Libro blu: Difference between revisions

no edit summary
No edit summary
No edit summary
Line 57: Line 57:
Sembra che, collegati con il funzionamento del linguaggio, ci siano ''certi specifici'' processi mentali; processi senza cui il linguaggio non può funzionare. Intendo i processi di comprendere e intendere. I segni del nostro linguaggio paiono morti senza questi processi mentali; e potrebbe sembrare che l’unica funzione dei segni sia indurre tali processi, e che siano questi ciò a cui davvero dovremmo interessarci. Quindi, se ti chiedono qual è la relazione tra un nome e la cosa che nomina, tu sarai propenso a rispondere che si tratta di una relazione psicologica e magari nel dirlo penserai in particolare al meccanismo dell’associazione. – Siamo tentati di pensare che l’azione del linguaggio consista di due parti; una parte inorganica, il maneggiare i segni, e una parte organica, che potremmo chiamare il comprendere questi segni, l’intenderli, l’interpretarli, il pensare. Queste ultime attività paiono aver luogo in un tipo bizzarro di mezzo, la mente; e il meccanismo della mente, la cui natura, sembra, non capiamo del tutto, può produrre effetti impossibili per qualunque meccanismo materiale. Dunque, per esempio, un pensiero (che è un tale processo mentale) può essere in accordo o in disaccordo con la realtà: sono in grado di pensare a un uomo che non è presente; sono in grado di immaginarlo, «intenderlo», in un commento che faccio su di lui, anche se è lontano migliaia di chilometri, o morto. «Che meccanismo bizzarro dev’essere», si potrebbe dire, «il meccanismo del desiderare, se posso desiderare ciò che non accadrà mai».
Sembra che, collegati con il funzionamento del linguaggio, ci siano ''certi specifici'' processi mentali; processi senza cui il linguaggio non può funzionare. Intendo i processi di comprendere e intendere. I segni del nostro linguaggio paiono morti senza questi processi mentali; e potrebbe sembrare che l’unica funzione dei segni sia indurre tali processi, e che siano questi ciò a cui davvero dovremmo interessarci. Quindi, se ti chiedono qual è la relazione tra un nome e la cosa che nomina, tu sarai propenso a rispondere che si tratta di una relazione psicologica e magari nel dirlo penserai in particolare al meccanismo dell’associazione. – Siamo tentati di pensare che l’azione del linguaggio consista di due parti; una parte inorganica, il maneggiare i segni, e una parte organica, che potremmo chiamare il comprendere questi segni, l’intenderli, l’interpretarli, il pensare. Queste ultime attività paiono aver luogo in un tipo bizzarro di mezzo, la mente; e il meccanismo della mente, la cui natura, sembra, non capiamo del tutto, può produrre effetti impossibili per qualunque meccanismo materiale. Dunque, per esempio, un pensiero (che è un tale processo mentale) può essere in accordo o in disaccordo con la realtà: sono in grado di pensare a un uomo che non è presente; sono in grado di immaginarlo, «intenderlo», in un commento che faccio su di lui, anche se è lontano migliaia di chilometri, o morto. «Che meccanismo bizzarro dev’essere», si potrebbe dire, «il meccanismo del desiderare, se posso desiderare ciò che non accadrà mai».


C’è un modo di evitare almeno parzialmente l’aspetto occulto del processo del pensare e consiste nel rimpiazzare, in tali processi, ogni coinvolgimento dell’immaginazione con l’osservazione di oggetti {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,6}} reali. Quindi può sembrare essenziale che, almeno in certi casi, quando sento la parola «rosso» e la comprendo, un’immagine rossa dovrebbe apparirmi all’occhio della mente. Ma perché non dovrei sostituire il fatto di immaginare una superficie rossa con il fatto di vedere un pezzo di carta rossa? L’immagine visiva non farà che guadagnarne in vividezza. Puoi facilmente immaginare un uomo che si porta in tasca un foglio su cui i nomi dei colori sono coordinati a chiazze colorate. Puoi dire che il fatto di portarsi sempre dietro tale tabella di campioni sarebbe un fastidio e che noi invece ci serviamo sempre del meccanismo dell’associazione. Ma ciò è irrilevante; e in molti casi non è neppure vero. Se, per esempio, ti ordinassero ti dipingere una particolare tinta di blu chiamata «blu di Prussia,» potresti avere bisogno di una tabella che dall’espressione «blu di Prussia» ti porti a un campione del colore, che fungerebbe da copia.
C’è un modo di evitare almeno parzialmente l’aspetto occulto del processo del pensare e consiste nel rimpiazzare, in tali processi, ogni coinvolgimento dell’immaginazione con l’osservazione di oggetti {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,6}} reali. Quindi può sembrare essenziale che, almeno in certi casi, quando sento la parola «rosso» e la comprendo, un’immagine rossa dovrebbe apparirmi all’occhio della mente. Ma perché non dovrei sostituire il fatto di immaginare una superficie rossa con il fatto di vedere un pezzo di carta rossa? L’immagine visiva non farà che guadagnarne in vividezza. Puoi facilmente immaginare un uomo che si porta in tasca un foglio su cui i nomi dei colori sono coordinati a chiazze colorate. Puoi dire che il fatto di portarsi sempre dietro tale tabella di campioni sarebbe un fastidio e che noi invece ci serviamo sempre del meccanismo dell’associazione. Ma ciò è irrilevante; e in molti casi non è neppure vero. Se, per esempio, ti ordinassero ti dipingere una particolare tinta di blu chiamata «blu di Prussia», potresti avere bisogno di una tabella che dall’espressione «blu di Prussia» ti porti a un campione del colore, che fungerebbe da copia.


Per i nostri scopi, potremmo benissimo rimpiazzare qualunque processo consistente nell’immaginare con un processo consistente nell’osservare un oggetto, oppure nel dipingerlo, disegnarlo o modellarlo; e ogni processo di parlare da soli con il processo di parlare ad alta voce o di scrivere.
Per i nostri scopi, potremmo benissimo rimpiazzare qualunque processo consistente nell’immaginare con un processo consistente nell’osservare un oggetto, oppure nel dipingerlo, disegnarlo o modellarlo; e ogni processo di parlare da soli con il processo di parlare ad alta voce o di scrivere.
Line 155: Line 155:
L’insegnamento come storia ipotetica delle nostre azioni successive (comprendere, obbedire, stimare una lunghezza, ecc.) scompare dalla nostra considerazione. La regola che ci hanno insegnato e che viene successivamente applicata ci interessa solo nella misura in cui è coinvolta nell’applicazione. Una regola, nella misura in cui ci interessa, non agisce a distanza.
L’insegnamento come storia ipotetica delle nostre azioni successive (comprendere, obbedire, stimare una lunghezza, ecc.) scompare dalla nostra considerazione. La regola che ci hanno insegnato e che viene successivamente applicata ci interessa solo nella misura in cui è coinvolta nell’applicazione. Una regola, nella misura in cui ci interessa, non agisce a distanza.


Supponi che io indichi un pezzo di carta e dica a qualcuno: «Questo colore io lo chiamo “rosso”». In seguito, gli do l’ordine: «Dipingimi una chiazza rossa.» Poi gli chiedo: «Perché, nell’eseguire l’ordine, l’hai dipinta proprio di questo colore?». Allora la sua risposta potrebbe essere: «Questo colore (indicando il campione che gli ho dato) era chiamato rosso; e la chiazza che ho dipinto ha, come vedi, il colore del campione». Ora mi ha fornito una ragione per aver eseguito l’ordine nel modo in cui l’ha eseguito. Fornire una ragione per qualcosa che si è fatto o detto significa mostrare un ''percorso'' che porta a {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,22}} tale azione. In alcuni casi significa raccontare il percorso che si è fatto in prima persona; in altri casi significa descrivere un percorso che conduce lì e che è in accordo con certe regole accettate. Quindi alla domanda «Perché, nell’eseguire l’ordine, hai usato proprio questo colore?» si potrebbe rispondere descrivendo il percorso effettivamente impiegato dalla persona per arrivare a questa tinta particolare. Si avrebbe una descrizione di questo genere se, sentendo la parola «rosso», lui avesse preso il campione che gli avevo dato, etichettato come «rosso», e poi, nel dipingere la superficie, l’avesse ''copiato''. D’altro canto, avrebbe potuto dipingerlo «automaticamente» o in base a un’immagine mnemonica; ma quando gli fosse stata chiesta la ragione lui avrebbe comunque potuto indicare il campione e mostrare che s’intonava con la superficie appena dipinta. In quest’ultimo caso la ragione fornita sarebbe stata del secondo tipo; cioè, una giustificazione ''post hoc''.
Supponi che io indichi un pezzo di carta e dica a qualcuno: «Questo colore io lo chiamo “rosso”». In seguito, gli do l’ordine: «Dipingimi una chiazza rossa». Poi gli chiedo: «Perché, nell’eseguire l’ordine, l’hai dipinta proprio di questo colore?». Allora la sua risposta potrebbe essere: «Questo colore (indicando il campione che gli ho dato) era chiamato rosso; e la chiazza che ho dipinto ha, come vedi, il colore del campione». Ora mi ha fornito una ragione per aver eseguito l’ordine nel modo in cui l’ha eseguito. Fornire una ragione per qualcosa che si è fatto o detto significa mostrare un ''percorso'' che porta a {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,22}} tale azione. In alcuni casi significa raccontare il percorso che si è fatto in prima persona; in altri casi significa descrivere un percorso che conduce lì e che è in accordo con certe regole accettate. Quindi alla domanda «Perché, nell’eseguire l’ordine, hai usato proprio questo colore?» si potrebbe rispondere descrivendo il percorso effettivamente impiegato dalla persona per arrivare a questa tinta particolare. Si avrebbe una descrizione di questo genere se, sentendo la parola «rosso», lui avesse preso il campione che gli avevo dato, etichettato come «rosso», e poi, nel dipingere la superficie, l’avesse ''copiato''. D’altro canto, avrebbe potuto dipingerlo «automaticamente» o in base a un’immagine mnemonica; ma quando gli fosse stata chiesta la ragione lui avrebbe comunque potuto indicare il campione e mostrare che s’intonava con la superficie appena dipinta. In quest’ultimo caso la ragione fornita sarebbe stata del secondo tipo; cioè, una giustificazione ''post hoc''.


Se si pensa che non potrebbe darsi alcun comprendere o eseguire l’ordine senza un previo insegnamento, si pensa all’insegnamento come a ciò che fornisce una ''ragione'' per fare ciò che si è fatto; come a ciò che fornisce la strada su cui si cammina. Si ritiene che se un ordine viene compreso e poi eseguito dev’esserci una ragione per il fatto che viene eseguito nel modo in cui viene eseguito; anzi, una catena di ragioni che risale fino all’infinito. È come se si dicesse: «Ovunque tu sia, devi esserci arrivato da qualche altro luogo, e lì sei giunto da un altro luogo ancora; e così ''ad infinitum''.» (Se, d’altro canto, tu avessi detto «ovunque ti trovi, avresti ''potuto'' arrivarci da un altro luogo distante dieci metri; e lì da un terzo luogo, a sua volta distante dieci metri, e avanti così ''ad infinitum''», ciò che tu invece avresti sottolineato sarebbe stata l’infinita ''possibilità'' di compiere un passo. Quindi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,23}} l’idea di un’infinita catena di ragioni sorge da una conclusione simile a questa: – che una linea di una certa lunghezza consiste in un numero infinito di parti perché è divisibile indefinitamente; ossia, perché la possibilità di suddividerla non ha fine).
Se si pensa che non potrebbe darsi alcun comprendere o eseguire l’ordine senza un previo insegnamento, si pensa all’insegnamento come a ciò che fornisce una ''ragione'' per fare ciò che si è fatto; come a ciò che fornisce la strada su cui si cammina. Si ritiene che se un ordine viene compreso e poi eseguito dev’esserci una ragione per il fatto che viene eseguito nel modo in cui viene eseguito; anzi, una catena di ragioni che risale fino all’infinito. È come se si dicesse: «Ovunque tu sia, devi esserci arrivato da qualche altro luogo, e lì sei giunto da un altro luogo ancora; e così ''ad infinitum''». (Se, d’altro canto, tu avessi detto «ovunque ti trovi, avresti ''potuto'' arrivarci da un altro luogo distante dieci metri; e lì da un terzo luogo, a sua volta distante dieci metri, e avanti così ''ad infinitum''», ciò che tu invece avresti sottolineato sarebbe stata l’infinita ''possibilità'' di compiere un passo. Quindi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,23}} l’idea di un’infinita catena di ragioni sorge da una conclusione simile a questa: – che una linea di una certa lunghezza consiste in un numero infinito di parti perché è divisibile indefinitamente; ossia, perché la possibilità di suddividerla non ha fine).


Se d’altro canto comprendi che la catena di ragioni ''effettive'' ha un inizio, non ti disgusterà più l’idea di un caso in cui non c’è ''alcuna'' ragione per il modo in cui hai eseguito l’ordine. A questo punto, comunque, subentra un’altra confusione, quella tra ragione e causa. A creare tale confusione è l’uso ambiguo della parola «perché». Quindi quando la catena di ragioni è giunta alla fine e la domanda «perché» continua a essere posta, ''allora'' si è portati a fornire una causa invece che una ragione. Se, per esempio, alla domanda, «perché hai usato questo colore quando ti ho detto di dipingere una superficie rossa» tu rispondi, «mi si è mostrato un campione di questo colore e al contempo mi è stata detta la parola “rosso”, e dunque ora, ogniqualvolta sento la parola “rosso”, mi si presenta alla mente questo colore», allora della tua azione hai fornito una causa invece che una ragione.
Se d’altro canto comprendi che la catena di ragioni ''effettive'' ha un inizio, non ti disgusterà più l’idea di un caso in cui non c’è ''alcuna'' ragione per il modo in cui hai eseguito l’ordine. A questo punto, comunque, subentra un’altra confusione, quella tra ragione e causa. A creare tale confusione è l’uso ambiguo della parola «perché». Quindi quando la catena di ragioni è giunta alla fine e la domanda «perché» continua a essere posta, ''allora'' si è portati a fornire una causa invece che una ragione. Se, per esempio, alla domanda, «perché hai usato questo colore quando ti ho detto di dipingere una superficie rossa» tu rispondi, «mi si è mostrato un campione di questo colore e al contempo mi è stata detta la parola “rosso”, e dunque ora, ogniqualvolta sento la parola “rosso”, mi si presenta alla mente questo colore», allora della tua azione hai fornito una causa invece che una ragione.


La proposizione secondo cui la tua azione ha avuto una causa così e così è un’ipotesi. L’ipotesi è fondata abbiamo avuto una serie di esperienze che, per dirla grossolanamente, concordano nel mostrare che la tua azione è il regolare seguito di certe condizioni che allora chiameremo cause dell’azione. Per conoscere la ragione per cui hai fatto una certa affermazione, hai agito in un particolare modo, ecc., non è necessaria alcuna serie di esperienze concordanti e l’affermazione della tua ragione non è un’ipotesi. La differenza tra le grammatiche di «ragione» e di «causa» è molto simile {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,24}} a quella tra le grammatiche di «movente» e di «causa.» Della causa si può dire che non si può ''conoscerla'' ma soltanto fare congetture a riguardo. D’altra parte, si dice spesso: «Certo ''io'' lo so perché ho fatto così», riferendosi al ''movente''. Quando dico: «Possiamo solo ''congetturare'' la causa ma ''conosciamo'' il movente», si vedrà in seguito che questa è un’affermazione grammaticale. Il «possiamo» si riferisce a una possibilità ''logica''.
La proposizione secondo cui la tua azione ha avuto una causa così e così è un’ipotesi. L’ipotesi è fondata abbiamo avuto una serie di esperienze che, per dirla grossolanamente, concordano nel mostrare che la tua azione è il regolare seguito di certe condizioni che allora chiameremo cause dell’azione. Per conoscere la ragione per cui hai fatto una certa affermazione, hai agito in un particolare modo, ecc., non è necessaria alcuna serie di esperienze concordanti e l’affermazione della tua ragione non è un’ipotesi. La differenza tra le grammatiche di «ragione» e di «causa» è molto simile {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,24}} a quella tra le grammatiche di «movente» e di «causa». Della causa si può dire che non si può ''conoscerla'' ma soltanto fare congetture a riguardo. D’altra parte, si dice spesso: «Certo ''io'' lo so perché ho fatto così», riferendosi al ''movente''. Quando dico: «Possiamo solo ''congetturare'' la causa ma ''conosciamo'' il movente», si vedrà in seguito che questa è un’affermazione grammaticale. Il «possiamo» si riferisce a una possibilità ''logica''.


Il doppio uso della parola «perché», chiedere qual è la causa e chiedere qual è il movente, insieme all’idea che possiamo conoscere, e non solo congetturare, i nostri moventi, fa sorgere la confusione che un movente sia una causa di cui siamo immediatamente consapevoli, una causa «vista dall’interno», o una causa esperita. – Fornire una ragione è come fornire un calcolo per mezzo del quale sei arrivato a un certo risultato.
Il doppio uso della parola «perché», chiedere qual è la causa e chiedere qual è il movente, insieme all’idea che possiamo conoscere, e non solo congetturare, i nostri moventi, fa sorgere la confusione che un movente sia una causa di cui siamo immediatamente consapevoli, una causa «vista dall’interno», o una causa esperita. – Fornire una ragione è come fornire un calcolo per mezzo del quale sei arrivato a un certo risultato.
Line 215: Line 215:
Supponiamo ora che io suggerisca di utilizzare l’espressione «provo paura» e altre simili soltanto in maniera transitiva. Ogniqualvolta prima dicevamo (intransitivamente) «ho una sensazione di paura», adesso diremo «ho paura di qualcosa, ma non so di cosa». Esistono obiezioni a questa fraseologia?
Supponiamo ora che io suggerisca di utilizzare l’espressione «provo paura» e altre simili soltanto in maniera transitiva. Ogniqualvolta prima dicevamo (intransitivamente) «ho una sensazione di paura», adesso diremo «ho paura di qualcosa, ma non so di cosa». Esistono obiezioni a questa fraseologia?


Potremmo dire: «No, fatto salvo che in tal caso usiamo la parola “sapere” in maniera bizzarra». Considera il caso seguente: – abbiamo una sensazione generale, priva di direzioni, di paura. Successivamente ci capita un’esperienza che ci fa dire: «Ora so di cos’avevo paura. Avevo paura che accadesse questa e questa cosa». È corretto descrivere la mia prima sensazione con un verbo intransitivo, oppure dovrei dire che la mia paura aveva un oggetto, anche se io ignoravo che l’avesse? {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,36}} Possono essere impiegate entrambe queste forme di descrizione. Per capirlo, esamina gli esempi seguenti: – potrebbe risultare pratico chiamare un certo stato di decadimento dentale, non accompagnato da ciò che chiamiamo comunemente mal di denti, «mal di denti inconscio» e utilizzare in tal caso l’espressione che abbiamo mal di denti, ma non lo sappiamo. È proprio in questo senso che la psicanalisi parla di pensieri inconsci, atti di volizione inconsci, ecc. È dunque sbagliato in questo senso dire che ho mal di denti ma non lo so? Non è affatto sbagliato, perché si tratta soltanto di una nuova terminologia, che può essere ritradotta in qualsiasi momento nel linguaggio ordinario. D’altra parte, è evidente che qui si fa un uso nuovo della parola «sapere.» Se vuoi esaminare come viene usata tale espressione, ti sarà utile chiederti: «Che aspetto ha in questo caso il processo di venire a sapere?», «Che cos’è che chiamiamo “venire a sapere” o “scoprire”?».
Potremmo dire: «No, fatto salvo che in tal caso usiamo la parola “sapere” in maniera bizzarra». Considera il caso seguente: – abbiamo una sensazione generale, priva di direzioni, di paura. Successivamente ci capita un’esperienza che ci fa dire: «Ora so di cos’avevo paura. Avevo paura che accadesse questa e questa cosa». È corretto descrivere la mia prima sensazione con un verbo intransitivo, oppure dovrei dire che la mia paura aveva un oggetto, anche se io ignoravo che l’avesse? {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,36}} Possono essere impiegate entrambe queste forme di descrizione. Per capirlo, esamina gli esempi seguenti: – potrebbe risultare pratico chiamare un certo stato di decadimento dentale, non accompagnato da ciò che chiamiamo comunemente mal di denti, «mal di denti inconscio» e utilizzare in tal caso l’espressione che abbiamo mal di denti, ma non lo sappiamo. È proprio in questo senso che la psicanalisi parla di pensieri inconsci, atti di volizione inconsci, ecc. È dunque sbagliato in questo senso dire che ho mal di denti ma non lo so? Non è affatto sbagliato, perché si tratta soltanto di una nuova terminologia, che può essere ritradotta in qualsiasi momento nel linguaggio ordinario. D’altra parte, è evidente che qui si fa un uso nuovo della parola «sapere». Se vuoi esaminare come viene usata tale espressione, ti sarà utile chiederti: «Che aspetto ha in questo caso il processo di venire a sapere?», «Che cos’è che chiamiamo “venire a sapere” o “scoprire”?».


Non è sbagliato, secondo la nostra nuova convenzione, dire «ho un mal di denti inconscio». Che cosa si può chiedere di più alla nostra notazione, che così distingue tra un dente malandato che ti dà il mal di denti e uno che non te lo dà? Ma la nuova espressione ci fuorvia richiamando immagini e analogie che ci rendono difficile andare fino in fondo con la nostra convenzione. Ed è difficilissimo ignorare {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,37}} tali immagini, a meno di non esercitare una vigilanza costante; particolarmente difficile quando, filosofando, contempliamo ciò che diciamo sulle cose. Dunque, davanti all’espressione «mal di denti inconscio», puoi essere condotto a pensare erroneamente che sia stata fatta una scoperta magnifica, una scoperta che in un certo senso sconvolge completamente la nostra comprensione; oppure puoi giungere a una perplessità estrema nei confronti di tale espressione (la perplessità filosofica) e magari porre domande quali: «Come è possibile un mal di denti inconscio?». Potresti allora essere portato a rifiutare la possibilità del mal di denti inconscio; ma lo scienziato ti dirà che si tratta di un fatto dimostrato e te lo dirà come un uomo intento a distruggere il pregiudizio comune. Ti dirà: «È davvero semplicissimo; ci sono altre cose di cui non sei a conoscenza, e può esistere anche un mal di denti di cui non sei a conoscenza. È soltanto una nuova scoperta». Tu resterai insoddisfatto, ma non saprai cosa rispondere. Questa situazione, tra scienziati e filosofi, si verifica costantemente.
Non è sbagliato, secondo la nostra nuova convenzione, dire «ho un mal di denti inconscio». Che cosa si può chiedere di più alla nostra notazione, che così distingue tra un dente malandato che ti dà il mal di denti e uno che non te lo dà? Ma la nuova espressione ci fuorvia richiamando immagini e analogie che ci rendono difficile andare fino in fondo con la nostra convenzione. Ed è difficilissimo ignorare {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,37}} tali immagini, a meno di non esercitare una vigilanza costante; particolarmente difficile quando, filosofando, contempliamo ciò che diciamo sulle cose. Dunque, davanti all’espressione «mal di denti inconscio», puoi essere condotto a pensare erroneamente che sia stata fatta una scoperta magnifica, una scoperta che in un certo senso sconvolge completamente la nostra comprensione; oppure puoi giungere a una perplessità estrema nei confronti di tale espressione (la perplessità filosofica) e magari porre domande quali: «Come è possibile un mal di denti inconscio?». Potresti allora essere portato a rifiutare la possibilità del mal di denti inconscio; ma lo scienziato ti dirà che si tratta di un fatto dimostrato e te lo dirà come un uomo intento a distruggere il pregiudizio comune. Ti dirà: «È davvero semplicissimo; ci sono altre cose di cui non sei a conoscenza, e può esistere anche un mal di denti di cui non sei a conoscenza. È soltanto una nuova scoperta». Tu resterai insoddisfatto, ma non saprai cosa rispondere. Questa situazione, tra scienziati e filosofi, si verifica costantemente.
Line 337: Line 337:
L’idea che ciò desideriamo che accada debba essere presente come un’ombra nel nostro desiderio è profondamente radicata nelle nostre forme di espressione. In effetti, però, potremmo dire che è soltanto la seconda miglior assurdità rispetto a quella che dovremmo vorremmo dire. Se non fosse troppo assurdo, dovremmo dire che il fatto che desideriamo dev’essere presente nel nostro desiderio. Come possiamo infatti desiderare che ''proprio questo'' accada se proprio questo non è presente nel nostro desiderio? {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,61}} È proprio vero: la mera ombra non basta; perché si ferma prima dell’oggetto; noi vogliamo che il desiderio contenga l’oggetto stesso. – Vogliamo che il desiderio che Mr Smith venga in questa stanza desideri che solo ''Mr Smith'', non un sostituto, compia ''la venuta'', non un sostituto di questa, ''nella mia stanza'', non in un sostituto di questa. Ma questo però è proprio ciò che abbiamo detto.
L’idea che ciò desideriamo che accada debba essere presente come un’ombra nel nostro desiderio è profondamente radicata nelle nostre forme di espressione. In effetti, però, potremmo dire che è soltanto la seconda miglior assurdità rispetto a quella che dovremmo vorremmo dire. Se non fosse troppo assurdo, dovremmo dire che il fatto che desideriamo dev’essere presente nel nostro desiderio. Come possiamo infatti desiderare che ''proprio questo'' accada se proprio questo non è presente nel nostro desiderio? {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,61}} È proprio vero: la mera ombra non basta; perché si ferma prima dell’oggetto; noi vogliamo che il desiderio contenga l’oggetto stesso. – Vogliamo che il desiderio che Mr Smith venga in questa stanza desideri che solo ''Mr Smith'', non un sostituto, compia ''la venuta'', non un sostituto di questa, ''nella mia stanza'', non in un sostituto di questa. Ma questo però è proprio ciò che abbiamo detto.


Potremmo descrivere la nostra confusione così: in perfetto accordo con la nostra forma abituale di espressione pensiamo al fatto che desideriamo accada come a una cosa che non è ancora qui e che, perciò, non posso indicare. Per comprendere la grammatica della nostra espressione «oggetto del nostro desiderio» consideriamo semplicemente la risposta che diamo alla domanda: «Qual è l’oggetto del tuo desiderio?». La risposta a questa domanda naturalmente è «desidero che accada questo e questo.» Ma quale sarebbe la risposta se poi chiedessimo: «E qual è l’oggetto di questo desiderio?»? Potrebbe solo consistere in una ripetizione della nostra precedente espressione del desiderio, oppure in una traduzione in qualche altra forma d’espressione. Potremmo, per esempio, indicare ciò che desideravamo con altre parole o illustrarlo con un’immagine, ecc., ecc. Ora, quando abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’oggetto del nostro desiderio sia, per così dire, un uomo che non è ancora entrato nella nostra stanza e dunque non può ancora essere visto, immaginiamo che qualunque spiegazione di ciò che desideriamo sia soltanto la migliore alternativa alla spiegazione che ci mostrerebbe ''il fatto reale'', – che, temiamo, non può ancora essere {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,62}} mostrato poiché non è ancora entrato. – È come se dicessi a qualcuno «mi aspetto che arrivi Mr Smith» e lui mi chiedesse «chi è Mr Smith?» e io rispondessi: «Non te lo posso mostrare ora, poiché non è ancora qui. Posso solo mostrarti una sua immagine». Sembra quasi che io non possa spiegare interamente che cosa ho desiderato fino a quando ciò non è effettivamente accaduto. Naturalmente, però, non è così. In verità non è necessario che, dopo che il desiderio si è realizzato, io sia in grado di fornire una spiegazione migliore di ciò che ho desiderato rispetto a prima; perché è perfettamente possibile che io abbia mostrato Mr Smith al mio amico, e che gli abbia mostrato cosa significa «venire», e che gli abbia mostrato che cos’è la mia stanza, prima dell’arrivo nella mia stanza di Mr Smith.
Potremmo descrivere la nostra confusione così: in perfetto accordo con la nostra forma abituale di espressione pensiamo al fatto che desideriamo accada come a una cosa che non è ancora qui e che, perciò, non posso indicare. Per comprendere la grammatica della nostra espressione «oggetto del nostro desiderio» consideriamo semplicemente la risposta che diamo alla domanda: «Qual è l’oggetto del tuo desiderio?». La risposta a questa domanda naturalmente è «desidero che accada questo e questo». Ma quale sarebbe la risposta se poi chiedessimo: «E qual è l’oggetto di questo desiderio?»? Potrebbe solo consistere in una ripetizione della nostra precedente espressione del desiderio, oppure in una traduzione in qualche altra forma d’espressione. Potremmo, per esempio, indicare ciò che desideravamo con altre parole o illustrarlo con un’immagine, ecc., ecc. Ora, quando abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’oggetto del nostro desiderio sia, per così dire, un uomo che non è ancora entrato nella nostra stanza e dunque non può ancora essere visto, immaginiamo che qualunque spiegazione di ciò che desideriamo sia soltanto la migliore alternativa alla spiegazione che ci mostrerebbe ''il fatto reale'', – che, temiamo, non può ancora essere {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,62}} mostrato poiché non è ancora entrato. – È come se dicessi a qualcuno «mi aspetto che arrivi Mr Smith» e lui mi chiedesse «chi è Mr Smith?» e io rispondessi: «Non te lo posso mostrare ora, poiché non è ancora qui. Posso solo mostrarti una sua immagine». Sembra quasi che io non possa spiegare interamente che cosa ho desiderato fino a quando ciò non è effettivamente accaduto. Naturalmente, però, non è così. In verità non è necessario che, dopo che il desiderio si è realizzato, io sia in grado di fornire una spiegazione migliore di ciò che ho desiderato rispetto a prima; perché è perfettamente possibile che io abbia mostrato Mr Smith al mio amico, e che gli abbia mostrato cosa significa «venire», e che gli abbia mostrato che cos’è la mia stanza, prima dell’arrivo nella mia stanza di Mr Smith.


La nostra difficoltà può essere posta così: pensiamo a cose, – ma come fanno queste cose a entrare nei nostri pensieri? Pensiamo a Mr Smith; ma Mr Smith non deve per forza essere presente. Una sua immagine non basta; come facciamo infatti a sapere chi rappresenta? In realtà, nessun suo sostituto basterà. Allora come può lui stesso essere un oggetto dei nostri pensieri? (Qui mi servo dell’espressione «oggetto del nostro pensiero» in un modo diverso da prima. Intendo una cosa ''a cui'' sto pensando, non «ciò che sto pensando».)
La nostra difficoltà può essere posta così: pensiamo a cose, – ma come fanno queste cose a entrare nei nostri pensieri? Pensiamo a Mr Smith; ma Mr Smith non deve per forza essere presente. Una sua immagine non basta; come facciamo infatti a sapere chi rappresenta? In realtà, nessun suo sostituto basterà. Allora come può lui stesso essere un oggetto dei nostri pensieri? (Qui mi servo dell’espressione «oggetto del nostro pensiero» in un modo diverso da prima. Intendo una cosa ''a cui'' sto pensando, non «ciò che sto pensando».)
Line 349: Line 349:
Questo è in parte ciò che ci fa pensare all’intendere o al pensare come a una strana ''attività mentale''; dove la parola «mentale» indica che non dobbiamo aspettarci di comprendere come funzionano queste cose.
Questo è in parte ciò che ci fa pensare all’intendere o al pensare come a una strana ''attività mentale''; dove la parola «mentale» indica che non dobbiamo aspettarci di comprendere come funzionano queste cose.


Ciò che abbiamo detto riguardo al pensare può applicarsi anche all’immaginare. Qualcuno dice di immaginare che il King’s College stia bruciando. Gli chiediamo: «Come fai a sapere che è il ''King’s College'' che immagini stia bruciando? Non potrebbe essere un edificio diverso, ma molto simile? In {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,64}} fondo, la tua immaginazione è davvero talmente esatta da escludere che vi sia una decina di edifici di cui la tua immagine potrebbe essere la rappresentazione?» – Tu però dici: «Non ci sono dubbi che immagino il King’s College e non un altro edificio». Ma non potrebbe essere proprio il dire così a creare la connessione che vogliamo? Dire così infatti è come scrivere le parole «Ritratto di tal dei tali» sotto un dipinto. Avrebbe potuto essere che, ''mentre'' immaginavi che il King’s College stesse bruciando, tu dicessi le parole «il King’s College sta bruciando». Ma in moltissimi casi, mentre hai l’immagine, non pronunci certo mentalmente parole esplicative. E considera che, anche se le pronunci, non compi l’intero tragitto tra la tua immagine e il King’s College, ma giungi solo fino alle parole «King’s College.» La connessione tra queste parole e il King’s College, forse, è stata istituita in un’altra occasione.
Ciò che abbiamo detto riguardo al pensare può applicarsi anche all’immaginare. Qualcuno dice di immaginare che il King’s College stia bruciando. Gli chiediamo: «Come fai a sapere che è il ''King’s College'' che immagini stia bruciando? Non potrebbe essere un edificio diverso, ma molto simile? In {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,64}} fondo, la tua immaginazione è davvero talmente esatta da escludere che vi sia una decina di edifici di cui la tua immagine potrebbe essere la rappresentazione?» – Tu però dici: «Non ci sono dubbi che immagino il King’s College e non un altro edificio». Ma non potrebbe essere proprio il dire così a creare la connessione che vogliamo? Dire così infatti è come scrivere le parole «Ritratto di tal dei tali» sotto un dipinto. Avrebbe potuto essere che, ''mentre'' immaginavi che il King’s College stesse bruciando, tu dicessi le parole «il King’s College sta bruciando». Ma in moltissimi casi, mentre hai l’immagine, non pronunci certo mentalmente parole esplicative. E considera che, anche se le pronunci, non compi l’intero tragitto tra la tua immagine e il King’s College, ma giungi solo fino alle parole «King’s College». La connessione tra queste parole e il King’s College, forse, è stata istituita in un’altra occasione.


L’errore che siamo propensi a compiere in tutto il nostro ragionare su tali argomenti è pensare che immagini ed esperienze di ogni genere, che sono in qualche senso strettamente connesse le une alle altre, debbano essere contemporaneamente presenti nella nostra mente. Se cantiamo una melodia che sappiamo a memoria, o recitiamo l’alfabeto, le note e le lettere paiono tenersi assieme; ognuna sembra tirarsi dietro la successiva come se fossero perle dello stesso filo e tirandone fuori una ho tirato fuori quella che la seguiva.
L’errore che siamo propensi a compiere in tutto il nostro ragionare su tali argomenti è pensare che immagini ed esperienze di ogni genere, che sono in qualche senso strettamente connesse le une alle altre, debbano essere contemporaneamente presenti nella nostra mente. Se cantiamo una melodia che sappiamo a memoria, o recitiamo l’alfabeto, le note e le lettere paiono tenersi assieme; ognuna sembra tirarsi dietro la successiva come se fossero perle dello stesso filo e tirandone fuori una ho tirato fuori quella che la seguiva.
Line 441: Line 441:
Ciò che abbiamo fatto in queste discussioni è stato quello che facciamo sempre quando ci imbattiamo nella parola «può» in una proposizione metafisica. Mostriamo che questa proposizione nasconde una regola grammaticale. Ovverosia, distruggiamo la somiglianza esteriore tra una proposizione metafisica e una proposizione empirica e cerchiamo di trovare la forma di espressione che soddisfa una certa brama dei metafisici che il nostro linguaggio ordinario non soddisfa e che, finché resta insoddisfatta, produce lo sconcerto metafisico. Di nuovo, quando in un senso metafisico dico «quando provo dolore ''devo'' sempre saperlo», ciò rende semplicemente la parola «sapere» ridondante; invece di «so che provo dolore», posso tranquillamente dire «provo dolore». Naturalmente, la situazione cambia se diamo un senso alla locuzione «dolore inconscio», fissando criteri empirici per il caso in cui qualcuno ha dolore e non lo sa, e se poi diciamo (giustamente o erroneamente) che di fatto nessuno ha mai provato dolore senza saperlo.
Ciò che abbiamo fatto in queste discussioni è stato quello che facciamo sempre quando ci imbattiamo nella parola «può» in una proposizione metafisica. Mostriamo che questa proposizione nasconde una regola grammaticale. Ovverosia, distruggiamo la somiglianza esteriore tra una proposizione metafisica e una proposizione empirica e cerchiamo di trovare la forma di espressione che soddisfa una certa brama dei metafisici che il nostro linguaggio ordinario non soddisfa e che, finché resta insoddisfatta, produce lo sconcerto metafisico. Di nuovo, quando in un senso metafisico dico «quando provo dolore ''devo'' sempre saperlo», ciò rende semplicemente la parola «sapere» ridondante; invece di «so che provo dolore», posso tranquillamente dire «provo dolore». Naturalmente, la situazione cambia se diamo un senso alla locuzione «dolore inconscio», fissando criteri empirici per il caso in cui qualcuno ha dolore e non lo sa, e se poi diciamo (giustamente o erroneamente) che di fatto nessuno ha mai provato dolore senza saperlo.


Quando diciamo «non posso sentire il suo dolore» ci si suggerisce l’idea di una {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,93}} barriera insormontabile. Pensa subito a un caso simile: «I colori verde e blu non possono essere contemporaneamente nello stesso punto». Qui l’immagine d’impossibilità fisica che ci si suggerisce non è, forse, quella di una barriera; sentiamo invece che i due colori si ostacolano reciprocamente. Qual è l’origine di quest’idea? – Diciamo che tre persone non possono sedersi una accanto all’altra su questa panca; non c’è spazio. Il caso dei colori non è analogo a questo; ma è in qualche modo analogo al dire: «un metro e mezzo non ci sta tre volte in un metro». Questa è una regola grammaticale e afferma un’impossibilità logica. La proposizione «tre uomini non possono sedersi l’uno accanto all’altro su una panca di un metro scarso» afferma un’impossibilità fisica; e questo esempio mostra chiaramente perché le due impossibilità sono confuse. (Confronta la proposizione «lui è quindici centimetri più alto di me» con «1,80 metri è 15 centimetri più di 1,65 metri.» Le due proposizioni sono di tipo assolutamente diverso, ma sono perfettamente somiglianti.) La ragione per cui in questi casi ci si suggerisce l’idea dell’impossibilità fisica è che da un lato decidiamo di non usare una particolare forma di espressione, dall’altro siamo fortemente tentati di usarla, innanzitutto perché ci sembra ottimo inglese o ottimo tedesco ecc. e poi, secondariamente, perché ci sono forme di espressioni molto simili che vengono impiegate in altri settori del nostro linguaggio. Abbiamo deciso di non usare la locuzione «quelle due cose sono nello stesso luogo, ecc.»; tuttavia essa ci si raccomanda fortemente attraverso l’analogia con {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,94}} altri casi, in modo tale che noi, in un certo senso, dobbiamo espellere questa forma di espressione con la forza. Ecco perché abbiamo l’impressione di stare rifiutando una proposizione universalmente falsa. Ci facciamo un’immagine come quella dei due colori che si ostacolano reciprocamente, o di una barriera che non permette a una persona di avvicinarsi all’esperienza di un altro più che osservandone il comportamento; ma guardando più da vicino ci accorgiamo di non poter applicare l’immagine che ci siamo fatti.
Quando diciamo «non posso sentire il suo dolore» ci si suggerisce l’idea di una {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,93}} barriera insormontabile. Pensa subito a un caso simile: «I colori verde e blu non possono essere contemporaneamente nello stesso punto». Qui l’immagine d’impossibilità fisica che ci si suggerisce non è, forse, quella di una barriera; sentiamo invece che i due colori si ostacolano reciprocamente. Qual è l’origine di quest’idea? – Diciamo che tre persone non possono sedersi una accanto all’altra su questa panca; non c’è spazio. Il caso dei colori non è analogo a questo; ma è in qualche modo analogo al dire: «un metro e mezzo non ci sta tre volte in un metro». Questa è una regola grammaticale e afferma un’impossibilità logica. La proposizione «tre uomini non possono sedersi l’uno accanto all’altro su una panca di un metro scarso» afferma un’impossibilità fisica; e questo esempio mostra chiaramente perché le due impossibilità sono confuse. (Confronta la proposizione «lui è quindici centimetri più alto di me» con «1,80 metri è 15 centimetri più di 1,65 metri». Le due proposizioni sono di tipo assolutamente diverso, ma sono perfettamente somiglianti.) La ragione per cui in questi casi ci si suggerisce l’idea dell’impossibilità fisica è che da un lato decidiamo di non usare una particolare forma di espressione, dall’altro siamo fortemente tentati di usarla, innanzitutto perché ci sembra ottimo inglese o ottimo tedesco ecc. e poi, secondariamente, perché ci sono forme di espressioni molto simili che vengono impiegate in altri settori del nostro linguaggio. Abbiamo deciso di non usare la locuzione «quelle due cose sono nello stesso luogo, ecc.»; tuttavia essa ci si raccomanda fortemente attraverso l’analogia con {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,94}} altri casi, in modo tale che noi, in un certo senso, dobbiamo espellere questa forma di espressione con la forza. Ecco perché abbiamo l’impressione di stare rifiutando una proposizione universalmente falsa. Ci facciamo un’immagine come quella dei due colori che si ostacolano reciprocamente, o di una barriera che non permette a una persona di avvicinarsi all’esperienza di un altro più che osservandone il comportamento; ma guardando più da vicino ci accorgiamo di non poter applicare l’immagine che ci siamo fatti.


Il nostro oscillare tra impossibilità logica e fisica ci porta a fare affermazioni come la seguente: «Se ciò che sento è sempre il ''mio'' dolore e basta, che cosa può significare la supposizione che qualcun altro provi dolore?». Ciò che va fatto in questi casi è sempre guardare come le parole in questione sono ''effettivamente usate nel nostro linguaggio''. In tutti questi casi pensiamo a un uso diverso da quello che il nostro linguaggio ordinario fa di tali parole. A un uso, però, che proprio in quel momento per qualche ragione ci si raccomanda fortemente. Quando qualcosa nella grammatica delle nostre parole sembra bizzarro, è perché siamo alternativamente tentati di utilizzare una parola in vari sensi diversi. E scoprire che un’asserzione fatta dal metafisico esprime insoddisfazione nei confronti della nostra grammatica è particolarmente difficile quando le parole di tale asserzione possono anche essere impiegate per descrivere un fatto empirico. Così, quando costui dice «solo il mio dolore è vero dolore», questa frase potrebbe significare che le altre persone si limitano a fingere. E se il metafisico dice «quando nessuno lo vede, quest’albero non esiste», ciò potrebbe significare «quest’albero {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,95}} svanisce quando gli voltiamo le spalle». Chi dice «solo il mio dolore è reale» non intende dire che ha stabilito in basi ai criteri comuni – i criteri, cioè, che danno alle parole i loro significati comuni – che gli altri che dicevano di provare dolore mentivano. Ciò contro cui costui si ribella è l’uso di ''quest’''espressione in connessione con ''questi'' criteri. Egli, cioè, protesta contro l’impiego di questa parola nel particolare modo in cui viene comunemente usata. D’altro canto, egli non si rende conto di protestare contro una convenzione. Vede una maniera di dividere il Paese diverso da quello utilizzato nella cartina ordinaria. Si sente tentato, diciamo, di utilizzare il nome «Devonshire» non per la contea con i suoi confini convenzionali, ma per una regione dai confini diversi. Potrebbe esprimere ciò dicendo: «Non è assurdo fare di ''questo'' una contea, tirare i confini ''qui''?». Ma ciò che dice è: «Il ''vero'' Devonshire è questo». Potremmo rispondere: «Ciò che vuoi è soltanto una nuova notazione e con una nuova notazione non cambia alcun fatto geografico». Tuttavia, è vero che possiamo essere irresistibilmente attratti o respinti da una notazione. (Dimentichiamo facilmente quanto una notazione, una forma d’espressione, può significare per noi e che cambiarla non è sempre tanto facile quanto spesso è invece nella matematica o nelle scienze. Un cambio d’abiti o di nomi può significare pochissimo e può significare moltissimo.)
Il nostro oscillare tra impossibilità logica e fisica ci porta a fare affermazioni come la seguente: «Se ciò che sento è sempre il ''mio'' dolore e basta, che cosa può significare la supposizione che qualcun altro provi dolore?». Ciò che va fatto in questi casi è sempre guardare come le parole in questione sono ''effettivamente usate nel nostro linguaggio''. In tutti questi casi pensiamo a un uso diverso da quello che il nostro linguaggio ordinario fa di tali parole. A un uso, però, che proprio in quel momento per qualche ragione ci si raccomanda fortemente. Quando qualcosa nella grammatica delle nostre parole sembra bizzarro, è perché siamo alternativamente tentati di utilizzare una parola in vari sensi diversi. E scoprire che un’asserzione fatta dal metafisico esprime insoddisfazione nei confronti della nostra grammatica è particolarmente difficile quando le parole di tale asserzione possono anche essere impiegate per descrivere un fatto empirico. Così, quando costui dice «solo il mio dolore è vero dolore», questa frase potrebbe significare che le altre persone si limitano a fingere. E se il metafisico dice «quando nessuno lo vede, quest’albero non esiste», ciò potrebbe significare «quest’albero {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,95}} svanisce quando gli voltiamo le spalle». Chi dice «solo il mio dolore è reale» non intende dire che ha stabilito in basi ai criteri comuni – i criteri, cioè, che danno alle parole i loro significati comuni – che gli altri che dicevano di provare dolore mentivano. Ciò contro cui costui si ribella è l’uso di ''quest’''espressione in connessione con ''questi'' criteri. Egli, cioè, protesta contro l’impiego di questa parola nel particolare modo in cui viene comunemente usata. D’altro canto, egli non si rende conto di protestare contro una convenzione. Vede una maniera di dividere il Paese diverso da quello utilizzato nella cartina ordinaria. Si sente tentato, diciamo, di utilizzare il nome «Devonshire» non per la contea con i suoi confini convenzionali, ma per una regione dai confini diversi. Potrebbe esprimere ciò dicendo: «Non è assurdo fare di ''questo'' una contea, tirare i confini ''qui''?». Ma ciò che dice è: «Il ''vero'' Devonshire è questo». Potremmo rispondere: «Ciò che vuoi è soltanto una nuova notazione e con una nuova notazione non cambia alcun fatto geografico». Tuttavia, è vero che possiamo essere irresistibilmente attratti o respinti da una notazione. (Dimentichiamo facilmente quanto una notazione, una forma d’espressione, può significare per noi e che cambiarla non è sempre tanto facile quanto spesso è invece nella matematica o nelle scienze. Un cambio d’abiti o di nomi può significare pochissimo e può significare moltissimo.)
Line 465: Line 465:
Oppure immagina che normalmente un uomo abbia due personaggi, nel seguente modo: la sua forma, la sua stazza e le caratteristiche del suo comportamento ogni tanto cambiano inspiegabilmente. È normale che un uomo abbia due di questi stati e che improvvisamente scivoli dall’uno all’altro. È molto probabile che in tal {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,104}} caso saremmo portati a battezzare ogni uomo con due nomi e magari a parlare delle due persone presenti nel suo corpo. Il dottor Jekyll e Mr Hyde erano due persone oppure erano la stessa persona che semplicemente cambiava? Possiamo scegliere l’alternativa che preferiamo. Non siamo costretti a parlare di doppia personalità.
Oppure immagina che normalmente un uomo abbia due personaggi, nel seguente modo: la sua forma, la sua stazza e le caratteristiche del suo comportamento ogni tanto cambiano inspiegabilmente. È normale che un uomo abbia due di questi stati e che improvvisamente scivoli dall’uno all’altro. È molto probabile che in tal {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,104}} caso saremmo portati a battezzare ogni uomo con due nomi e magari a parlare delle due persone presenti nel suo corpo. Il dottor Jekyll e Mr Hyde erano due persone oppure erano la stessa persona che semplicemente cambiava? Possiamo scegliere l’alternativa che preferiamo. Non siamo costretti a parlare di doppia personalità.


Ci sono molti usi della parola «personalità» che possiamo sentirci portati ad adottare, tutti più o meno analoghi. Lo stesso vale quando definiamo l’identità di una persona per mezzo dei suoi ricordi. Immagina un uomo i cui ricordi, durante i giorni pari della sua vita, includono gli eventi di tutti i giorni pari, ma saltando completamente i giorni dispari; d’altra pare, nei giorni dispari l’uomo ricorda ciò che è accaduto nei giorni dispari precedenti, ma la sua memoria salta i giorni pari senza alcuna sensazione di discontinuità. Se ci aggrada, possiamo supporre anche che, a seconda che si tratti di un giorno pari o dispari, costui abbia aspetti e caratteristiche diverse. Dobbiamo dire che qui due persone stanno abitando lo stesso corpo? Cioè, è giusto dire che ci sono due persone, e sbagliato dire che non ci sono, oppure viceversa? Nessuna delle due. Perché l’uso ''ordinario'' della parola «persona» è ciò potremmo chiamare un uso composito adatto alle circostanze ordinarie. Se presuppongo, come sto facendo ora, che tali circostanze siano cambiate, l’applicazione del termine «persona» o «personalità» è per ciò stesso cambiato, e se desidero preservare tale termine e fornirgli un uso analogo al suo uso precedente, sono libero di scegliere tra molti usi, cioè tra molti tipi diversi di analogia. Si potrebbe dire che in un caso simile {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,105}} il termine «personalità» non ha un unico erede legittimo. (Questo tipo di considerazione è rilevante nella filosofia della matematica. Considera l’uso delle parole «dimostrazione», «formula,» e altre. Considera la domanda: «Perché ciò che facciamo qui dovrebbe essere chiamato “filosofia?” Perché dovrebbe essere visto come l’unico erede legittimo delle diverse attività che in passato avevano questo nome?»)
Ci sono molti usi della parola «personalità» che possiamo sentirci portati ad adottare, tutti più o meno analoghi. Lo stesso vale quando definiamo l’identità di una persona per mezzo dei suoi ricordi. Immagina un uomo i cui ricordi, durante i giorni pari della sua vita, includono gli eventi di tutti i giorni pari, ma saltando completamente i giorni dispari; d’altra pare, nei giorni dispari l’uomo ricorda ciò che è accaduto nei giorni dispari precedenti, ma la sua memoria salta i giorni pari senza alcuna sensazione di discontinuità. Se ci aggrada, possiamo supporre anche che, a seconda che si tratti di un giorno pari o dispari, costui abbia aspetti e caratteristiche diverse. Dobbiamo dire che qui due persone stanno abitando lo stesso corpo? Cioè, è giusto dire che ci sono due persone, e sbagliato dire che non ci sono, oppure viceversa? Nessuna delle due. Perché l’uso ''ordinario'' della parola «persona» è ciò potremmo chiamare un uso composito adatto alle circostanze ordinarie. Se presuppongo, come sto facendo ora, che tali circostanze siano cambiate, l’applicazione del termine «persona» o «personalità» è per ciò stesso cambiato, e se desidero preservare tale termine e fornirgli un uso analogo al suo uso precedente, sono libero di scegliere tra molti usi, cioè tra molti tipi diversi di analogia. Si potrebbe dire che in un caso simile {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,105}} il termine «personalità» non ha un unico erede legittimo. (Questo tipo di considerazione è rilevante nella filosofia della matematica. Considera l’uso delle parole «dimostrazione», «formula», e altre. Considera la domanda: «Perché ciò che facciamo qui dovrebbe essere chiamato “filosofia?” Perché dovrebbe essere visto come l’unico erede legittimo delle diverse attività che in passato avevano questo nome?»)


Ora chiediamoci a che genere di identità di personalità ci stiamo riferendo quando diciamo: «Quando una cosa viene vista, sono sempre io che vedo». Che cos’è che voglio che abbiano in comune tutte queste istanze del vedere? Come risposta, devo confessare a me stesso che non si tratta del mio aspetto corporeo. Quando vedo, non vedo sempre parte del mio corpo. E non è essenziale che il mio corpo, se visto tra le cose che vedo, debba sempre avere lo stesso aspetto. In effetti, non mi interessa quanto esso cambia. E i miei sentimenti sono gli stessi nei confronti delle proprietà del mio corpo, delle caratteristiche del mio comportamento e persino dei miei ricordi. – Pensandoci un po’ più a lungo mi accorgo che ciò che desideravo dire era: «Sempre, quando una cosa viene vista, qualcosa viene visto». Ossia, ciò di cui ho detto che continuava durante tutte le esperienze del vedere non era alcuna particolare entità «io», ma l’esperienza stessa del vedere. Ciò può divenire più chiaro se immaginiamo che l’uomo che fa la nostra affermazione solipsistica mentre dice «io» indichi i propri occhi. (Magari perché desidera essere esatto e vuole dire espressamente quali occhi appartengono alla bocca che dice «io» e {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,106}} alle mani che indicano il suo corpo.) Ma che cos’è che sta indicando? Questi particolari occhi con l’identità di oggetti fisici? (Per comprendere tale frase devi ricordare che la grammatica delle parole di cui diciamo che stanno per oggetti fisici è caratterizzata dal modo in cui utilizziamo la locuzione «lo ''stesso'' così e così», o «l’identico così e così» dove così e così designa l’oggetto fisico.) Abbiamo detto prima che non desideravamo affatto indicare un particolare oggetto fisico. L’idea che costui avesse fatto un’affermazione dotata di significato è sorta da una confusione corrispondente alla confusione tra ciò che chiameremo «l’occhio geometrico» e «l’occhio fisico». Indicherò l’uso di questi termini: se un uomo cerca di eseguire l’ordine «indica il tuo occhio», può fare molte cose diverse e ci sono molti criteri diversi per il fatto di aver indicato il proprio occhio che considererà accettabili. Se questi criteri, come accade di solito, coincidono, posso usarli alternativamente e in diverse combinazioni per mostrare a me stesso che mi sono toccato l’occhio. Se non coincidono, dovrò distinguere tra sensi diversi della locuzione «mi tocco l’occhio» o «muovo il dito verso il mio occhio». Se ho gli occhi chiusi, per esempio, posso comunque avere nel braccio la caratteristica esperienza cinestetica che chiamerei l’esperienza cinestetica di sollevare la mano verso l’occhio. Il fatto di esserci riuscito lo riconoscerò in base alla caratteristica sensazione tattile di toccarmi l’occhio. Ma se il mio occhio fosse dietro una lastra di vetro assicurata in modo tale da impedirmi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,107}} di esercitare una pressione sull’occhio con il dito, ci sarebbe comunque un criterio di sensazione muscolare che mi farebbe dire che il dito è davanti all’occhio. Per quanto riguarda i criteri visivi, posso adottarne due. C’è l’esperienza ordinaria di vedere la mano alzarsi e avvicinarsi all’occhio, e questa esperienza naturalmente è diversa dal vedere due cose che si incontrano, per esempio due polpastrelli. D’altra parte, posso utilizzare come criterio per il fatto che il mio dito si muove verso l’occhio ciò che vedo quando guardo in uno specchio e vedo il dito accostarsi all’occhio. Se il punto del mio corpo che, come diciamo, «vede» va determinato muovendo il dito verso l’occhio, in accordo con il secondo criterio, allora è concepibile che io possa vedere con ciò che in base ad altri criteri è la punta del naso o qualche zona della fronte; oppure potrei indicare in questo modo un luogo posto fuori dal mio corpo. Se desidero che una persona indichi il proprio occhio (o i propri occhi) in base soltanto al secondo criterio, esprimerò il mio desiderio dicendo: «Indica il tuo occhio geometrico (o i tuoi occhi geometrici)». La grammatica della parola «occhio geometrico» sta con la grammatica della parola «occhio fisico» nella stessa relazione in cui la grammatica dell’espressione «il dato sensoriale visivo di un albero» sta alla grammatica dell’espressione «l’albero fisico». In entrambi i casi dire «l’uno è un ''tipo diverso'' di oggetto rispetto all’altro» confonde tutto; poiché chi dice che un dato sensoriale è un tipo di oggetto diverso da un oggetto fisico fraintende la grammatica della parola «tipo», proprio come chi dice che un numero è un tipo di {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,108}} oggetto diverso da un numerale. Chi dice così pensa di fare un’affermazione quale «un convoglio ferroviario, una stazione ferroviaria e un vagone ferroviario sono tipi diversi di oggetti», mentre la loro affermazione è analoga a «un convoglio ferroviario, un incidente ferroviario e una legge ferroviaria sono tipi diversi di oggetti».
Ora chiediamoci a che genere di identità di personalità ci stiamo riferendo quando diciamo: «Quando una cosa viene vista, sono sempre io che vedo». Che cos’è che voglio che abbiano in comune tutte queste istanze del vedere? Come risposta, devo confessare a me stesso che non si tratta del mio aspetto corporeo. Quando vedo, non vedo sempre parte del mio corpo. E non è essenziale che il mio corpo, se visto tra le cose che vedo, debba sempre avere lo stesso aspetto. In effetti, non mi interessa quanto esso cambia. E i miei sentimenti sono gli stessi nei confronti delle proprietà del mio corpo, delle caratteristiche del mio comportamento e persino dei miei ricordi. – Pensandoci un po’ più a lungo mi accorgo che ciò che desideravo dire era: «Sempre, quando una cosa viene vista, qualcosa viene visto». Ossia, ciò di cui ho detto che continuava durante tutte le esperienze del vedere non era alcuna particolare entità «io», ma l’esperienza stessa del vedere. Ciò può divenire più chiaro se immaginiamo che l’uomo che fa la nostra affermazione solipsistica mentre dice «io» indichi i propri occhi. (Magari perché desidera essere esatto e vuole dire espressamente quali occhi appartengono alla bocca che dice «io» e {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,106}} alle mani che indicano il suo corpo.) Ma che cos’è che sta indicando? Questi particolari occhi con l’identità di oggetti fisici? (Per comprendere tale frase devi ricordare che la grammatica delle parole di cui diciamo che stanno per oggetti fisici è caratterizzata dal modo in cui utilizziamo la locuzione «lo ''stesso'' così e così», o «l’identico così e così» dove così e così designa l’oggetto fisico.) Abbiamo detto prima che non desideravamo affatto indicare un particolare oggetto fisico. L’idea che costui avesse fatto un’affermazione dotata di significato è sorta da una confusione corrispondente alla confusione tra ciò che chiameremo «l’occhio geometrico» e «l’occhio fisico». Indicherò l’uso di questi termini: se un uomo cerca di eseguire l’ordine «indica il tuo occhio», può fare molte cose diverse e ci sono molti criteri diversi per il fatto di aver indicato il proprio occhio che considererà accettabili. Se questi criteri, come accade di solito, coincidono, posso usarli alternativamente e in diverse combinazioni per mostrare a me stesso che mi sono toccato l’occhio. Se non coincidono, dovrò distinguere tra sensi diversi della locuzione «mi tocco l’occhio» o «muovo il dito verso il mio occhio». Se ho gli occhi chiusi, per esempio, posso comunque avere nel braccio la caratteristica esperienza cinestetica che chiamerei l’esperienza cinestetica di sollevare la mano verso l’occhio. Il fatto di esserci riuscito lo riconoscerò in base alla caratteristica sensazione tattile di toccarmi l’occhio. Ma se il mio occhio fosse dietro una lastra di vetro assicurata in modo tale da impedirmi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,107}} di esercitare una pressione sull’occhio con il dito, ci sarebbe comunque un criterio di sensazione muscolare che mi farebbe dire che il dito è davanti all’occhio. Per quanto riguarda i criteri visivi, posso adottarne due. C’è l’esperienza ordinaria di vedere la mano alzarsi e avvicinarsi all’occhio, e questa esperienza naturalmente è diversa dal vedere due cose che si incontrano, per esempio due polpastrelli. D’altra parte, posso utilizzare come criterio per il fatto che il mio dito si muove verso l’occhio ciò che vedo quando guardo in uno specchio e vedo il dito accostarsi all’occhio. Se il punto del mio corpo che, come diciamo, «vede» va determinato muovendo il dito verso l’occhio, in accordo con il secondo criterio, allora è concepibile che io possa vedere con ciò che in base ad altri criteri è la punta del naso o qualche zona della fronte; oppure potrei indicare in questo modo un luogo posto fuori dal mio corpo. Se desidero che una persona indichi il proprio occhio (o i propri occhi) in base soltanto al secondo criterio, esprimerò il mio desiderio dicendo: «Indica il tuo occhio geometrico (o i tuoi occhi geometrici)». La grammatica della parola «occhio geometrico» sta con la grammatica della parola «occhio fisico» nella stessa relazione in cui la grammatica dell’espressione «il dato sensoriale visivo di un albero» sta alla grammatica dell’espressione «l’albero fisico». In entrambi i casi dire «l’uno è un ''tipo diverso'' di oggetto rispetto all’altro» confonde tutto; poiché chi dice che un dato sensoriale è un tipo di oggetto diverso da un oggetto fisico fraintende la grammatica della parola «tipo», proprio come chi dice che un numero è un tipo di {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,108}} oggetto diverso da un numerale. Chi dice così pensa di fare un’affermazione quale «un convoglio ferroviario, una stazione ferroviaria e un vagone ferroviario sono tipi diversi di oggetti», mentre la loro affermazione è analoga a «un convoglio ferroviario, un incidente ferroviario e una legge ferroviaria sono tipi diversi di oggetti».
Line 489: Line 489:
Confronta i due casi: 1. «Come sai che ''lui'' ha dei dolori?» – «Perché lo sento gemere». 2. «Come sai che tu hai dei dolori?» – «Perché li ''sento''». Ma «li sento» significa lo stesso di «li ho». Quindi questa non era affatto una spiegazione. Il fatto che, comunque, nella mia risposta io sia portato a sottolineare la parola «sentire» e non la parola «io» indica che non desidero scegliere una persona (tra altre persone).
Confronta i due casi: 1. «Come sai che ''lui'' ha dei dolori?» – «Perché lo sento gemere». 2. «Come sai che tu hai dei dolori?» – «Perché li ''sento''». Ma «li sento» significa lo stesso di «li ho». Quindi questa non era affatto una spiegazione. Il fatto che, comunque, nella mia risposta io sia portato a sottolineare la parola «sentire» e non la parola «io» indica che non desidero scegliere una persona (tra altre persone).


La differenza tra le proposizioni «io ho dolore» e «lui ha dolore» non è la stessa che tra «L. W. ha dolore» e «Smith ha dolore». Corrisponde invece alla differenza tra gemere e dire che qualcuno geme. – «Ma certamente la parola “io” in “io ho dolore” serve a distinguermi da altre persone, perché è con il segno “io” che distinguo il dire che ho dolore dal dire che ce l’ha uno degli altri.» Immagina un linguaggio in cui, invece di «non ho trovato nessuno nella stanza» si dicesse «ho trovato Mr Nessuno nella stanza». Immagina i problemi filosofici che sorgerebbe da una notazione simile. Alcuni filosofi educati in tale linguaggio probabilmente avrebbero la sensazione di non gradire la somiglianza tra le espressioni «Mr Nessuno» e «Mr Smith». Quando abbiamo la sensazione di voler abolire l’«io» in «io ho dolore», si può dire che tendiamo a rendere l’espressione verbale del dolore simile all’espressione del gemito. – Siamo propensi a dimenticare {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,116}} che è soltanto il suo uso particolare a dare a una parola il suo significato. Pensiamo al nostro vecchio esempio per l’uso delle parole: si manda qualcuno dal fruttivendolo con un foglietto su cui sono state scritte le parole «cinque mele». L’uso della parola ''nella pratica'' è il suo significato. Immagina che normalmente gli oggetti attorno a noi portino delle etichette con scritte sopra le parole con cui il nostro discorso si riferisce a tali oggetti. Alcune di queste parole sarebbero i nomi propri degli oggetti, altre nomi generici (come tavolo, sedia, ecc.), altri ancora nomi di colori, nomi di forme, ecc. Ovverosia, un’etichetta avrebbe per noi un significato soltanto nella misura in cui noi ne facciamo un particolare uso. Ora, si può facilmente immaginare che a impressionarci sia il semplice fatto di vedere un’etichetta su una cosa, e che quindi dimentichiamo che ciò che rende importanti queste etichette è il loro uso. In questo modo, talvolta, crediamo di aver nominato qualcosa quando facciamo un gesto per indicarlo e pronunciamo le parole «questo è…» (la formula della definizione ostensiva). Diciamo che chiamiamo qualcosa «mal di denti» e pensiamo che la parola abbia ricevuto una funzione definita nelle operazioni che svolgiamo con il linguaggio quando, in certe circostanze, ci siamo indicati la guancia e abbiamo detto: «Questo è mal di denti». (La nostra idea è che, se noi indichiamo e l’altro «solo sa ciò che indichiamo,» allora lui sa usare la parola. Qui abbiamo in mente il caso speciale in cui «ciò che indichiamo» è, poniamo, una persona e «sapere ciò che indico» significa vedere quale delle persone presenti sto indicando). {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,117}}
La differenza tra le proposizioni «io ho dolore» e «lui ha dolore» non è la stessa che tra «L. W. ha dolore» e «Smith ha dolore». Corrisponde invece alla differenza tra gemere e dire che qualcuno geme. – «Ma certamente la parola “io” in “io ho dolore” serve a distinguermi da altre persone, perché è con il segno “io” che distinguo il dire che ho dolore dal dire che ce l’ha uno degli altri.» Immagina un linguaggio in cui, invece di «non ho trovato nessuno nella stanza» si dicesse «ho trovato Mr Nessuno nella stanza». Immagina i problemi filosofici che sorgerebbe da una notazione simile. Alcuni filosofi educati in tale linguaggio probabilmente avrebbero la sensazione di non gradire la somiglianza tra le espressioni «Mr Nessuno» e «Mr Smith». Quando abbiamo la sensazione di voler abolire l’«io» in «io ho dolore», si può dire che tendiamo a rendere l’espressione verbale del dolore simile all’espressione del gemito. – Siamo propensi a dimenticare {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,116}} che è soltanto il suo uso particolare a dare a una parola il suo significato. Pensiamo al nostro vecchio esempio per l’uso delle parole: si manda qualcuno dal fruttivendolo con un foglietto su cui sono state scritte le parole «cinque mele». L’uso della parola ''nella pratica'' è il suo significato. Immagina che normalmente gli oggetti attorno a noi portino delle etichette con scritte sopra le parole con cui il nostro discorso si riferisce a tali oggetti. Alcune di queste parole sarebbero i nomi propri degli oggetti, altre nomi generici (come tavolo, sedia, ecc.), altri ancora nomi di colori, nomi di forme, ecc. Ovverosia, un’etichetta avrebbe per noi un significato soltanto nella misura in cui noi ne facciamo un particolare uso. Ora, si può facilmente immaginare che a impressionarci sia il semplice fatto di vedere un’etichetta su una cosa, e che quindi dimentichiamo che ciò che rende importanti queste etichette è il loro uso. In questo modo, talvolta, crediamo di aver nominato qualcosa quando facciamo un gesto per indicarlo e pronunciamo le parole «questo è…» (la formula della definizione ostensiva). Diciamo che chiamiamo qualcosa «mal di denti» e pensiamo che la parola abbia ricevuto una funzione definita nelle operazioni che svolgiamo con il linguaggio quando, in certe circostanze, ci siamo indicati la guancia e abbiamo detto: «Questo è mal di denti». (La nostra idea è che, se noi indichiamo e l’altro «solo sa ciò che indichiamo», allora lui sa usare la parola. Qui abbiamo in mente il caso speciale in cui «ciò che indichiamo» è, poniamo, una persona e «sapere ciò che indico» significa vedere quale delle persone presenti sto indicando). {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,117}}


Abbiamo l’impressione che nei casi in cui «io» è usato come soggetto, non lo impieghiamo perché riconosciamo una persona particolare in base alle sue caratteristiche corporee; questo crea l’illusione che usiamo tale parola per riferirci a qualcosa di incorporeo che, tuttavia, ha sede nel nostro corpo. In effetti, ''questo'' sembra essere l’ego reale, quello di cui si è detto «cogito, ergo sum». – «Dunque non c’è mente, ma solo un corpo?» Risposta: la parola «mente» ha significato, cioè ha un uso nel nostro linguaggio; ma dire questo non dice ancora che tipo di uso ne facciamo.
Abbiamo l’impressione che nei casi in cui «io» è usato come soggetto, non lo impieghiamo perché riconosciamo una persona particolare in base alle sue caratteristiche corporee; questo crea l’illusione che usiamo tale parola per riferirci a qualcosa di incorporeo che, tuttavia, ha sede nel nostro corpo. In effetti, ''questo'' sembra essere l’ego reale, quello di cui si è detto «cogito, ergo sum». – «Dunque non c’è mente, ma solo un corpo?» Risposta: la parola «mente» ha significato, cioè ha un uso nel nostro linguaggio; ma dire questo non dice ancora che tipo di uso ne facciamo.
Line 509: Line 509:
Dire «mi si sta avvicinando» ha senso, anche quando, dal punto di vista fisico, niente si sta avvicinando al mio corpo; allo stesso modo ha senso dire «è qui» oppure «mi ha raggiunto» quando nulla ha raggiunto il mio corpo. E d’altra parte «io sono qui» ha senso se la mia voce è riconosciuta e sentita provenire da un luogo particolare dello «spazio comune». Nella frase «è qui» il «qui» era un qui nello spazio visivo. È, grossomodo, l’occhio geometrico. La frase «io sono qui», per avere senso, deve attrarre l’attenzione su un luogo nello spazio comune. (E ci sono vari modi in cui tale frase potrebbe venire usata.) Il filosofo che pensa che abbia senso dire a se stesso «sono qui» prende l’espressione verbale dalla frase in cui «qui» è un luogo nello spazio comune e pensa a «qui» come al qui dello spazio visivo. In realtà, dunque, afferma qualcosa come «qui è qui».
Dire «mi si sta avvicinando» ha senso, anche quando, dal punto di vista fisico, niente si sta avvicinando al mio corpo; allo stesso modo ha senso dire «è qui» oppure «mi ha raggiunto» quando nulla ha raggiunto il mio corpo. E d’altra parte «io sono qui» ha senso se la mia voce è riconosciuta e sentita provenire da un luogo particolare dello «spazio comune». Nella frase «è qui» il «qui» era un qui nello spazio visivo. È, grossomodo, l’occhio geometrico. La frase «io sono qui», per avere senso, deve attrarre l’attenzione su un luogo nello spazio comune. (E ci sono vari modi in cui tale frase potrebbe venire usata.) Il filosofo che pensa che abbia senso dire a se stesso «sono qui» prende l’espressione verbale dalla frase in cui «qui» è un luogo nello spazio comune e pensa a «qui» come al qui dello spazio visivo. In realtà, dunque, afferma qualcosa come «qui è qui».


Tuttavia, potrei cercare di esprimere il mio solipsismo in una maniera diversa: immagino che io e altri disegniamo immagini o scriviamo descrizioni di ciò che ognuno di noi vede. Queste descrizioni sono poste davanti a me. Indico quella che ho realizzato io e dico: «Solo questo è (o è stato) visto realmente.» Ossia, sono tentato di dire: «Solo questa descrizione ha dietro di sé la realtà {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,122}} (la realtà visiva)». Le altre le potrei chiamare – «descrizioni vuote». Potrei anche esprimermi così: «Soltanto ''questa'' descrizione è stata derivata dalla realtà: solo questa è stata confrontata con la realtà''QQQhh''». Ora, ha un significato chiaro quando diciamo che quest’immagine o descrizione è una proiezione, poniamo, di questo gruppo di oggetti – gli alberi che sto guardando – o che è stata derivata da questi oggetti. Ma dobbiamo esaminare la grammatica di una locuzione quale «questa descrizione è derivata dal mio dato sensoriale». Ciò di cui stiamo parlando è connesso con la strana tentazione di dire: «Non so mai che cosa l’altro intende davvero con “marrone”, o che cosa vede davvero quando (dicendo la verità) afferma di vedere un oggetto marrone». – A chi dice così potremmo proporre l’utilizzo di due parole diverse invece dell’unica parola «marrone»: una parola «''per la sua particolare impressione''», l’altra parola per il significato che anche altre persone oltre a lui possono capire. Se riflette su questa proposta, vedrà che c’è qualcosa di sbagliato nella sua concezione del significato – della funzione – della parola «marrone» e di altre parole. Egli cerca una giustificazione della sua descrizione dove non ce n’è alcuna. (Proprio come nel caso di un uomo che crede che la catena delle ragioni debba essere infinita. Pensa alla giustificazione dell’esecuzione di operazioni matematiche per mezzo di una formula generale; e alla domanda: questa formula ci costringe a farne, in questo particolare caso, proprio l’uso che ne facciamo?) Dire «derivo una descrizione dalla realtà visiva» non può significare nulla di analogo a «derivo una descrizione da ciò che vedo qui». Posso, per esempio, vedere un grafico in cui un quadrato {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,123}} colorato è correlato con la parola «marrone», e anche una chiazza dello stesso colore posta altrove; e posso dire: «Questo mi mostra che devo usare “marrone” per la descrizione di questa chiazza». È così che posso derivare la parola «marrone» per l’uso della mia descrizione. Ma sarebbe privo di significato dire che derivo la parola «marrone» dalla particolare impressione di colore che ricevo.
Tuttavia, potrei cercare di esprimere il mio solipsismo in una maniera diversa: immagino che io e altri disegniamo immagini o scriviamo descrizioni di ciò che ognuno di noi vede. Queste descrizioni sono poste davanti a me. Indico quella che ho realizzato io e dico: «Solo questo è (o è stato) visto realmente». Ossia, sono tentato di dire: «Solo questa descrizione ha dietro di sé la realtà {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,122}} (la realtà visiva)». Le altre le potrei chiamare – «descrizioni vuote». Potrei anche esprimermi così: «Soltanto ''questa'' descrizione è stata derivata dalla realtà: solo questa è stata confrontata con la realtà». Ora, ha un significato chiaro quando diciamo che quest’immagine o descrizione è una proiezione, poniamo, di questo gruppo di oggetti – gli alberi che sto guardando – o che è stata derivata da questi oggetti. Ma dobbiamo esaminare la grammatica di una locuzione quale «questa descrizione è derivata dal mio dato sensoriale». Ciò di cui stiamo parlando è connesso con la strana tentazione di dire: «Non so mai che cosa l’altro intende davvero con “marrone”, o che cosa vede davvero quando (dicendo la verità) afferma di vedere un oggetto marrone». – A chi dice così potremmo proporre l’utilizzo di due parole diverse invece dell’unica parola «marrone»: una parola «''per la sua particolare impressione''», l’altra parola per il significato che anche altre persone oltre a lui possono capire. Se riflette su questa proposta, vedrà che c’è qualcosa di sbagliato nella sua concezione del significato – della funzione – della parola «marrone» e di altre parole. Egli cerca una giustificazione della sua descrizione dove non ce n’è alcuna. (Proprio come nel caso di un uomo che crede che la catena delle ragioni debba essere infinita. Pensa alla giustificazione dell’esecuzione di operazioni matematiche per mezzo di una formula generale; e alla domanda: questa formula ci costringe a farne, in questo particolare caso, proprio l’uso che ne facciamo?) Dire «derivo una descrizione dalla realtà visiva» non può significare nulla di analogo a «derivo una descrizione da ciò che vedo qui». Posso, per esempio, vedere un grafico in cui un quadrato {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,123}} colorato è correlato con la parola «marrone», e anche una chiazza dello stesso colore posta altrove; e posso dire: «Questo mi mostra che devo usare “marrone” per la descrizione di questa chiazza». È così che posso derivare la parola «marrone» per l’uso della mia descrizione. Ma sarebbe privo di significato dire che derivo la parola «marrone» dalla particolare impressione di colore che ricevo.


Chiediamoci: «Può un ''corpo'' umano sentire dolore?» Si è portati a dire: «Come può il corpo sentire dolore? Il corpo in sé è qualcosa di morto; un corpo non è cosciente!». E qui di nuovo è come se esaminassimo la natura del dolore e vedessimo che fa parte della sua natura che un oggetto materiale non possa sentirlo. Ed è come se vedessimo che ciò che sente dolore deve essere un’entità di natura diversa rispetto a quella di un oggetto materiale; che dev’essere, insomma, di natura mentale. Ma dire che l’ego è mentale è come dire che il numero 3 è di natura mentale o immateriale quando riconosciamo che il numerale «3» non è usato come segno per un oggetto fisico.
Chiediamoci: «Può un ''corpo'' umano sentire dolore?» Si è portati a dire: «Come può il corpo sentire dolore? Il corpo in sé è qualcosa di morto; un corpo non è cosciente!». E qui di nuovo è come se esaminassimo la natura del dolore e vedessimo che fa parte della sua natura che un oggetto materiale non possa sentirlo. Ed è come se vedessimo che ciò che sente dolore deve essere un’entità di natura diversa rispetto a quella di un oggetto materiale; che dev’essere, insomma, di natura mentale. Ma dire che l’ego è mentale è come dire che il numero 3 è di natura mentale o immateriale quando riconosciamo che il numerale «3» non è usato come segno per un oggetto fisico.