizioni sono di tipo assolutamente diverso, ma sono perfettamente somiglianti.) La ragione per cui in questi casi ci si suggerisce l’idea dell’impossibilità fisica è che da un lato decidiamo di non usare una particolare forma di espressione, dall’altro siamo fortemente tentati di usarla, innanzitutto perché ci sembra ottimo inglese o ottimo tedesco ecc. e poi, secondariamente, perché ci sono forme di espressioni molto simili che vengono impiegate in altri settori del nostro linguaggio. Abbiamo deciso di non usare la locuzione «quelle due cose sono nello stesso luogo, ecc.»; tuttavia essa ci si raccomanda fortemente attraverso l’analogia con {{BBB TS reference it|Ts-309,94}} altri casi, in modo tale che noi, in un certo senso, dobbiamo espellere questa forma di espressione con la forza. Ecco perché abbiamo l’impressione di stare rifiutando una proposizione universalmente falsa. Ci facciamo un’immagine come quella dei due colori che si ostacolano reciprocamente, o di una barriera che non permette a una persona di avvicinarsi all’esperienza di un altro più che osservandone il comportamento; ma guardando più da vicino ci accorgiamo di non poter applicare l’immagine che ci siamo fatti.


Il nostro oscillare tra impossibilità logica e fisica ci porta a fare affermazioni come la seguente: «Se ciò che sento è sempre il ''mio'' dolore e basta, che cosa può significare la supposizione che qualcun altro provi dolore?». Ciò che va fatto in questi casi è sempre guardare come le parole in questione sono ''effettivamente usate nel nostro linguaggio''. In tutti questi casi pensiamo a un uso diverso da quello che il nostro linguaggio ordinario fa di tali parole. A un uso, però, che proprio in quel momento per qualche ragione ci si raccomanda fortemente. Quando qualcosa nella grammatica delle nostre parole sembra bizzarro, è perché siamo alternativamente tentati di utilizzare una parola in vari sensi diversi. E scoprire che un’asserzione fatta dal metafisico esprime insoddisfazione nei confronti della nostra grammatica è particolarmente difficile quando le parole di tale asserzione possono anche essere impiegate per descrivere un fatto empirico. Così, quando costui dice «solo il mio dolore è vero dolore», questa frase potrebbe significare che le altre persone si limitano a fingere. E se il metafisico dice «quando nessuno lo vede, quest’albero non esiste», ciò potrebbe significare «quest’albero {{BBB TS reference it|Ts-309,}}svanisce quando gli voltiamo le spalle». Chi dice «solo il mio dolore è reale» non intende dire che ha stabilito in basi ai criteri comuni – i criteri, cioè, che danno alle parole i loro significati comuni – che gli altri che dicevano di provare dolore mentivano. Ciò contro cui costui si ribella è l’uso di ''quest’''espressione in connessione con ''questi'' criteri. Egli, cioè, protesta contro l’impiego di questa parola nel particolare modo in cui viene comunemente usata. D’altro canto, egli non si rende conto di protestare contro una convenzione. Vede una maniera di dividere il Paese diverso da quello utilizzato nella cartina ordinaria. Si sente tentato, diciamo, di utilizzare il nome «Devonshire» non per la contea con i suoi confini convenzionali, ma per una regione dai confini diversi. Potrebbe esprimere ciò dicendo: «Non è assurdo fare di ''questo'' una contea, tirare i confini ''qui''?». Ma ciò che dice è: «Il ''vero'' Devonshire è questo». Potremmo rispondere: «Ciò che vuoi è soltanto una nuova notazione e con una nuova notazione non cambia alcun fatto geografico». Tuttavia, è vero che possiamo essere irresistibilmente attratti o respinti da una notazione. (Dimentichiamo facilmente quanto una notazione, una forma d’espressione, può significare per noi e che cambiarla non è sempre tanto facile quanto spesso è invece nella matematica o nelle scienze. Un cambio d’abiti o di nomi può significare pochissimo e può significare moltissimo.)
Il nostro oscillare tra impossibilità logica e fisica ci porta a fare affermazioni come la seguente: «Se ciò che sento è sempre il ''mio'' dolore e basta, che cosa può significare la supposizione che qualcun altro provi dolore?». Ciò che va fatto in questi casi è sempre guardare come le parole in questione sono ''effettivamente usate nel nostro linguaggio''. In tutti questi casi pensiamo a un uso diverso da quello che il nostro linguaggio ordinario fa di tali parole. A un uso, però, che proprio in quel momento per qualche ragione ci si raccomanda fortemente. Quando qualcosa nella grammatica delle nostre parole sembra bizzarro, è perché siamo alternativamente tentati di utilizzare una parola in vari sensi diversi. E scoprire che un’asserzione fatta dal metafisico esprime insoddisfazione nei confronti della nostra grammatica è particolarmente difficile quando le parole di tale asserzione possono anche essere impiegate per descrivere un fatto empirico. Così, quando costui dice «solo il mio dolore è vero dolore», questa frase potrebbe significare che le altre persone si limitano a fingere. E se il metafisico dice «quando nessuno lo vede, quest’albero non esiste», ciò potrebbe significare «quest’albero {{BBB TS reference it|Ts-309,95}} svanisce quando gli voltiamo le spalle». Chi dice «solo il mio dolore è reale» non intende dire che ha stabilito in basi ai criteri comuni – i criteri, cioè, che danno alle parole i loro significati comuni – che gli altri che dicevano di provare dolore mentivano. Ciò contro cui costui si ribella è l’uso di ''quest’''espressione in connessione con ''questi'' criteri. Egli, cioè, protesta contro l’impiego di questa parola nel particolare modo in cui viene comunemente usata. D’altro canto, egli non si rende conto di protestare contro una convenzione. Vede una maniera di dividere il Paese diverso da quello utilizzato nella cartina ordinaria. Si sente tentato, diciamo, di utilizzare il nome «Devonshire» non per la contea con i suoi confini convenzionali, ma per una regione dai confini diversi. Potrebbe esprimere ciò dicendo: «Non è assurdo fare di ''questo'' una contea, tirare i confini ''qui''?». Ma ciò che dice è: «Il ''vero'' Devonshire è questo». Potremmo rispondere: «Ciò che vuoi è soltanto una nuova notazione e con una nuova notazione non cambia alcun fatto geografico». Tuttavia, è vero che possiamo essere irresistibilmente attratti o respinti da una notazione. (Dimentichiamo facilmente quanto una notazione, una forma d’espressione, può significare per noi e che cambiarla non è sempre tanto facile quanto spesso è invece nella matematica o nelle scienze. Un cambio d’abiti o di nomi può significare pochissimo e può significare moltissimo.)


Cercherò di chiarire il problema discusso da realisti, idealisti e solipsisti mostrandovi un problema a esso strettamente legato. È questo: «Possiamo avere pensieri inconsci, {{BBB TS reference it|Ts-309,}}sentimenti inconsci, ecc.?». L’idea che ci siano pensieri inconsci ha disgustato molte persone. Altri invece hanno detto che costoro sbagliavano a supporre che ci potessero essere soltanto pensieri consci e che la psicanalisi ha scoperto pensieri inconsci. Gli oppositori del pensiero inconscio non si rendevano conto che le loro obiezioni non riguardavano le reazioni psicologiche scoperte di recente, ma il modo in cui venivano descritte. Gli psicanalisti, d’altra parte, fuorviati dal loro stesso modo di esprimersi, pensavano di aver conseguito ben più della scoperta di nuove reazioni psicologiche; ritenevano di aver, in qualche modo, scoperto pensieri consci che erano inconsci. I primi avrebbero potuto formulare la propria obiezione dicendo «non vogliamo usare la locuzione “pensieri inconsci”; vogliamo riservare la parola “pensiero” a ciò che chiamiamo “pensieri consci”». Sbagliano a formulare il proprio punto di vista dicendo: «Ci possono solo essere pensieri consci e non pensieri inconsci». Perché, se non desiderano parlare di «pensieri inconsci», non dovrebbero impiegare la locuzione «pensieri consci».
Cercherò di chiarire il problema discusso da realisti, idealisti e solipsisti mostrandovi un problema a esso strettamente legato. È questo: «Possiamo avere pensieri inconsci, {{BBB TS reference it|Ts-309,96}} sentimenti inconsci, ecc.?». L’idea che ci siano pensieri inconsci ha disgustato molte persone. Altri invece hanno detto che costoro sbagliavano a supporre che ci potessero essere soltanto pensieri consci e che la psicanalisi ha scoperto pensieri inconsci. Gli oppositori del pensiero inconscio non si rendevano conto che le loro obiezioni non riguardavano le reazioni psicologiche scoperte di recente, ma il modo in cui venivano descritte. Gli psicanalisti, d’altra parte, fuorviati dal loro stesso modo di esprimersi, pensavano di aver conseguito ben più della scoperta di nuove reazioni psicologiche; ritenevano di aver, in qualche modo, scoperto pensieri consci che erano inconsci. I primi avrebbero potuto formulare la propria obiezione dicendo «non vogliamo usare la locuzione “pensieri inconsci”; vogliamo riservare la parola “pensiero” a ciò che chiamiamo “pensieri consci”». Sbagliano a formulare il proprio punto di vista dicendo: «Ci possono solo essere pensieri consci e non pensieri inconsci». Perché, se non desiderano parlare di «pensieri inconsci», non dovrebbero impiegare la locuzione «pensieri consci».


Ma non è giusto dire che, in ogni caso, la persona che parla sia di pensieri consci sia di pensieri inconsci, così facendo, utilizza la parola «pensiero» in due modi diversi? Usiamo un martello in due modi diversi quando battiamo un chiodo e quando invece infiliamo un piolo in una fessura?  E lo usiamo in due modi diversi oppure nello stesso modo quando infiliamo il piolo in questa fessura e quando invece infiliamo un altro piolo in un’altra {{BBB TS reference it|Ts-309,}}fessura? Oppure dovremmo chiamarli usi diversi soltanto quando in un caso infiliamo una cosa in un’altra e nell’altro caso spacchiamo qualcosa? Oppure tutto questo è sempre usare il martello in un solo modo e bisogna chiamarlo un modo diverso solo quando si usa il martello come fermacarte? – In quali casi dobbiamo dire che una parola è usata in due modi diversi e in quali che è usata in un modo solo? Dire che una parola è usata in due (o più) modi, in sé, non ci dà ancora un’idea del suo uso. Specifica soltanto un modo di guardare a quest’utilizzo fornendo uno schema con due (o più) suddivisioni per la sua descrizione. Va bene dire: «Faccio ''due'' cose con questo martello: pianto un chiodo in quest’asse e uno in quell’asse». Ma avrei potuto dire anche: «Sto facendo una cosa sola con questo martello; sto piantando un chiodo in quest’asse e uno in quell’asse». Possono esserci due tipi di discussione per chiarire «se una parola è usata in un modo o in due modi»: a) Due persone possono discutere se la parola italiana «attaccare» è impiegata soltanto per aggredire qualcosa o anche per unire due cose. Questa è una discussione che riguarda gli atti di un certo impiego effettivo. b) Costoro possono discutere se la parola «altus», che sta per «profondo» e «alto», è ''perciò'' usata in due modi diversi. Questa domanda è analoga alla domanda se la parola «pensiero» è usata in due modi o in un modo solo quando parliamo di pensiero conscio e inconscio. Chi dice «certamente si tratta di due usi diversi» ha già deciso di impiegare uno schema {{BBB TS reference it|Ts-309,}}dualistico e la sua affermazione ha espresso tale decisione.
Ma non è giusto dire che, in ogni caso, la persona che parla sia di pensieri consci sia di pensieri inconsci, così facendo, utilizza la parola «pensiero» in due modi diversi? Usiamo un martello in due modi diversi quando battiamo un chiodo e quando invece infiliamo un piolo in una fessura?  E lo usiamo in due modi diversi oppure nello stesso modo quando infiliamo il piolo in questa fessura e quando invece infiliamo un altro piolo in un’altra {{BBB TS reference it|Ts-309,97}} fessura? Oppure dovremmo chiamarli usi diversi soltanto quando in un caso infiliamo una cosa in un’altra e nell’altro caso spacchiamo qualcosa? Oppure tutto questo è sempre usare il martello in un solo modo e bisogna chiamarlo un modo diverso solo quando si usa il martello come fermacarte? – In quali casi dobbiamo dire che una parola è usata in due modi diversi e in quali che è usata in un modo solo? Dire che una parola è usata in due (o più) modi, in sé, non ci dà ancora un’idea del suo uso. Specifica soltanto un modo di guardare a quest’utilizzo fornendo uno schema con due (o più) suddivisioni per la sua descrizione. Va bene dire: «Faccio ''due'' cose con questo martello: pianto un chiodo in quest’asse e uno in quell’asse». Ma avrei potuto dire anche: «Sto facendo una cosa sola con questo martello; sto piantando un chiodo in quest’asse e uno in quell’asse». Possono esserci due tipi di discussione per chiarire «se una parola è usata in un modo o in due modi»: a) Due persone possono discutere se la parola italiana «attaccare» è impiegata soltanto per aggredire qualcosa o anche per unire due cose. Questa è una discussione che riguarda gli atti di un certo impiego effettivo. b) Costoro possono discutere se la parola «altus», che sta per «profondo» e «alto», è ''perciò'' usata in due modi diversi. Questa domanda è analoga alla domanda se la parola «pensiero» è usata in due modi o in un modo solo quando parliamo di pensiero conscio e inconscio. Chi dice «certamente si tratta di due usi diversi» ha già deciso di impiegare uno schema {{BBB TS reference it|Ts-309,98}} dualistico e la sua affermazione ha espresso tale decisione.


Ora quando il solipsista dice che solo le sue esperienze sono reali, non serve a nulla rispondergli: «Perché ce lo dici se non credi che lo sentiamo davvero?». O comunque, se gli diamo tale risposta, non dobbiamo credere di aver risposto alla sua difficoltà. Non c’è risposta di senso comune a un problema filosofico. Si può difendere il senso comune dagli attacchi dei filosofi soltanto risolvendo le loro perplessità, ossia guarendoli dalla tentazione di attaccare il senso comune; non ribadendo le concezioni del senso comune. Un filosofo non è un folle, uno che non vede ciò che vede chiunque altro; né d’altra parte il suo disaccordo con il senso comune è quello dello scienziato che dissente dalle rozze concezioni dell’uomo della strada. Ovverosia, il disaccordo del filosofo non è fondato su una conoscenza più sottile dei fatti. Perciò dobbiamo guardarci attorno alla ricerca della ''fonte'' del suo sconcerto. E ci accorgiamo che sorgono sconcerto e disagio mentale non soltanto quando la nostra curiosità su certi fatti non è soddisfatta o quando non riusciamo a trovare una legge naturale che combacia con tutta la nostra esperienza, ma anche quando una notazione non ci soddisfa, – magari a causa di varie associazioni che essa richiama. Il nostro linguaggio ordinario, che tra tutte le notazioni possibili è quella che pervade la nostra vita, tiene ferma per così dire la nostra mente in una posizione fissa, e stando in tale posizione talvolta sentiamo come un crampo e abbiamo il desiderio di trovare altre posizioni. Quindi in certi casi vorremmo una notazione che sottolinei {{BBB TS reference it|Ts-309,}}una differenza con più forza di quanto fa il linguaggio ordinario, che la renda più evidente, oppure una notazione che in un caso particolare impieghi forme d’espressione più simili tra loro di quanto fa il nostro linguaggio ordinario. Il crampo mentale si allenta quando ci si mostrano le notazioni che soddisfano tali necessità. Queste necessità possono essere molto varie.
Ora quando il solipsista dice che solo le sue esperienze sono reali, non serve a nulla rispondergli: «Perché ce lo dici se non credi che lo sentiamo davvero?». O comunque, se gli diamo tale risposta, non dobbiamo credere di aver risposto alla sua difficoltà. Non c’è risposta di senso comune a un problema filosofico. Si può difendere il senso comune dagli attacchi dei filosofi soltanto risolvendo le loro perplessità, ossia guarendoli dalla tentazione di attaccare il senso comune; non ribadendo le concezioni del senso comune. Un filosofo non è un folle, uno che non vede ciò che vede chiunque altro; né d’altra parte il suo disaccordo con il senso comune è quello dello scienziato che dissente dalle rozze concezioni dell’uomo della strada. Ovverosia, il disaccordo del filosofo non è fondato su una conoscenza più sottile dei fatti. Perciò dobbiamo guardarci attorno alla ricerca della ''fonte'' del suo sconcerto. E ci accorgiamo che sorgono sconcerto e disagio mentale non soltanto quando la nostra curiosità su certi fatti non è soddisfatta o quando non riusciamo a trovare una legge naturale che combacia con tutta la nostra esperienza, ma anche quando una notazione non ci soddisfa, – magari a causa di varie associazioni che essa richiama. Il nostro linguaggio ordinario, che tra tutte le notazioni possibili è quella che pervade la nostra vita, tiene ferma per così dire la nostra mente in una posizione fissa, e stando in tale posizione talvolta sentiamo come un crampo e abbiamo il desiderio di trovare altre posizioni. Quindi in certi casi vorremmo una notazione che sottolinei {{BBB TS reference it|Ts-309,99}} una differenza con più forza di quanto fa il linguaggio ordinario, che la renda più evidente, oppure una notazione che in un caso particolare impieghi forme d’espressione più simili tra loro di quanto fa il nostro linguaggio ordinario. Il crampo mentale si allenta quando ci si mostrano le notazioni che soddisfano tali necessità. Queste necessità possono essere molto varie.


Colui che chiamiamo un solipsista, e che dice che solo le sue esperienze sono reali, da un lato non è con ciò in disaccordo con noi riguardo a qualsivoglia questione pratica e fattuale, non afferma che quando ci lamentiamo di un dolore stiamo simulando, ci compatisce come chiunque altro, ma al contempo vorrebbe restringere l’impiego dell’epiteto «reale» a ciò che dovremmo chiamare le sue esperienze; e magari non vuole affatto chiamare «esperienze» le nostre esperienze (di nuovo, senza essere in disaccordo con noi su alcuna questione di fatto). Perché costui direbbe che è ''inconcepibile'' che altre esperienze che le sue siano reali. Dovrebbe dunque utilizzare una notazione in cui una locuzione quale «A ha realmente mal di denti» (dove A non è lui) è priva di significato, una notazione le cui regole escludono tale locuzione come le regole degli scacchi escludono che un pedone si muova come un cavallo. Ciò che il solipsista in fondo suggerisce è di usare una locuzione come «c’è mal di denti reale» al posto di «Smith (il solipsista) ha mal di denti». E perché non dovremmo concedergli questa notazione? È evidente che per evitare confusioni in questo caso non avrebbe proprio dovuto usare la parola «reale» in contrapposizione a «simulato»; il che significa soltanto che dovremmo provvedere alla{{BBB TS reference it|Ts-309,}} distinzione tra «reale» e «simulato» in qualche altro modo. Il solipsista che dice «solo io sento realmente dolore», «solo io vedo (o sento) realmente» non sta affermando un’opinione; per questo è così sicuro di ciò che afferma. Ha la tentazione irresistibile di impiegare una certa forma d’espressione; ma dobbiamo ancora scoprire ''perché''.
Colui che chiamiamo un solipsista, e che dice che solo le sue esperienze sono reali, da un lato non è con ciò in disaccordo con noi riguardo a qualsivoglia questione pratica e fattuale, non afferma che quando ci lamentiamo di un dolore stiamo simulando, ci compatisce come chiunque altro, ma al contempo vorrebbe restringere l’impiego dell’epiteto «reale» a ciò che dovremmo chiamare le sue esperienze; e magari non vuole affatto chiamare «esperienze» le nostre esperienze (di nuovo, senza essere in disaccordo con noi su alcuna questione di fatto). Perché costui direbbe che è ''inconcepibile'' che altre esperienze che le sue siano reali. Dovrebbe dunque utilizzare una notazione in cui una locuzione quale «A ha realmente mal di denti» (dove A non è lui) è priva di significato, una notazione le cui regole escludono tale locuzione come le regole degli scacchi escludono che un pedone si muova come un cavallo. Ciò che il solipsista in fondo suggerisce è di usare una locuzione come «c’è mal di denti reale» al posto di «Smith (il solipsista) ha mal di denti». E perché non dovremmo concedergli questa notazione? È evidente che per evitare confusioni in questo caso non avrebbe proprio dovuto usare la parola «reale» in contrapposizione a «simulato»; il che significa soltanto che dovremmo provvedere alla {{BBB TS reference it|Ts-309,100}} distinzione tra «reale» e «simulato» in qualche altro modo. Il solipsista che dice «solo io sento realmente dolore», «solo io vedo (o sento) realmente» non sta affermando un’opinione; per questo è così sicuro di ciò che afferma. Ha la tentazione irresistibile di impiegare una certa forma d’espressione; ma dobbiamo ancora scoprire ''perché''.


La locuzione «solo io vedo realmente» è strettamente connessa con l’idea espressa nell’asserzione «non sappiamo mai che cosa vede davvero il prossimo quando guarda una cosa» oppure «non possiamo mai sapere se chiama “blu” la stessa cosa che noi chiamiamo “blu”». Infatti, potremmo argomentare: «Non posso mai sapere che cosa vede lui o se lui vede o meno, perché tutto ciò che ho sono segni di vario genere che lui mi dà; dunque che lui veda è un’ipotesi assolutamente non necessaria; ciò che è vedere io lo so solo in base al fatto che vedo io; ho imparato la parola solo per intendere ciò che faccio io». Naturalmente, ciò semplicemente non è vero, perché ho senza dubbio imparato un uso diverso e ben più complicato della parola «vedere» rispetto a quanto ho professato or ora. Chiariamo ora la tendenza che mi ha guidato a esprimermi così, facendo un esempio preso da una sfera leggermente diversa: considera quest’argomento: «Come possiamo desiderare che questo foglio sia rosso se non è rosso? Non significherebbe che desidero ciò che non esiste affatto? Dunque, il mio desiderio può solo contenere qualcosa di ''simile'' al colore rosso del foglio. Non dovremmo allora impiegare una parola diversa invece di “rosso” quando parliamo di desiderare che qualcosa sia rosso?». L’immagine del desiderio certamente ci mostra qualcosa di meno definito, qualcosa di più vago, rispetto alla realtà {{BBB TS reference it|Ts-309,}}del colore rosso del foglio.
La locuzione «solo io vedo realmente» è strettamente connessa con l’idea espressa nell’asserzione «non sappiamo mai che cosa vede davvero il prossimo quando guarda una cosa» oppure «non possiamo mai sapere se chiama “blu” la stessa cosa che noi chiamiamo “blu”». Infatti, potremmo argomentare: «Non posso mai sapere che cosa vede lui o se lui vede o meno, perché tutto ciò che ho sono segni di vario genere che lui mi dà; dunque che lui veda è un’ipotesi assolutamente non necessaria; ciò che è vedere io lo so solo in base al fatto che vedo io; ho imparato la parola solo per intendere ciò che faccio io». Naturalmente, ciò semplicemente non è vero, perché ho senza dubbio imparato un uso diverso e ben più complicato della parola «vedere» rispetto a quanto ho professato or ora. Chiariamo ora la tendenza che mi ha guidato a esprimermi così, facendo un esempio preso da una sfera leggermente diversa: considera quest’argomento: «Come possiamo desiderare che questo foglio sia rosso se non è rosso? Non significherebbe che desidero ciò che non esiste affatto? Dunque, il mio desiderio può solo contenere qualcosa di ''simile'' al colore rosso del foglio. Non dovremmo allora impiegare una parola diversa invece di “rosso” quando parliamo di desiderare che qualcosa sia rosso?». L’immagine del desiderio certamente ci mostra qualcosa di meno definito, qualcosa di più vago, rispetto alla realtà {{BBB TS reference it|Ts-309,101}} del colore rosso del foglio.


Dovrei dunque dire, invece di «vorrei che questo foglio fosse rosso», qualcosa come «per questo foglio vorrei un rosso pallido». Ma se nel modo abituale di parlare lui avesse detto «per questo foglio vorrei un rosso pallido», noi per soddisfare tale desiderio avremmo dovuto dipingerlo di rosso pallido – e non era questo il suo desiderio. D’altra parte, non ci sono controindicazioni ad adottare la forma d’espressione da lui suggeritaci finché sappiamo che lui usa sempre la locuzione «per questo foglio vorrei un ''x'' pallido» per significare ciò che ordinariamente noi esprimiamo con «vorrei che questo foglio avesse il colore ''x''». Ciò che ha detto in realtà raccomandava la sua notazione, nel senso in cui una notazione può essere raccomandata. Non ci ha però detto una nuova verità e non ci ha mostrato che ciò che dicevamo prima era falso. (Tutto ciò connette questo nostro problema con il problema della negazione. Vi darò solo un indizio dicendo che è possibile una notazione in cui, per dirlo approssimativamente, una qualità ha sempre due nomi, uno per il caso in cui si dice che qualcosa ce l’ha, l’altro per il caso in cui si dice che qualcosa non ce l’ha. La negazione di «questo foglio è rosso» potrebbe dunque essere, poniamo, «questo foglio non è roro». Una tale notazione esaudirebbe effettivamente alcuni dei desideri che ci sono preclusi dal linguaggio ordinario e che talvolta producono un crampo di sconcerto filosofico a proposito dell’idea della negazione.)
Dovrei dunque dire, invece di «vorrei che questo foglio fosse rosso», qualcosa come «per questo foglio vorrei un rosso pallido». Ma se nel modo abituale di parlare lui avesse detto «per questo foglio vorrei un rosso pallido», noi per soddisfare tale desiderio avremmo dovuto dipingerlo di rosso pallido – e non era questo il suo desiderio. D’altra parte, non ci sono controindicazioni ad adottare la forma d’espressione da lui suggeritaci finché sappiamo che lui usa sempre la locuzione «per questo foglio vorrei un ''x'' pallido» per significare ciò che ordinariamente noi esprimiamo con «vorrei che questo foglio avesse il colore ''x''». Ciò che ha detto in realtà raccomandava la sua notazione, nel senso in cui una notazione può essere raccomandata. Non ci ha però detto una nuova verità e non ci ha mostrato che ciò che dicevamo prima era falso. (Tutto ciò connette questo nostro problema con il problema della negazione. Vi darò solo un indizio dicendo che è possibile una notazione in cui, per dirlo approssimativamente, una qualità ha sempre due nomi, uno per il caso in cui si dice che qualcosa ce l’ha, l’altro per il caso in cui si dice che qualcosa non ce l’ha. La negazione di «questo foglio è rosso» potrebbe dunque essere, poniamo, «questo foglio non è roro». Una tale notazione esaudirebbe effettivamente alcuni dei desideri che ci sono preclusi dal linguaggio ordinario e che talvolta producono un crampo di sconcerto filosofico a proposito dell’idea della negazione.)


La difficoltà che esprimiamo dicendo «non possiamo sapere ciò che lui vede quando afferma (dicendo la verità) di vedere una macchia blu» sorge dall’idea che «sapere ciò che lui vede» significa{{BBB TS reference it|Ts-309,}} «vedere ciò che vede anche lui»; non tuttavia nel senso in cui vediamo ciò che vede anche lui quando entrambi abbiamo sotto gli occhi lo stesso oggetto: ma nel senso in cui l’oggetto visto sarebbe un oggetto, poniamo, nella sua testa, o in ''lui''. L’idea è che lo stesso oggetto può essere sotto i suoi occhi e sotto i miei, ma che non posso infilare la testa dentro la sua (o la mente dentro la sua, che in fondo è lo stesso) in modo che l’oggetto ''reale'' e ''immediato'' del suo vedere diventi l’oggetto reale e immediato anche del mio vedere.  Con «non so ciò che vede» intendiamo, in realtà, «non so ciò che guarda», poiché «ciò che guarda» è nascosto e lui non può mostrarmelo; è ''davanti all’occhio della sua mente''. Quindi, per sbarazzarti del dilemma, esamina la differenza grammaticale tra le affermazioni «non so ciò che vede» e «non so ciò che guarda» per come sono effettivamente usate nel nostro linguaggio.
La difficoltà che esprimiamo dicendo «non possiamo sapere ciò che lui vede quando afferma (dicendo la verità) di vedere una macchia blu» sorge dall’idea che «sapere ciò che lui vede» significa {{BBB TS reference it|Ts-309,102}} «vedere ciò che vede anche lui»; non tuttavia nel senso in cui vediamo ciò che vede anche lui quando entrambi abbiamo sotto gli occhi lo stesso oggetto: ma nel senso in cui l’oggetto visto sarebbe un oggetto, poniamo, nella sua testa, o in ''lui''. L’idea è che lo stesso oggetto può essere sotto i suoi occhi e sotto i miei, ma che non posso infilare la testa dentro la sua (o la mente dentro la sua, che in fondo è lo stesso) in modo che l’oggetto ''reale'' e ''immediato'' del suo vedere diventi l’oggetto reale e immediato anche del mio vedere.  Con «non so ciò che vede» intendiamo, in realtà, «non so ciò che guarda», poiché «ciò che guarda» è nascosto e lui non può mostrarmelo; è ''davanti all’occhio della sua mente''. Quindi, per sbarazzarti del dilemma, esamina la differenza grammaticale tra le affermazioni «non so ciò che vede» e «non so ciò che guarda» per come sono effettivamente usate nel nostro linguaggio.


Talvolta l’espressione più soddisfacente del nostro solipsismo pare essere questa: «Quando una cosa viene vista (davvero ''vista''), sono sempre io che la vedo».
Talvolta l’espressione più soddisfacente del nostro solipsismo pare essere questa: «Quando una cosa viene vista (davvero ''vista''), sono sempre io che la vedo».


Ciò che in quest’espressione dovrebbe colpirci è la locuzione «sempre io». Sempre ''chi''? – Poiché, bizzarro, non intendo: «sempre L.W.». Questo ci porta a considerare i criteri per l’identità di una persona. In quali circostanze diciamo: «Questa è la stessa persona che ho visto un’ora fa»? Il nostro uso effettivo della locuzione «la stessa persona» e dei nomi di persona è basato sul fatto che molte caratteristiche che usiamo come criteri d’identità coincidono nella stragrande{{BBB TS reference it|Ts-309,}} maggioranza dei casi. Di regola vengo riconosciuto per l’aspetto del mio corpo. Il mio corpo cambia aspetto solo gradualmente e in misura piuttosto limitata, proprio come la mia voce, le mie abitudini caratteristiche, ecc. cambiano solo lentamente e, nel complesso, non di molto. Siamo portati a usare i nomi di persona nel modo in cui li usiamo solo in conseguenza di tali fatti. La maniera migliore per accorgersene consiste nell’immaginare casi fittizi che ci mostrano quali diverse «geometrie» saremmo propensi a utilizzare se i fatti fossero diversi. Immagina, per esempio, che tutti i corpi umani esistenti avessero lo stesso aspetto e che d’altro canto vari insiemi di caratteristiche sembrassero, per così dire, cambiare di residenza tra questi corpi. Un tale insiemi di caratteristiche potrebbe essere, poniamo, la mitezza accompagnata da una voce acuta e da movimenti lenti, oppure un temperamento collerico, una voce profonda e movimenti che procedono a scatti, o simili. In circostanze del genere, pur essendo possibile dare nomi ai corpi, saremmo forse tanto poco propensi a farlo quanto lo siamo a dare nomi alle sedie della nostra sala da pranzo. Tuttavia, sarebbe utile dare nomi agli insiemi di caratteristiche e l’uso di tali nomi corrisponderebbe ''più o meno'' a quello dei nomi di persona nel nostro attuale linguaggio.
Ciò che in quest’espressione dovrebbe colpirci è la locuzione «sempre io». Sempre ''chi''? – Poiché, bizzarro, non intendo: «sempre L.W.». Questo ci porta a considerare i criteri per l’identità di una persona. In quali circostanze diciamo: «Questa è la stessa persona che ho visto un’ora fa»? Il nostro uso effettivo della locuzione «la stessa persona» e dei nomi di persona è basato sul fatto che molte caratteristiche che usiamo come criteri d’identità coincidono nella stragrande {{BBB TS reference it|Ts-309,103}} maggioranza dei casi. Di regola vengo riconosciuto per l’aspetto del mio corpo. Il mio corpo cambia aspetto solo gradualmente e in misura piuttosto limitata, proprio come la mia voce, le mie abitudini caratteristiche, ecc. cambiano solo lentamente e, nel complesso, non di molto. Siamo portati a usare i nomi di persona nel modo in cui li usiamo solo in conseguenza di tali fatti. La maniera migliore per accorgersene consiste nell’immaginare casi fittizi che ci mostrano quali diverse «geometrie» saremmo propensi a utilizzare se i fatti fossero diversi. Immagina, per esempio, che tutti i corpi umani esistenti avessero lo stesso aspetto e che d’altro canto vari insiemi di caratteristiche sembrassero, per così dire, cambiare di residenza tra questi corpi. Un tale insiemi di caratteristiche potrebbe essere, poniamo, la mitezza accompagnata da una voce acuta e da movimenti lenti, oppure un temperamento collerico, una voce profonda e movimenti che procedono a scatti, o simili. In circostanze del genere, pur essendo possibile dare nomi ai corpi, saremmo forse tanto poco propensi a farlo quanto lo siamo a dare nomi alle sedie della nostra sala da pranzo. Tuttavia, sarebbe utile dare nomi agli insiemi di caratteristiche e l’uso di tali nomi corrisponderebbe ''più o meno'' a quello dei nomi di persona nel nostro attuale linguaggio.


Oppure immagina che normalmente un uomo abbia due personaggi, nel seguente modo: la sua forma, la sua stazza e le caratteristiche del suo comportamento ogni tanto cambiano inspiegabilmente. È normale che un uomo abbia due di questi stati e che improvvisamente scivoli dall’uno all’altro. È molto probabile che in tal {{BBB TS reference it|Ts-309,}}caso saremmo portati a battezzare ogni uomo con due nomi e magari a parlare delle due persone presenti nel suo corpo. Il dottor Jekyll e Mr Hyde erano due persone oppure erano la stessa persona che semplicemente cambiava? Possiamo scegliere l’alternativa che preferiamo. Non siamo costretti a parlare di doppia personalità.
Oppure immagina che normalmente un uomo abbia due personaggi, nel seguente modo: la sua forma, la sua stazza e le caratteristiche del suo comportamento ogni tanto cambiano inspiegabilmente. È normale che un uomo abbia due di questi stati e che improvvisamente scivoli dall’uno all’altro. È molto probabile che in tal {{BBB TS reference it|Ts-309,104}} caso saremmo portati a battezzare ogni uomo con due nomi e magari a parlare delle due persone presenti nel suo corpo. Il dottor Jekyll e Mr Hyde erano due persone oppure erano la stessa persona che semplicemente cambiava? Possiamo scegliere l’alternativa che preferiamo. Non siamo costretti a parlare di doppia personalità.


Ci sono molti usi della parola «personalità» che possiamo sentirci portati ad adottare, tutti più o meno analoghi. Lo stesso vale quando definiamo l’identità di una persona per mezzo dei suoi ricordi. Immagina un uomo i cui ricordi, durante i giorni pari della sua vita, includono gli eventi di tutti i giorni pari, ma saltando completamente i giorni dispari; d’altra pare, nei giorni dispari l’uomo ricorda ciò che è accaduto nei giorni dispari precedenti, ma la sua memoria salta i giorni pari senza alcuna sensazione di discontinuità. Se ci aggrada, possiamo supporre anche che, a seconda che si tratti di un giorno pari o dispari, costui abbia aspetti e caratteristiche diverse. Dobbiamo dire che qui due persone stanno abitando lo stesso corpo? Cioè, è giusto dire che ci sono due persone, e sbagliato dire che non ci sono, oppure viceversa? Nessuna delle due. Perché l’uso ''ordinario'' della parola «persona» è ciò potremmo chiamare un uso composito adatto alle circostanze ordinarie. Se presuppongo, come sto facendo ora, che tali circostanze siano cambiate, l’applicazione del termine «persona» o «personalità» è per ciò stesso cambiato, e se desidero preservare tale termine e fornirgli un uso analogo al suo uso precedente, sono libero di scegliere tra molti usi, cioè tra molti tipi diversi di analogia. Si potrebbe dire che in un caso simile {{BBB TS reference it|Ts-309,}}il termine «personalità» non ha un unico erede legittimo. (Questo tipo di considerazione è rilevante nella filosofia della matematica. Considera l’uso delle parole «dimostrazione», «formula,» e altre. Considera la domanda: «Perché ciò che facciamo qui dovrebbe essere chiamato “filosofia?” Perché dovrebbe essere visto come l’unico erede legittimo delle diverse attività che in passato avevano questo nome?»)
Ci sono molti usi della parola «personalità» che possiamo sentirci portati ad adottare, tutti più o meno analoghi. Lo stesso vale quando definiamo l’identità di una persona per mezzo dei suoi ricordi. Immagina un uomo i cui ricordi, durante i giorni pari della sua vita, includono gli eventi di tutti i giorni pari, ma saltando completamente i giorni dispari; d’altra pare, nei giorni dispari l’uomo ricorda ciò che è accaduto nei giorni dispari precedenti, ma la sua memoria salta i giorni pari senza alcuna sensazione di discontinuità. Se ci aggrada, possiamo supporre anche che, a seconda che si tratti di un giorno pari o dispari, costui abbia aspetti e caratteristiche diverse. Dobbiamo dire che qui due persone stanno abitando lo stesso corpo? Cioè, è giusto dire che ci sono due persone, e sbagliato dire che non ci sono, oppure viceversa? Nessuna delle due. Perché l’uso ''ordinario'' della parola «persona» è ciò potremmo chiamare un uso composito adatto alle circostanze ordinarie. Se presuppongo, come sto facendo ora, che tali circostanze siano cambiate, l’applicazione del termine «persona» o «personalità» è per ciò stesso cambiato, e se desidero preservare tale termine e fornirgli un uso analogo al suo uso precedente, sono libero di scegliere tra molti usi, cioè tra molti tipi diversi di analogia. Si potrebbe dire che in un caso simile {{BBB TS reference it|Ts-309,105}} il termine «personalità» non ha un unico erede legittimo. (Questo tipo di considerazione è rilevante nella filosofia della matematica. Considera l’uso delle parole «dimostrazione», «formula,» e altre. Considera la domanda: «Perché ciò che facciamo qui dovrebbe essere chiamato “filosofia?” Perché dovrebbe essere visto come l’unico erede legittimo delle diverse attività che in passato avevano questo nome?»)


Ora chiediamoci a che genere di identità di personalità ci stiamo riferendo quando diciamo: «Quando una cosa viene vista, sono sempre io che vedo». Che cos’è che voglio che abbiano in comune tutte queste istanze del vedere? Come risposta, devo confessare a me stesso che non si tratta del mio aspetto corporeo. Quando vedo, non vedo sempre parte del mio corpo. E non è essenziale che il mio corpo, se visto tra le cose che vedo, debba sempre avere lo stesso aspetto. In effetti, non mi interessa quanto esso cambia. E i miei sentimenti sono gli stessi nei confronti delle proprietà del mio corpo, delle caratteristiche del mio comportamento e persino dei miei ricordi. – Pensandoci un po’ più a lungo mi accorgo che ciò che desideravo dire era: «Sempre, quando una cosa viene vista, qualcosa viene visto». Ossia, ciò di cui ho detto che continuava durante tutte le esperienze del vedere non era alcuna particolare entità «io», ma l’esperienza stessa del vedere. Ciò può divenire più chiaro se immaginiamo che l’uomo che fa la nostra affermazione solipsistica mentre dice «io» indichi i propri occhi. (Magari perché desidera essere esatto e vuole dire espressamente quali occhi appartengono alla bocca che dice «io» e {{BBB TS reference it|Ts-309,}}alle mani che indicano il suo corpo.) Ma che cos’è che sta indicando? Questi particolari occhi con l’identità di oggetti fisici? (Per comprendere tale frase devi ricordare che la grammatica delle parole di cui diciamo che stanno per oggetti fisici è caratterizzata dal modo in cui utilizziamo la locuzione «lo ''stesso'' così e così», o «l’identico così e così» dove così e così designa l’oggetto fisico.) Abbiamo detto prima che non desideravamo affatto indicare un particolare oggetto fisico. L’idea che costui avesse fatto un’affermazione dotata di significato è sorta da una confusione corrispondente alla confusione tra ciò che chiameremo «l’occhio geometrico» e «l’occhio fisico». Indicherò l’uso di questi termini: se un uomo cerca di eseguire l’ordine «indica il tuo occhio», può fare molte cose diverse e ci sono molti criteri diversi per il fatto di aver indicato il proprio occhio che considererà accettabili. Se questi criteri, come accade di solito, coincidono, posso usarli alternativamente e in diverse combinazioni per mostrare a me stesso che mi sono toccato l’occhio. Se non coincidono, dovrò distinguere tra sensi diversi della locuzione «mi tocco l’occhio» o «muovo il dito verso il mio occhio». Se ho gli occhi chiusi, per esempio, posso comunque avere nel braccio la caratteristica esperienza cinestetica che chiamerei l’esperienza cinestetica di sollevare la mano verso l’occhio. Il fatto di esserci riuscito lo riconoscerò in base alla caratteristica sensazione tattile di toccarmi l’occhio. Ma se il mio occhio fosse dietro una lastra di vetro assicurata in modo tale da impedirmi {{BBB TS reference it|Ts-309,}}di esercitare una pressione sull’occhio con il dito, ci sarebbe comunque un criterio di sensazione muscolare che mi farebbe dire che il dito è davanti all’occhio. Per quanto riguarda i criteri visivi, posso adottarne due. C’è l’esperienza ordinaria di vedere la mano alzarsi e avvicinarsi all’occhio, e questa esperienza naturalmente è diversa dal vedere due cose che si incontrano, per esempio due polpastrelli. D’altra parte, posso utilizzare come criterio per il fatto che il mio dito si muove verso l’occhio ciò che vedo quando guardo in uno specchio e vedo il dito accostarsi all’occhio. Se il punto del mio corpo che, come diciamo, «vede» va determinato muovendo il dito verso l’occhio, in accordo con il secondo criterio, allora è concepibile che io possa vedere con ciò che in base ad altri criteri è la punta del naso o qualche zona della fronte; oppure potrei indicare in questo modo un luogo posto fuori dal mio corpo. Se desidero che una persona indichi il proprio occhio (o i propri occhi) in base soltanto al secondo criterio, esprimerò il mio desiderio dicendo: «Indica il tuo occhio geometrico (o i tuoi occhi geometrici)». La grammatica della parola «occhio geometrico» sta con la grammatica della parola «occhio fisico» nella stessa relazione in cui la grammatica dell’espressione «il dato sensoriale visivo di un albero» sta alla grammatica dell’espressione «l’albero fisico». In entrambi i casi dire «l’uno è un ''tipo diverso'' di oggetto rispetto all’altro» confonde tutto; poiché chi dice che un dato sensoriale è un tipo di oggetto diverso da un oggetto fisico fraintende la grammatica della parola «tipo», proprio come chi dice che un numero è un tipo di {{BBB TS reference it|Ts-309,}}oggetto diverso da un numerale. Chi dice così pensa di fare un’affermazione quale «un convoglio ferroviario, una stazione ferroviaria e un vagone ferroviario sono tipi diversi di oggetti», mentre la loro affermazione è analoga a «un convoglio ferroviario, un incidente ferroviario e una legge ferroviaria sono tipi diversi di oggetti».
Ora chiediamoci a che genere di identità di personalità ci stiamo riferendo quando diciamo: «Quando una cosa viene vista, sono sempre io che vedo». Che cos’è che voglio che abbiano in comune tutte queste istanze del vedere? Come risposta, devo confessare a me stesso che non si tratta del mio aspetto corporeo. Quando vedo, non vedo sempre parte del mio corpo. E non è essenziale che il mio corpo, se visto tra le cose che vedo, debba sempre avere lo stesso aspetto. In effetti, non mi interessa quanto esso cambia. E i miei sentimenti sono gli stessi nei confronti delle proprietà del mio corpo, delle caratteristiche del mio comportamento e persino dei miei ricordi. – Pensandoci un po’ più a lungo mi accorgo che ciò che desideravo dire era: «Sempre, quando una cosa viene vista, qualcosa viene visto». Ossia, ciò di cui ho detto che continuava durante tutte le esperienze del vedere non era alcuna particolare entità «io», ma l’esperienza stessa del vedere. Ciò può divenire più chiaro se immaginiamo che l’uomo che fa la nostra affermazione solipsistica mentre dice «io» indichi i propri occhi. (Magari perché desidera essere esatto e vuole dire espressamente quali occhi appartengono alla bocca che dice «io» e {{BBB TS reference it|Ts-309,106}} alle mani che indicano il suo corpo.) Ma che cos’è che sta indicando? Questi particolari occhi con l’identità di oggetti fisici? (Per comprendere tale frase devi ricordare che la grammatica delle parole di cui diciamo che stanno per oggetti fisici è caratterizzata dal modo in cui utilizziamo la locuzione «lo ''stesso'' così e così», o «l’identico così e così» dove così e così designa l’oggetto fisico.) Abbiamo detto prima che non desideravamo affatto indicare un particolare oggetto fisico. L’idea che costui avesse fatto un’affermazione dotata di significato è sorta da una confusione corrispondente alla confusione tra ciò che chiameremo «l’occhio geometrico» e «l’occhio fisico». Indicherò l’uso di questi termini: se un uomo cerca di eseguire l’ordine «indica il tuo occhio», può fare molte cose diverse e ci sono molti criteri diversi per il fatto di aver indicato il proprio occhio che considererà accettabili. Se questi criteri, come accade di solito, coincidono, posso usarli alternativamente e in diverse combinazioni per mostrare a me stesso che mi sono toccato l’occhio. Se non coincidono, dovrò distinguere tra sensi diversi della locuzione «mi tocco l’occhio» o «muovo il dito verso il mio occhio». Se ho gli occhi chiusi, per esempio, posso comunque avere nel braccio la caratteristica esperienza cinestetica che chiamerei l’esperienza cinestetica di sollevare la mano verso l’occhio. Il fatto di esserci riuscito lo riconoscerò in base alla caratteristica sensazione tattile di toccarmi l’occhio. Ma se il mio occhio fosse dietro una lastra di vetro assicurata in modo tale da impedirmi {{BBB TS reference it|Ts-309,107}} di esercitare una pressione sull’occhio con il dito, ci sarebbe comunque un criterio di sensazione muscolare che mi farebbe dire che il dito è davanti all’occhio. Per quanto riguarda i criteri visivi, posso adottarne due. C’è l’esperienza ordinaria di vedere la mano alzarsi e avvicinarsi all’occhio, e questa esperienza naturalmente è diversa dal vedere due cose che si incontrano, per esempio due polpastrelli. D’altra parte, posso utilizzare come criterio per il fatto che il mio dito si muove verso l’occhio ciò che vedo quando guardo in uno specchio e vedo il dito accostarsi all’occhio. Se il punto del mio corpo che, come diciamo, «vede» va determinato muovendo il dito verso l’occhio, in accordo con il secondo criterio, allora è concepibile che io possa vedere con ciò che in base ad altri criteri è la punta del naso o qualche zona della fronte; oppure potrei indicare in questo modo un luogo posto fuori dal mio corpo. Se desidero che una persona indichi il proprio occhio (o i propri occhi) in base soltanto al secondo criterio, esprimerò il mio desiderio dicendo: «Indica il tuo occhio geometrico (o i tuoi occhi geometrici)». La grammatica della parola «occhio geometrico» sta con la grammatica della parola «occhio fisico» nella stessa relazione in cui la grammatica dell’espressione «il dato sensoriale visivo di un albero» sta alla grammatica dell’espressione «l’albero fisico». In entrambi i casi dire «l’uno è un ''tipo diverso'' di oggetto rispetto all’altro» confonde tutto; poiché chi dice che un dato sensoriale è un tipo di oggetto diverso da un oggetto fisico fraintende la grammatica della parola «tipo», proprio come chi dice che un numero è un tipo di {{BBB TS reference it|Ts-309,108}} oggetto diverso da un numerale. Chi dice così pensa di fare un’affermazione quale «un convoglio ferroviario, una stazione ferroviaria e un vagone ferroviario sono tipi diversi di oggetti», mentre la loro affermazione è analoga a «un convoglio ferroviario, un incidente ferroviario e una legge ferroviaria sono tipi diversi di oggetti».


A ciò che generava in me la tentazione di dire «sono sempre io che vedo quando qualcosa viene visto» avrei potuto cedere anche dicendo «ogniqualvolta qualcosa viene visto, è ''questo'' che viene visto», accompagnando la parola «questo» con un gesto che abbraccia il mio campo visivo (ma non intendendo con «questo» i particolari oggetti che si dava il caso io vedessi in quel momento). Si potrebbe dire «sto indicando il campo visivo in quanto tale, non qualcosa al suo interno». E questo serve soltanto a rendere evidente l’insensatezza dell’espressione precedente.
A ciò che generava in me la tentazione di dire «sono sempre io che vedo quando qualcosa viene visto» avrei potuto cedere anche dicendo «ogniqualvolta qualcosa viene visto, è ''questo'' che viene visto», accompagnando la parola «questo» con un gesto che abbraccia il mio campo visivo (ma non intendendo con «questo» i particolari oggetti che si dava il caso io vedessi in quel momento). Si potrebbe dire «sto indicando il campo visivo in quanto tale, non qualcosa al suo interno». E questo serve soltanto a rendere evidente l’insensatezza dell’espressione precedente.


Sbarazziamoci allora del «sempre» nella nostra espressione. In tal caso posso comunque esprimere il mio solipsismo dicendo «solo ciò che ''io'' vedo (oppure: vedo ora) viene visto davvero». E qui sono tentato di dire: «Anche se con la parola “io” non intendo L.W., andrà bene lo stesso se gli altri intendono “io” come L.W. dal momento che proprio adesso io in effetti sono L.W.». Potrei anche esprimere la mia tesi dicendo: «Sono io il contenitore della vita»; ma sta’ attento, è essenziale che tutti coloro a cui lo dico siano incapaci di comprendermi. È essenziale che l’altro non sia in grado di comprendere «ciò che ''io'' davvero ''intendo''», anche se nella pratica potrebbe fare ciò che desidero concedendomi una posizione eccezionale nella sua notazione. Ma io vorrei che fosse ''logicamente'' impossibile che lui mi capisse; cioè affermare che lui mi comprende dovrebbe essere ''privo di significato'', {{BBB TS reference it|Ts-309,}}non falso. Quindi la mia espressione è una tra le molte espressioni che vengono usate in varie occasioni dai filosofi e che dovrebbero comunicare qualcosa alla persona che le dice, pur essendo essenzialmente incapace di comunicare alcunché a chiunque altro. Ora, se comunicare un significato significa essere accompagnati da o produrre certe esperienze, la nostra espressione può avere tutto uno stuolo di significati, su cui io non sono in grado di dire nulla. Siamo però, di fatto, portati a pensare che la nostra espressione abbia un significato nel senso in cui ce l’ha un’espressione non metafisica; poiché paragoniamo erroneamente il nostro caso a un caso in cui l’altra persona non può comprendere ciò che diciamo perché ignora una certa informazione. (Questa osservazione può diventare chiara soltanto se comprendiamo la connessione tra grammatica e senso e nonsenso).
Sbarazziamoci allora del «sempre» nella nostra espressione. In tal caso posso comunque esprimere il mio solipsismo dicendo «solo ciò che ''io'' vedo (oppure: vedo ora) viene visto davvero». E qui sono tentato di dire: «Anche se con la parola “io” non intendo L.W., andrà bene lo stesso se gli altri intendono “io” come L.W. dal momento che proprio adesso io in effetti sono L.W.». Potrei anche esprimere la mia tesi dicendo: «Sono io il contenitore della vita»; ma sta’ attento, è essenziale che tutti coloro a cui lo dico siano incapaci di comprendermi. È essenziale che l’altro non sia in grado di comprendere «ciò che ''io'' davvero ''intendo''», anche se nella pratica potrebbe fare ciò che desidero concedendomi una posizione eccezionale nella sua notazione. Ma io vorrei che fosse ''logicamente'' impossibile che lui mi capisse; cioè affermare che lui mi comprende dovrebbe essere ''privo di significato'', {{BBB TS reference it|Ts-309,109}} non falso. Quindi la mia espressione è una tra le molte espressioni che vengono usate in varie occasioni dai filosofi e che dovrebbero comunicare qualcosa alla persona che le dice, pur essendo essenzialmente incapace di comunicare alcunché a chiunque altro. Ora, se comunicare un significato significa essere accompagnati da o produrre certe esperienze, la nostra espressione può avere tutto uno stuolo di significati, su cui io non sono in grado di dire nulla. Siamo però, di fatto, portati a pensare che la nostra espressione abbia un significato nel senso in cui ce l’ha un’espressione non metafisica; poiché paragoniamo erroneamente il nostro caso a un caso in cui l’altra persona non può comprendere ciò che diciamo perché ignora una certa informazione. (Questa osservazione può diventare chiara soltanto se comprendiamo la connessione tra grammatica e senso e nonsenso).


Il significato di una locuzione per noi è caratterizzato dall’impiego che ne facciamo. Il significato non è un accompagnamento mentale dell’espressione. Quindi la locuzione «penso d’intendere qualcosa con ciò», oppure «sono certo d’intendere qualcosa con ciò», che sentiamo così di frequente nei dibattiti filosofici per giustificare l’uso di un’espressione, per noi non è affatto una giustificazione. Chiediamo «''cosa'' intendi?», cioè «come usi quest’espressione?». Se qualcuno mi insegna la parola «panca» e mi dice che talvolta o sempre traccia su di essa una linea in questo modo: «{{overline|panca}}», e che questo per lui significa qualcosa, io dovrei dirgli: «Non so che genere d’idea tu associ a questa linea, ma non mi interessa a meno che tu non mi mostri che per essa esiste un uso nel tipo di calcolo in cui io desidero usare la parola “panca”». – Voglio giocare a scacchi e un uomo mette in testa al re bianco una corona di carta, senza alterare l’uso del pezzo, ma dicendomi che per lui la corona ha un significato nel gioco che lui non può esprimere sotto forma di regola. Gli dico: «Finché non altera l’uso del pezzo, non ha ciò che io chiamo un significato».
Il significato di una locuzione per noi è caratterizzato dall’impiego che ne facciamo. Il significato non è un accompagnamento mentale dell’espressione. Quindi la locuzione «penso d’intendere qualcosa con ciò», oppure «sono certo d’intendere qualcosa con ciò», che sentiamo così di frequente nei dibattiti filosofici per giustificare l’uso di un’espressione, per noi non è affatto una giustificazione. Chiediamo «''cosa'' intendi?», cioè «come usi quest’espressione?». Se qualcuno mi insegna la parola «panca» e mi dice che talvolta o sempre traccia su di essa una linea in questo modo: «{{overline|panca}}», e che questo per lui significa qualcosa, io dovrei dirgli: «Non so che genere d’idea tu associ a questa linea, ma non mi interessa a meno che tu non mi mostri che {{BBB TS reference it|Ts-309,110}} per essa esiste un uso nel tipo di calcolo in cui io desidero usare la parola “panca”». – Voglio giocare a scacchi e un uomo mette in testa al re bianco una corona di carta, senza alterare l’uso del pezzo, ma dicendomi che per lui la corona ha un significato nel gioco che lui non può esprimere sotto forma di regola. Gli dico: «Finché non altera l’uso del pezzo, non ha ciò che io chiamo un significato».


Talvolta si sente dire che una locuzione quale «questo è qui», quando la pronuncio indicando una zona del mio campo visivo, ha per me una sorta di significato primitivo, pur non potendo comunicare a nessun altro alcuna informazione.
Talvolta si sente dire che una locuzione quale «questo è qui», quando la pronuncio indicando una zona del mio campo visivo, ha per me una sorta di significato primitivo, pur non potendo comunicare a nessun altro alcuna informazione.


Quando dico «solo questo viene visto», dimentico che una frase può suonarci assolutamente naturale senza avere alcun impiego nel calcolo del linguaggio. Pensa alla legge d’identità «a = a» e a come talvolta ci sforziamo di afferrarne il senso, di visualizzarlo, guardando un oggetto e ripetendo a noi stessi una frase quale «quest’albero è la stessa cosa di quest’albero». I gesti e le immagini con cui apparentemente do senso a questa frase sono molto simili a quelli che utilizzo nel caso di «solo ''questo'' è visto». (Per chiarire dei problemi filosofici, è utile divenire consapevoli dei dettagli apparentemente trascurabili della situazione particolare in cui siamo propensi a fare una certa asserzione metafisica. Così avremmo la tentazione di dire «solo questo viene davvero visto» quando fissiamo un ambiente statico, mentre non saremmo affatto tentati di dirlo quando ci guardiamo attorno {{BBB TS reference it|Ts-309,}}camminando.) Non ci sono controindicazioni, come abbiamo detto, all’adozione di un simbolismo in cui una certa persona, sempre o temporaneamente, occupa una posizione eccezionale. Dunque, se pronuncio la frase «solo io vedo realmente», è concepibile che i miei simili aggiustino perciò la loro notazione in modo da allinearsi a me, dicendo «questo e questo viene visto realmente» invece di «L.W. vede questo e questo», ecc. Ciò che comunque è sbagliato è il fatto di pensare che io possa ''giustificare'' la scelta di tale notazione. Quando ho detto, dal cuore, che solo io vedo, ero anche portato a dire che con «io» non intendevo davvero L.W., anche se a beneficio dei miei simili potrei dire «adesso è L.W. che vede realmente», pur non essendo questo che davvero intendo. Potrei quasi dire che con «io» intendo qualcosa che proprio ora risiede in L.W., qualcosa che gli altri non possono vedere. (Intendevo la mia mente, ma potevo indicarla solo tramite il mio corpo.) Non c’è nulla di sbagliato nel suggerire che gli altri dovrebbero darmi una posizione eccezionale nella loro notazione, ma la giustificazione che vorrei fornire – che questo corpo è ora la sede di ciò che vive realmente – è priva di senso. Perché bisogna ammettere che dire così non equivale ad affermare qualcosa che nel senso ordinario è una questione empirica. (E non pensare che sia una proposizione empirica che solo io posso conoscere perché solo io sono nella posizione di avere questa particolare esperienza.) Ora, l’idea che l’io reale abiti nel mio corpo è connessa con la grammatica particolare della parola «io» e con i fraintendimenti a cui {{BBB TS reference it|Ts-309,}}tale grammatica tende a dare adito. Ci sono due diversi casi dell’uso della parola «io» (oppure «mio»), che potrei chiamare «l’uso in quanto oggetto» e «l’uso in quanto soggetto» Esempi del primo tipo di uso sono questi: «il mio braccio è rotto», «io sono cresciuto di quindici centimetri», «io ho un bernoccolo sulla fronte», «il vento mi scompiglia i capelli». Esempi del secondo tipo sono: «''io'' vedo questo e questo», «''io'' sento questo e questo», «''io'' pensò che pioverà», «''io'' ho mal di denti». Si può indicare la differenza tra queste due categorie dicendo: i casi della prima categoria comportano il riconoscimento di una persona particolare e in questi casi c’è la possibilità di un errore, o anzi dovrei dire: è stata prevista la possibilità di un errore. La possibilità di fallire un punto è stata prevista nel flipper. D’altro canto, il fatto che le palline non vengano fuori se ho messo un centesimo nella fessura non è uno dei rischi del gioco. È possibile che, in un incidente, ad esempio, io senta un dolore al braccio, che veda un braccio rotto lungo il mio fianco e che pensi che sia mio, quando in realtà è del mio vicino. E potrei, guardando in uno specchietto, scambiare un bernoccolo sulla sua fronte per un bernoccolo sulla mia. Dall’altra parte, quando dico che ho mal di denti, non si tratta affatto di riconoscere una persona. Chiedere «sei sicuro di essere ''tu'' a provare dolore?» sarebbe privo di senso. Ora, quando in questo caso non è possibile alcun errore, è perché la mossa che potremmo essere propensi a considerare un errore, una «mossa sbagliata», non è affatto una mossa del gioco. (Distinguiamo negli scacchi tra buone e cattive mosse e, se esponiamo la {{BBB TS reference it|Ts-309,}}regina a un alfiere, lo chiamiamo un errore. Ma promuovere un pedone a re non è un errore.) E ora questo modo di formulare la nostra idea ci si suggerisce da solo: è altrettanto impossibile che nell’affermare «ho mal di denti» io abbia scambiato un’altra persona per me stesso quanto lo è gemere di dolore per errore, avendo scambiato qualcun altro per me stesso. Dire «ho dolore» non è fare un’affermazione ''su'' una persona particolare più di quanto non lo sia gemere. «Ma certamente la parola “io” in bocca a un uomo si riferisce all’uomo che la pronuncia; indica lui stesso; e molto spesso chi la dice indica se stesso con il dito». Indicare se stesso però era assolutamente superfluo. Avrebbe potuto anche solo alzare la mano. Sarebbe sbagliato dire che quando qualcuno indica il sole con la mano indica sia il sole sia se stesso perché è ''lui'' che indica; d’altra parte, indicando può attrarre l’attenzione sia sul sole sia su di sé.
Quando dico «solo questo viene visto», dimentico che una frase può suonarci assolutamente naturale senza avere alcun impiego nel calcolo del linguaggio. Pensa alla legge d’identità «a = a» e a come talvolta ci sforziamo di afferrarne il senso, di visualizzarlo, guardando un oggetto e ripetendo a noi stessi una frase quale «quest’albero è la stessa cosa di quest’albero». I gesti e le immagini con cui apparentemente do senso a questa frase sono molto simili a quelli che utilizzo nel caso di «solo ''questo'' è visto». (Per chiarire dei problemi filosofici, è utile divenire consapevoli dei dettagli apparentemente trascurabili della situazione particolare in cui siamo propensi a fare una certa asserzione metafisica. Così avremmo la tentazione di dire «solo questo viene davvero visto» quando fissiamo un ambiente statico, mentre non saremmo affatto tentati di dirlo quando ci guardiamo attorno {{BBB TS reference it|Ts-309,111}} camminando.) Non ci sono controindicazioni, come abbiamo detto, all’adozione di un simbolismo in cui una certa persona, sempre o temporaneamente, occupa una posizione eccezionale. Dunque, se pronuncio la frase «solo io vedo realmente», è concepibile che i miei simili aggiustino perciò la loro notazione in modo da allinearsi a me, dicendo «questo e questo viene visto realmente» invece di «L.W. vede questo e questo», ecc. Ciò che comunque è sbagliato è il fatto di pensare che io possa ''giustificare'' la scelta di tale notazione. Quando ho detto, dal cuore, che solo io vedo, ero anche portato a dire che con «io» non intendevo davvero L.W., anche se a beneficio dei miei simili potrei dire «adesso è L.W. che vede realmente», pur non essendo questo che davvero intendo. Potrei quasi dire che con «io» intendo qualcosa che proprio ora risiede in L.W., qualcosa che gli altri non possono vedere. (Intendevo la mia mente, ma potevo indicarla solo tramite il mio corpo.) Non c’è nulla di sbagliato nel suggerire che gli altri dovrebbero darmi una posizione eccezionale nella loro notazione, ma la giustificazione che vorrei fornire – che questo corpo è ora la sede di ciò che vive realmente – è priva di senso. Perché bisogna ammettere che dire così non equivale ad affermare qualcosa che nel senso ordinario è una questione empirica. (E non pensare che sia una proposizione empirica che solo io posso conoscere perché solo io sono nella posizione di avere questa particolare esperienza.) Ora, l’idea che l’io reale abiti nel mio corpo è connessa con la grammatica particolare della parola «io» e con i fraintendimenti a cui {{BBB TS reference it|Ts-309,112}} tale grammatica tende a dare adito. Ci sono due diversi casi dell’uso della parola «io» (oppure «mio»), che potrei chiamare «l’uso in quanto oggetto» e «l’uso in quanto soggetto» Esempi del primo tipo di uso sono questi: «il mio braccio è rotto», «io sono cresciuto di quindici centimetri», «io ho un bernoccolo sulla fronte», «il vento mi scompiglia i capelli». Esempi del secondo tipo sono: «''io'' vedo questo e questo», «''io'' sento questo e questo», «''io'' pensò che pioverà», «''io'' ho mal di denti». Si può indicare la differenza tra queste due categorie dicendo: i casi della prima categoria comportano il riconoscimento di una persona particolare e in questi casi c’è la possibilità di un errore, o anzi dovrei dire: è stata prevista la possibilità di un errore. La possibilità di fallire un punto è stata prevista nel flipper. D’altro canto, il fatto che le palline non vengano fuori se ho messo un centesimo nella fessura non è uno dei rischi del gioco. È possibile che, in un incidente, ad esempio, io senta un dolore al braccio, che veda un braccio rotto lungo il mio fianco e che pensi che sia mio, quando in realtà è del mio vicino. E potrei, guardando in uno specchietto, scambiare un bernoccolo sulla sua fronte per un bernoccolo sulla mia. Dall’altra parte, quando dico che ho mal di denti, non si tratta affatto di riconoscere una persona. Chiedere «sei sicuro di essere ''tu'' a provare dolore?» sarebbe privo di senso. Ora, quando in questo caso non è possibile alcun errore, è perché la mossa che potremmo essere propensi a considerare un errore, una «mossa sbagliata», non è affatto una mossa del gioco. (Distinguiamo negli scacchi tra buone e cattive mosse e, se esponiamo la {{BBB TS reference it|Ts-309,113}} regina a un alfiere, lo chiamiamo un errore. Ma promuovere un pedone a re non è un errore.) E ora questo modo di formulare la nostra idea ci si suggerisce da solo: è altrettanto impossibile che nell’affermare «ho mal di denti» io abbia scambiato un’altra persona per me stesso quanto lo è gemere di dolore per errore, avendo scambiato qualcun altro per me stesso. Dire «ho dolore» non è fare un’affermazione ''su'' una persona particolare più di quanto non lo sia gemere. «Ma certamente la parola “io” in bocca a un uomo si riferisce all’uomo che la pronuncia; indica lui stesso; e molto spesso chi la dice indica se stesso con il dito». Indicare se stesso però era assolutamente superfluo. Avrebbe potuto anche solo alzare la mano. Sarebbe sbagliato dire che quando qualcuno indica il sole con la mano indica sia il sole sia se stesso perché è ''lui'' che indica; d’altra parte, indicando può attrarre l’attenzione sia sul sole sia su di sé.


La parola «io» non significa lo stesso di «L.W.» neanche se io sono L.W., né ha lo stesso significato dell’espressione «la persona che ora sta parlando». Ciò però non significa: «L.W.» e «io» significano cose diverse. Significa soltanto che queste parole sono strumenti diversi nel nostro linguaggio. Pensa alle parole come a strumenti caratterizzati dal loro uso e poi pensa all’uso di un martello, all’uso di un cesello, all’uso di una squadra, di un barattolo per la colla e della colla. (Inoltre, tutto ciò che diciamo qui può essere compreso solo se comprendi che una gran varietà di giochi è giocata con le frasi del {{BBB TS reference it|Ts-309,}}nostro linguaggio: dare ed eseguire ordini; porre domande e rispondervi; descrivere un evento; raccontare una storia inventata; fare una battuta; descrivere un’esperienza immediata; fare congetture su eventi nel mondo fisico; costruire ipotesi scientifiche e teorie; salutare qualcuno, ecc. ecc.) La bocca che dice «io» o la mano che si solleva a indicare che sono io che desidero parlare, o io che ho mal di denti, non indica nulla di per sé. Se, invece, desidero indicare il ''luogo'' del mio dolore, indico. Qui, di nuovo, rammenta la differenza tra l’atto d’indicare il punto dolente senza venir guidato dall’occhio e l’atto d’indicare invece la cicatrice sul mio corpo dopo averla cercata. («È qui che mi hanno vaccinato».) – L’uomo che grida di dolore, o che dice di avere dolore, ''non sceglie la bocca che lo dice''.
La parola «io» non significa lo stesso di «L.W.» neanche se io sono L.W., né ha lo stesso significato dell’espressione «la persona che ora sta parlando». Ciò però non significa: «L.W.» e «io» significano cose diverse. Significa soltanto che queste parole sono strumenti diversi nel nostro linguaggio. Pensa alle parole come a strumenti caratterizzati dal loro uso e poi pensa all’uso di un martello, all’uso di un cesello, all’uso di una squadra, di un barattolo per la colla e della colla. (Inoltre, tutto ciò che diciamo qui può essere compreso solo se comprendi che una gran varietà di giochi è giocata con le frasi del {{BBB TS reference it|Ts-309,114}} nostro linguaggio: dare ed eseguire ordini; porre domande e rispondervi; descrivere un evento; raccontare una storia inventata; fare una battuta; descrivere un’esperienza immediata; fare congetture su eventi nel mondo fisico; costruire ipotesi scientifiche e teorie; salutare qualcuno, ecc. ecc.) La bocca che dice «io» o la mano che si solleva a indicare che sono io che desidero parlare, o io che ho mal di denti, non indica nulla di per sé. Se, invece, desidero indicare il ''luogo'' del mio dolore, indico. Qui, di nuovo, rammenta la differenza tra l’atto d’indicare il punto dolente senza venir guidato dall’occhio e l’atto d’indicare invece la cicatrice sul mio corpo dopo averla cercata. («È qui che mi hanno vaccinato».) – L’uomo che grida di dolore, o che dice di avere dolore, ''non sceglie la bocca che lo dice''.


Tutto ciò si riduce al dire che la persona di cui diciamo «ha dolore» è, secondo le regole del gioco, la persona che urla, contorce il viso, ecc. Il luogo del dolore – come abbiamo detto – può essere nel corpo di un’altra persona. Se, nel dire «io», indico il mio corpo, modello l’uso della parola «io» su quello del dimostrativo «questa persona» o «lui». (Questo modo di rendere simili le due espressioni è in qualche modo analogo a quello che si adotta a volte nella matematica, per esempio nella prova che la somma dei tre angoli di un triangolo è di 180°.
Tutto ciò si riduce al dire che la persona di cui diciamo «ha dolore» è, secondo le regole del gioco, la persona che urla, contorce il viso, ecc. Il luogo del dolore – come abbiamo detto – può essere nel corpo di un’altra persona. Se, nel dire «io», indico il mio corpo, modello l’uso della parola «io» su quello del dimostrativo «questa persona» o «lui». (Questo modo di rendere simili le due espressioni è in qualche modo analogo a quello che si adotta a volte nella matematica, per esempio nella prova che la somma dei tre angoli di un triangolo è di 180°.
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Diciamo che «α = α'», «β = β'» e «γ = γ». Le prime due uguaglianze sono di un tipo completamente {{BBB TS reference it|Ts-309,}}diverso rispetto alla terza.) In «io ho dolore», «io» non è un pronome dimostrativo.
Diciamo che «α = α'», «β = β'» e «γ = γ». Le prime due uguaglianze sono di un tipo completamente {{BBB TS reference it|Ts-309,115}} diverso rispetto alla terza.) In «io ho dolore», «io» non è un pronome dimostrativo.


Confronta i due casi: 1. «Come sai che ''lui'' ha dei dolori?» – «Perché lo sento gemere». 2. «Come sai che tu hai dei dolori?» – «Perché li ''sento''». Ma «li sento» significa lo stesso di «li ho». Quindi questa non era affatto una spiegazione. Il fatto che, comunque, nella mia risposta io sia portato a sottolineare la parola «sentire» e non la parola «io» indica che non desidero scegliere una persona (tra altre persone).
Confronta i due casi: 1. «Come sai che ''lui'' ha dei dolori?» – «Perché lo sento gemere». 2. «Come sai che tu hai dei dolori?» – «Perché li ''sento''». Ma «li sento» significa lo stesso di «li ho». Quindi questa non era affatto una spiegazione. Il fatto che, comunque, nella mia risposta io sia portato a sottolineare la parola «sentire» e non la parola «io» indica che non desidero scegliere una persona (tra altre persone).


La differenza tra le proposizioni «io ho dolore» e «lui ha dolore» non è la stessa che tra «L. W. ha dolore» e «Smith ha dolore». Corrisponde invece alla differenza tra gemere e dire che qualcuno geme. – «Ma certamente la parola “io” in “io ho dolore” serve a distinguermi da altre persone, perché è con il segno “io” che distinguo il dire che ho dolore dal dire che ce l’ha uno degli altri.» Immagina un linguaggio in cui, invece di «non ho trovato nessuno nella stanza» si dicesse «ho trovato Mr Nessuno nella stanza». Immagina i problemi filosofici che sorgerebbe da una notazione simile. Alcuni filosofi educati in tale linguaggio probabilmente avrebbero la sensazione di non gradire la somiglianza tra le espressioni «Mr Nessuno» e «Mr Smith». Quando abbiamo la sensazione di voler abolire l’«io» in «io ho dolore», si può dire che tendiamo a rendere l’espressione verbale del dolore simile all’espressione del gemito. – Siamo propensi a dimenticare {{BBB TS reference it|Ts-309,}}che è soltanto il suo uso particolare a dare a una parola il suo significato. Pensiamo al nostro vecchio esempio per l’uso delle parole: si manda qualcuno dal fruttivendolo con un foglietto su cui sono state scritte le parole «cinque mele». L’uso della parola ''nella pratica'' è il suo significato. Immagina che normalmente gli oggetti attorno a noi portino delle etichette con scritte sopra le parole con cui il nostro discorso si riferisce a tali oggetti. Alcune di queste parole sarebbero i nomi propri degli oggetti, altre nomi generici (come tavolo, sedia, ecc.), altri ancora nomi di colori, nomi di forme, ecc. Ovverosia, un’etichetta avrebbe per noi un significato soltanto nella misura in cui noi ne facciamo un particolare uso. Ora, si può facilmente immaginare che a impressionarci sia il semplice fatto di vedere un’etichetta su una cosa, e che quindi dimentichiamo che ciò che rende importanti queste etichette è il loro uso. In questo modo, talvolta, crediamo di aver nominato qualcosa quando facciamo un gesto per indicarlo e pronunciamo le parole «questo è…» (la formula della definizione ostensiva). Diciamo che chiamiamo qualcosa «mal di denti» e pensiamo che la parola abbia ricevuto una funzione definita nelle operazioni che svolgiamo con il linguaggio quando, in certe circostanze, ci siamo indicati la guancia e abbiamo detto: «Questo è mal di denti». (La nostra idea è che, se noi indichiamo e l’altro «solo sa ciò che indichiamo,» allora lui sa usare la parola. Qui abbiamo in mente il caso speciale in cui «ciò che indichiamo» è, poniamo, una persona e «sapere ciò che indico» significa vedere quale delle persone presenti sto indicando).{{BBB TS reference it|Ts-309,}}
La differenza tra le proposizioni «io ho dolore» e «lui ha dolore» non è la stessa che tra «L. W. ha dolore» e «Smith ha dolore». Corrisponde invece alla differenza tra gemere e dire che qualcuno geme. – «Ma certamente la parola “io” in “io ho dolore” serve a distinguermi da altre persone, perché è con il segno “io” che distinguo il dire che ho dolore dal dire che ce l’ha uno degli altri.» Immagina un linguaggio in cui, invece di «non ho trovato nessuno nella stanza» si dicesse «ho trovato Mr Nessuno nella stanza». Immagina i problemi filosofici che sorgerebbe da una notazione simile. Alcuni filosofi educati in tale linguaggio probabilmente avrebbero la sensazione di non gradire la somiglianza tra le espressioni «Mr Nessuno» e «Mr Smith». Quando abbiamo la sensazione di voler abolire l’«io» in «io ho dolore», si può dire che tendiamo a rendere l’espressione verbale del dolore simile all’espressione del gemito. – Siamo propensi a dimenticare {{BBB TS reference it|Ts-309,116}} che è soltanto il suo uso particolare a dare a una parola il suo significato. Pensiamo al nostro vecchio esempio per l’uso delle parole: si manda qualcuno dal fruttivendolo con un foglietto su cui sono state scritte le parole «cinque mele». L’uso della parola ''nella pratica'' è il suo significato. Immagina che normalmente gli oggetti attorno a noi portino delle etichette con scritte sopra le parole con cui il nostro discorso si riferisce a tali oggetti. Alcune di queste parole sarebbero i nomi propri degli oggetti, altre nomi generici (come tavolo, sedia, ecc.), altri ancora nomi di colori, nomi di forme, ecc. Ovverosia, un’etichetta avrebbe per noi un significato soltanto nella misura in cui noi ne facciamo un particolare uso. Ora, si può facilmente immaginare che a impressionarci sia il semplice fatto di vedere un’etichetta su una cosa, e che quindi dimentichiamo che ciò che rende importanti queste etichette è il loro uso. In questo modo, talvolta, crediamo di aver nominato qualcosa quando facciamo un gesto per indicarlo e pronunciamo le parole «questo è…» (la formula della definizione ostensiva). Diciamo che chiamiamo qualcosa «mal di denti» e pensiamo che la parola abbia ricevuto una funzione definita nelle operazioni che svolgiamo con il linguaggio quando, in certe circostanze, ci siamo indicati la guancia e abbiamo detto: «Questo è mal di denti». (La nostra idea è che, se noi indichiamo e l’altro «solo sa ciò che indichiamo,» allora lui sa usare la parola. Qui abbiamo in mente il caso speciale in cui «ciò che indichiamo» è, poniamo, una persona e «sapere ciò che indico» significa vedere quale delle persone presenti sto indicando). {{BBB TS reference it|Ts-309,117}}


Abbiamo l’impressione che nei casi in cui «io» è usato come soggetto, non lo impieghiamo perché riconosciamo una persona particolare in base alle sue caratteristiche corporee; questo crea l’illusione che usiamo tale parola per riferirci a qualcosa di incorporeo che, tuttavia, ha sede nel nostro corpo. In effetti, ''questo'' sembra essere l’ego reale, quello di cui si è detto «cogito, ergo sum». – «Dunque non c’è mente, ma solo un corpo?» Risposta: la parola «mente» ha significato, cioè ha un uso nel nostro linguaggio; ma dire questo non dice ancora che tipo di uso ne facciamo.
Abbiamo l’impressione che nei casi in cui «io» è usato come soggetto, non lo impieghiamo perché riconosciamo una persona particolare in base alle sue caratteristiche corporee; questo crea l’illusione che usiamo tale parola per riferirci a qualcosa di incorporeo che, tuttavia, ha sede nel nostro corpo. In effetti, ''questo'' sembra essere l’ego reale, quello di cui si è detto «cogito, ergo sum». – «Dunque non c’è mente, ma solo un corpo?» Risposta: la parola «mente» ha significato, cioè ha un uso nel nostro linguaggio; ma dire questo non dice ancora che tipo di uso ne facciamo.
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In effetti si può dire che ciò di cui ci preoccupiamo nelle nostre ricerche sia la grammatica di queste parole che descrivono ciò che chiamiamo «attività mentali»; vedere, sentire, provare, ecc. E ciò equivale a dire che ci occupiamo della grammatica delle «locuzioni che descrivono i dati sensoriali».
In effetti si può dire che ciò di cui ci preoccupiamo nelle nostre ricerche sia la grammatica di queste parole che descrivono ciò che chiamiamo «attività mentali»; vedere, sentire, provare, ecc. E ciò equivale a dire che ci occupiamo della grammatica delle «locuzioni che descrivono i dati sensoriali».


I filosofi dicono, come se fosse un’opinione o una convinzione filosofica, che ci sono dati sensoriali. Ma dire che ''credo'' che ci siano dati sensoriali equivale a dire che ''credo'' che un oggetto possa apparire davanti ai miei occhi anche quando non lo è. Ora, quando si usa la locuzione «dato sensoriale», si dovrebbe aver chiara la peculiarità della sua grammatica. Perché l’idea, nell’introdurre tale espressione, era modellare espressioni che si riferiscono all’«apparenza» su espressioni che si riferiscono alla «realtà». Si è detto per esempio che se due cose ''sembrano'' essere uguali, ''devono'' esserci due qualcosa che ''sono'' uguali. Ciò naturalmente{{BBB TS reference it|Ts-309,}} significa soltanto che abbiamo deciso di utilizzare un’espressione quale «l’apparenza di questa cosa e l’apparenza di quella sono uguali» quale sinonimo di «queste due cose sembrano essere uguali». Stranamente, l’introduzione di tale nuova fraseologia ha illuso molte persone di aver scoperto nuove entità, nuovi elementi della struttura del mondo, come se dire «credo che ci siano dati sensoriali» fosse simile a dire «credo che la materia sia costituita da elettroni». Quando parliamo apparenze uguali o di dati sensoriali uguali, introduciamo un nuovo utilizzo della parola «uguale». È possibile che le lunghezze A e B ci appaiano uguali, che B e C ci appaiano uguali, ma che A e C non ci appaiano uguali. E nella nuova notazione dovremo dire che anche se l’apparenza (dato sensoriale) di A è uguale a quella di B e l’apparenza di B è uguale a quella di C, l’apparenza di A non è uguale all’apparenza di C; il che va bene, se non ti dispiace usare «uguale» intransitivamente.
I filosofi dicono, come se fosse un’opinione o una convinzione filosofica, che ci sono dati sensoriali. Ma dire che ''credo'' che ci siano dati sensoriali equivale a dire che ''credo'' che un oggetto possa apparire davanti ai miei occhi anche quando non lo è. Ora, quando si usa la locuzione «dato sensoriale», si dovrebbe aver chiara la peculiarità della sua grammatica. Perché l’idea, nell’introdurre tale espressione, era modellare espressioni che si riferiscono all’«apparenza» su espressioni che si riferiscono alla «realtà». Si è detto per esempio che se due cose ''sembrano'' essere uguali, ''devono'' esserci due qualcosa che ''sono'' uguali. Ciò naturalmente {{BBB TS reference it|Ts-309,118}} significa soltanto che abbiamo deciso di utilizzare un’espressione quale «l’apparenza di questa cosa e l’apparenza di quella sono uguali» quale sinonimo di «queste due cose sembrano essere uguali». Stranamente, l’introduzione di tale nuova fraseologia ha illuso molte persone di aver scoperto nuove entità, nuovi elementi della struttura del mondo, come se dire «credo che ci siano dati sensoriali» fosse simile a dire «credo che la materia sia costituita da elettroni». Quando parliamo apparenze uguali o di dati sensoriali uguali, introduciamo un nuovo utilizzo della parola «uguale». È possibile che le lunghezze A e B ci appaiano uguali, che B e C ci appaiano uguali, ma che A e C non ci appaiano uguali. E nella nuova notazione dovremo dire che anche se l’apparenza (dato sensoriale) di A è uguale a quella di B e l’apparenza di B è uguale a quella di C, l’apparenza di A non è uguale all’apparenza di C; il che va bene, se non ti dispiace usare «uguale» intransitivamente.


Il pericolo in cui ci troviamo quando adottiamo la notazione del dato sensoriale è di dimenticare la differenza tra la grammatica di un’affermazione sui dati sensoriali e la grammatica di un’affermazione, esteriormente simile, su oggetti fisici. (Da qui si potrebbe proseguire parlando dei fraintendimenti che trovano espressione in frasi come: «Non potremo mai vedere una circonferenza precisa», «tutti i nostri dati sensoriali sono vaghi». Ciò porta inoltre al confronto della grammatica di «posizione», «moto» e «dimensione» nello spazio euclideo e nello spazio visivo. Ci sono, {{BBB TS reference it|Ts-309,}}per esempio, posizione assoluta, moto e dimensione assoluti nello spazio visivo.)
Il pericolo in cui ci troviamo quando adottiamo la notazione del dato sensoriale è di dimenticare la differenza tra la grammatica di un’affermazione sui dati sensoriali e la grammatica di un’affermazione, esteriormente simile, su oggetti fisici. (Da qui si potrebbe proseguire parlando dei fraintendimenti che trovano espressione in frasi come: «Non potremo mai vedere una circonferenza precisa», «tutti i nostri dati sensoriali sono vaghi». Ciò porta inoltre al confronto della grammatica di «posizione», «moto» e «dimensione» nello spazio euclideo e nello spazio visivo. Ci sono, {{BBB TS reference it|Ts-309,119}} per esempio, posizione assoluta, moto e dimensione assoluti nello spazio visivo.)


Ora, possiamo usare un’espressione quale «indicare l’''apparenza'' di un corpo» oppure «indicare un dato sensoriale visivo». Parlando approssimativamente, questo tipo d’indicare equivale al puntare, poniamo, la canna di una pistola. Quindi possiamo indicare e dire: «Questa è la direzione in cui vedo la mia immagine nello specchio». Si possono anche usare espressioni come «l’apparenza, o il dato sensoriale, del mio dito indica il dato sensoriale dell’albero» e simili. Da queste istanze dell’indicare, tuttavia, dobbiamo distinguere le istanze dell’indicare nella direzione da cui pare provenire un suono, o dell’indicarmi la fronte tenendo gli occhi chiusi, ecc.
Ora, possiamo usare un’espressione quale «indicare l’''apparenza'' di un corpo» oppure «indicare un dato sensoriale visivo». Parlando approssimativamente, questo tipo d’indicare equivale al puntare, poniamo, la canna di una pistola. Quindi possiamo indicare e dire: «Questa è la direzione in cui vedo la mia immagine nello specchio». Si possono anche usare espressioni come «l’apparenza, o il dato sensoriale, del mio dito indica il dato sensoriale dell’albero» e simili. Da queste istanze dell’indicare, tuttavia, dobbiamo distinguere le istanze dell’indicare nella direzione da cui pare provenire un suono, o dell’indicarmi la fronte tenendo gli occhi chiusi, ecc.
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Quando nella maniera solipsistica dico «''questo'' è ciò che viene realmente visto», indico davanti a me ed è essenziale che io indichi ''visivamente''. Se avessi indicato su un lato o alle mie spalle – in un certo senso, verso cose che non vedo – l’indicare in questo caso sarebbe stato per me privo di significato; non sarebbe stato indicare nel senso in cui desidero indicare. Ma questo significa che quando indico davanti a me dicendo «questo è che ciò che viene visto realmente», anche se faccio il gesto d’indicare, non indico una cosa piuttosto che un’altra. È come quando, viaggiando in macchina ed essendo di fretta, istintivamente premo contro qualcosa che si trova davanti a me, come se potessi spingere l’automobile dall’interno.
Quando nella maniera solipsistica dico «''questo'' è ciò che viene realmente visto», indico davanti a me ed è essenziale che io indichi ''visivamente''. Se avessi indicato su un lato o alle mie spalle – in un certo senso, verso cose che non vedo – l’indicare in questo caso sarebbe stato per me privo di significato; non sarebbe stato indicare nel senso in cui desidero indicare. Ma questo significa che quando indico davanti a me dicendo «questo è che ciò che viene visto realmente», anche se faccio il gesto d’indicare, non indico una cosa piuttosto che un’altra. È come quando, viaggiando in macchina ed essendo di fretta, istintivamente premo contro qualcosa che si trova davanti a me, come se potessi spingere l’automobile dall’interno.


Quando ha senso dire «vedo questo», o «questo viene visto», indicando ciò che vedo, ha anche ''senso'' dire «{{BBB TS reference it|Ts-309,}} vedo questo», oppure «questo viene visto», indicando qualcosa che ''non'' vedo. Quando ho fatto la mia affermazione solipsistica, ho indicato, ma ho defraudato l’indicare del suo senso connettendo inseparabilmente ciò che indica con ciò che è indicato. Ho costruito un orologio con tutte le sue rotelle ecc. e alla fine ho assicurato il quadrante alla lancetta e l’ho fatto ruotare con essa. E in questo modo l’affermazione del solipsista «solo questo viene visto realmente» ci ricorda una tautologia.
Quando ha senso dire «vedo questo», o «questo viene visto», indicando ciò che vedo, ha anche ''senso'' dire «vedo {{BBB TS reference it|Ts-309,120}} questo», oppure «questo viene visto», indicando qualcosa che ''non'' vedo. Quando ho fatto la mia affermazione solipsistica, ho indicato, ma ho defraudato l’indicare del suo senso connettendo inseparabilmente ciò che indica con ciò che è indicato. Ho costruito un orologio con tutte le sue rotelle ecc. e alla fine ho assicurato il quadrante alla lancetta e l’ho fatto ruotare con essa. E in questo modo l’affermazione del solipsista «solo questo viene visto realmente» ci ricorda una tautologia.


Naturalmente una delle ragioni per cui siamo tentati di fare questa pseudo-affermazione è la sua somiglianza con l’affermazione «solo io vedo questo», o «questa è la zona che vedo», in cui indico certi oggetti attorno a me invece che altri, oppure una certa direzione dello spazio fisico (non dello spazio visivo) invece che altre direzioni dello spazio fisico. E se, indicando in questo senso, dico «questo è ciò che viene visto realmente», mi si può rispondere: «questo è ciò che ''tu'', L.W., vedi; ma non ci sono controindicazioni all’adottare una notazione in cui ciò che eravamo soliti chiamare “cose che L.W. vede” è chiamato “cose che vengono viste realmente”». Se tuttavia credo che indicando ciò che nella mia grammatica non ha vicini posso trasmettere qualcosa a me stesso (se non agli altri), compio un errore simile a quello di pensare che la frase «sono qui» ha senso per me (e, inoltre, è sempre vera) a condizioni diverse dalle condizioni molto particolari a cui tale frase ha effettivamente senso. (Per esempio, quando la mia voce e la direzione da cui parlo sono riconosciute da un’altra persona.) – Un altro caso importante in cui si può {{BBB TS reference it|Ts-309,}}imparare che una parola ha significato in base all’uso particolare che se ne fa. Siamo come persone che pensano che pezzi di legno dalla forma più o meno simile a pezzi degli scacchi o della dama, posti sopra una scacchiera, facciano un gioco, anche se nulla è stato detto su come essi debbano venire usati.
Naturalmente una delle ragioni per cui siamo tentati di fare questa pseudo-affermazione è la sua somiglianza con l’affermazione «solo io vedo questo», o «questa è la zona che vedo», in cui indico certi oggetti attorno a me invece che altri, oppure una certa direzione dello spazio fisico (non dello spazio visivo) invece che altre direzioni dello spazio fisico. E se, indicando in questo senso, dico «questo è ciò che viene visto realmente», mi si può rispondere: «questo è ciò che ''tu'', L.W., vedi; ma non ci sono controindicazioni all’adottare una notazione in cui ciò che eravamo soliti chiamare “cose che L.W. vede” è chiamato “cose che vengono viste realmente”». Se tuttavia credo che indicando ciò che nella mia grammatica non ha vicini posso trasmettere qualcosa a me stesso (se non agli altri), compio un errore simile a quello di pensare che la frase «sono qui» ha senso per me (e, inoltre, è sempre vera) a condizioni diverse dalle condizioni molto particolari a cui tale frase ha effettivamente senso. (Per esempio, quando la mia voce e la direzione da cui parlo sono riconosciute da un’altra persona.) – Un altro caso importante in cui si può {{BBB TS reference it|Ts-309,121}}imparare che una parola ha significato in base all’uso particolare che se ne fa. Siamo come persone che pensano che pezzi di legno dalla forma più o meno simile a pezzi degli scacchi o della dama, posti sopra una scacchiera, facciano un gioco, anche se nulla è stato detto su come essi debbano venire usati.


Dire «mi si sta avvicinando» ha senso, anche quando, dal punto di vista fisico, niente si sta avvicinando al mio corpo; allo stesso modo ha senso dire «è qui» oppure «mi ha raggiunto» quando nulla ha raggiunto il mio corpo. E d’altra parte «io sono qui» ha senso se la mia voce è riconosciuta e sentita provenire da un luogo particolare dello «spazio comune». Nella frase «è qui» il «qui» era un qui nello spazio visivo. È, grossomodo, l’occhio geometrico. La frase «io sono qui», per avere senso, deve attrarre l’attenzione su un luogo nello spazio comune. (E ci sono vari modi in cui tale frase potrebbe venire usata.) Il filosofo che pensa che abbia senso dire a se stesso «sono qui» prende l’espressione verbale dalla frase in cui «qui» è un luogo nello spazio comune e pensa a «qui» come al qui dello spazio visivo. In realtà, dunque, afferma qualcosa come «qui è qui».
Dire «mi si sta avvicinando» ha senso, anche quando, dal punto di vista fisico, niente si sta avvicinando al mio corpo; allo stesso modo ha senso dire «è qui» oppure «mi ha raggiunto» quando nulla ha raggiunto il mio corpo. E d’altra parte «io sono qui» ha senso se la mia voce è riconosciuta e sentita provenire da un luogo particolare dello «spazio comune». Nella frase «è qui» il «qui» era un qui nello spazio visivo. È, grossomodo, l’occhio geometrico. La frase «io sono qui», per avere senso, deve attrarre l’attenzione su un luogo nello spazio comune. (E ci sono vari modi in cui tale frase potrebbe venire usata.) Il filosofo che pensa che abbia senso dire a se stesso «sono qui» prende l’espressione verbale dalla frase in cui «qui» è un luogo nello spazio comune e pensa a «qui» come al qui dello spazio visivo. In realtà, dunque, afferma qualcosa come «qui è qui».


Tuttavia, potrei cercare di esprimere il mio solipsismo in una maniera diversa: immagino che io e altri disegniamo immagini o scriviamo descrizioni di ciò che ognuno di noi vede. Queste descrizioni sono poste davanti a me. Indico quella che ho realizzato io e dico: «Solo questo è (o è stato) visto realmente.» Ossia, sono tentato di dire: «Solo questa descrizione ha dietro di sé la realtà {{BBB TS reference it|Ts-309,}}(la realtà visiva)». Le altre le potrei chiamare – «descrizioni vuote». Potrei anche esprimermi così: «Soltanto ''questa'' descrizione è stata derivata dalla realtà: solo questa è stata confrontata con la realtà''QQQhh''». Ora, ha un significato chiaro quando diciamo che quest’immagine o descrizione è una proiezione, poniamo, di questo gruppo di oggetti – gli alberi che sto guardando – o che è stata derivata da questi oggetti. Ma dobbiamo esaminare la grammatica di una locuzione quale «questa descrizione è derivata dal mio dato sensoriale». Ciò di cui stiamo parlando è connesso con la strana tentazione di dire: «Non so mai che cosa l’altro intende davvero con “marrone”, o che cosa vede davvero quando (dicendo la verità) afferma di vedere un oggetto marrone». – A chi dice così potremmo proporre l’utilizzo di due parole diverse invece dell’unica parola «marrone»: una parola «''per la sua particolare impressione''», l’altra parola per il significato che anche altre persone oltre a lui possono capire. Se riflette su questa proposta, vedrà che c’è qualcosa di sbagliato nella sua concezione del significato – della funzione – della parola «marrone» e di altre parole. Egli cerca una giustificazione della sua descrizione dove non ce n’è alcuna. (Proprio come nel caso di un uomo che crede che la catena delle ragioni debba essere infinita. Pensa alla giustificazione dell’esecuzione di operazioni matematiche per mezzo di una formula generale; e alla domanda: questa formula ci costringe a farne, in questo particolare caso, proprio l’uso che ne facciamo?) Dire «derivo una descrizione dalla realtà visiva» non può significare nulla di analogo a «derivo una descrizione da ciò che vedo qui». Posso, per esempio, vedere un grafico in cui un quadrato {{BBB TS reference it|Ts-309,}}colorato è correlato con la parola «marrone», e anche una chiazza dello stesso colore posta altrove; e posso dire: «Questo mi mostra che devo usare “marrone” per la descrizione di questa chiazza». È così che posso derivare la parola «marrone» per l’uso della mia descrizione. Ma sarebbe privo di significato dire che derivo la parola «marrone» dalla particolare impressione di colore che ricevo.
Tuttavia, potrei cercare di esprimere il mio solipsismo in una maniera diversa: immagino che io e altri disegniamo immagini o scriviamo descrizioni di ciò che ognuno di noi vede. Queste descrizioni sono poste davanti a me. Indico quella che ho realizzato io e dico: «Solo questo è (o è stato) visto realmente.» Ossia, sono tentato di dire: «Solo questa descrizione ha dietro di sé la realtà {{BBB TS reference it|Ts-309,122}} (la realtà visiva)». Le altre le potrei chiamare – «descrizioni vuote». Potrei anche esprimermi così: «Soltanto ''questa'' descrizione è stata derivata dalla realtà: solo questa è stata confrontata con la realtà''QQQhh''». Ora, ha un significato chiaro quando diciamo che quest’immagine o descrizione è una proiezione, poniamo, di questo gruppo di oggetti – gli alberi che sto guardando – o che è stata derivata da questi oggetti. Ma dobbiamo esaminare la grammatica di una locuzione quale «questa descrizione è derivata dal mio dato sensoriale». Ciò di cui stiamo parlando è connesso con la strana tentazione di dire: «Non so mai che cosa l’altro intende davvero con “marrone”, o che cosa vede davvero quando (dicendo la verità) afferma di vedere un oggetto marrone». – A chi dice così potremmo proporre l’utilizzo di due parole diverse invece dell’unica parola «marrone»: una parola «''per la sua particolare impressione''», l’altra parola per il significato che anche altre persone oltre a lui possono capire. Se riflette su questa proposta, vedrà che c’è qualcosa di sbagliato nella sua concezione del significato – della funzione – della parola «marrone» e di altre parole. Egli cerca una giustificazione della sua descrizione dove non ce n’è alcuna. (Proprio come nel caso di un uomo che crede che la catena delle ragioni debba essere infinita. Pensa alla giustificazione dell’esecuzione di operazioni matematiche per mezzo di una formula generale; e alla domanda: questa formula ci costringe a farne, in questo particolare caso, proprio l’uso che ne facciamo?) Dire «derivo una descrizione dalla realtà visiva» non può significare nulla di analogo a «derivo una descrizione da ciò che vedo qui». Posso, per esempio, vedere un grafico in cui un quadrato {{BBB TS reference it|Ts-309,123}} colorato è correlato con la parola «marrone», e anche una chiazza dello stesso colore posta altrove; e posso dire: «Questo mi mostra che devo usare “marrone” per la descrizione di questa chiazza». È così che posso derivare la parola «marrone» per l’uso della mia descrizione. Ma sarebbe privo di significato dire che derivo la parola «marrone» dalla particolare impressione di colore che ricevo.


Chiediamoci: «Può un ''corpo'' umano sentire dolore?» Si è portati a dire: «Come può il corpo sentire dolore? Il corpo in sé è qualcosa di morto; un corpo non è cosciente!». E qui di nuovo è come se esaminassimo la natura del dolore e vedessimo che fa parte della sua natura che un oggetto materiale non possa sentirlo. Ed è come se vedessimo che ciò che sente dolore deve essere un’entità di natura diversa rispetto a quella di un oggetto materiale; che dev’essere, insomma, di natura mentale. Ma dire che l’ego è mentale è come dire che il numero 3 è di natura mentale o immateriale quando riconosciamo che il numerale «3» non è usato come segno per un oggetto fisico.
Chiediamoci: «Può un ''corpo'' umano sentire dolore?» Si è portati a dire: «Come può il corpo sentire dolore? Il corpo in sé è qualcosa di morto; un corpo non è cosciente!». E qui di nuovo è come se esaminassimo la natura del dolore e vedessimo che fa parte della sua natura che un oggetto materiale non possa sentirlo. Ed è come se vedessimo che ciò che sente dolore deve essere un’entità di natura diversa rispetto a quella di un oggetto materiale; che dev’essere, insomma, di natura mentale. Ma dire che l’ego è mentale è come dire che il numero 3 è di natura mentale o immateriale quando riconosciamo che il numerale «3» non è usato come segno per un oggetto fisico.


Possiamo però benissimo adottare l’espressione «questo corpo prova dolore» e allora, come al solito, gli diremo di andare dal dottore, di sdraiarsi e persino di ricordarsi che l’ultima volta che ha avuto dolore poi gli è passato nel giro di un giorno. «Ma questa forma d’espressione non sarebbe perlomeno indiretta?» – È usare un’espressione indiretta quando diciamo «scrivi “3” al posto di “''x''” in questa formula» invece di «sostituisci 3 a ''x''»? (O invece la prima di queste due espressioni{{BBB TS reference it|Ts-309,}} è l’unica diretta, come pensano alcuni filosofi?) L’una espressione non è più diretta dell’altra. Il significato dell’espressione dipende interamente da come poi noi la utilizziamo. Sforziamoci di non immaginare il significato come una connessione occulta che la mente istituisce tra una parola e una cosa, né che tale connessione ''contenga'' l’intero utilizzo di una parola come si potrebbe dire che il seme contiene l’albero.
Possiamo però benissimo adottare l’espressione «questo corpo prova dolore» e allora, come al solito, gli diremo di andare dal dottore, di sdraiarsi e persino di ricordarsi che l’ultima volta che ha avuto dolore poi gli è passato nel giro di un giorno. «Ma questa forma d’espressione non sarebbe perlomeno indiretta?» – È usare un’espressione indiretta quando diciamo «scrivi “3” al posto di “''x''” in questa formula» invece di «sostituisci 3 a ''x''»? (O invece la prima di queste due espressioni {{BBB TS reference it|Ts-309,124}} è l’unica diretta, come pensano alcuni filosofi?) L’una espressione non è più diretta dell’altra. Il significato dell’espressione dipende interamente da come poi noi la utilizziamo. Sforziamoci di non immaginare il significato come una connessione occulta che la mente istituisce tra una parola e una cosa, né che tale connessione ''contenga'' l’intero utilizzo di una parola come si potrebbe dire che il seme contiene l’albero.


Il nucleo della nostra proposizione, secondo cui ciò che ha dolore o vede o pensa è di natura mentale, è solo che in «io ho dolori» la parola «io» non denota un corpo particolare, perché non possiamo sostituirla con la descrizione di un corpo.
Il nucleo della nostra proposizione, secondo cui ciò che ha dolore o vede o pensa è di natura mentale, è solo che in «io ho dolori» la parola «io» non denota un corpo particolare, perché non possiamo sostituirla con la descrizione di un corpo.
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