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Potremmo chiedere al rabdomante: «Come hai imparato il significato della locuzione “un metro?”». Supponiamo che gli abbiano mostrato tali lunghezze, che poi lui le abbia misurate, e simili. Ti hanno anche insegnato a parlare della sensazione che l’acqua si trovi un metro sottoterra, una sensazione, per esempio, nelle mani? Altrimenti, che cosa ti ha fatto connettere la locuzione «un metro» con una sensazione nelle mani? Immaginiamo di aver già stimato delle lunghezze a occhio, ma mai a spanne. Come potremmo stimare una lunghezza in centimetri misurandola a spanne? Cioè, come potremmo interpretare in centimetri l’esperienza di misurare a spanne? La domanda è quale connessione c’è, per esempio, tra una sensazione tattile e l’esperienza di misurare un oggetto con una sbarra da un metro? Tale connessione ci mostrerà che cosa significa «sentire che qualcosa è lungo quindici centimetri». Immaginiamo che il rabdomante dica «non ho mai imparato a correlare la profondità dell’acqua sottoterra con delle sensazioni nelle mani, ma quando avverto una certa sensazione di tensione nelle mani, mi viene in {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,16}} mente la locuzione “un metro”». Noi risponderemmo: «Questa è un’ottima spiegazione di ciò che intendi per “sentire che la profondità è di un metro” e l’affermazione secondo cui tu lo senti non avrà né più né meno significato di quanto gliene ha dato la tua spiegazione. E se l’esperienza ti mostra che l’effettiva profondità dell’acqua combacia sempre con la locuzione “''n'' metri” che ti sorge nella mente, allora la tua esperienza sarà di grande utilità per determinare la profondità dell’acqua». – Vedi però che il significato delle parole «sento che la profondità dell’acqua è di ''n'' metri» andava spiegato; non era noto quando era noto il significato della locuzione «''n'' metri» nel senso ordinario (ossia nei contesti ordinari). – Non diciamo che l’uomo che sostiene di sentire l’immagine visiva cinque centimetri dietro il ponte del naso mente o fa affermazioni prive di senso. Diciamo però che non comprendiamo il significato della sua locuzione. Tale espressione combina parole ben note, ma le combina in un modo che non riusciamo ancora a comprendere. La grammatica di questa frase deve ancora venirci spiegata. | Potremmo chiedere al rabdomante: «Come hai imparato il significato della locuzione “un metro?”». Supponiamo che gli abbiano mostrato tali lunghezze, che poi lui le abbia misurate, e simili. Ti hanno anche insegnato a parlare della sensazione che l’acqua si trovi un metro sottoterra, una sensazione, per esempio, nelle mani? Altrimenti, che cosa ti ha fatto connettere la locuzione «un metro» con una sensazione nelle mani? Immaginiamo di aver già stimato delle lunghezze a occhio, ma mai a spanne. Come potremmo stimare una lunghezza in centimetri misurandola a spanne? Cioè, come potremmo interpretare in centimetri l’esperienza di misurare a spanne? La domanda è quale connessione c’è, per esempio, tra una sensazione tattile e l’esperienza di misurare un oggetto con una sbarra da un metro? Tale connessione ci mostrerà che cosa significa «sentire che qualcosa è lungo quindici centimetri». Immaginiamo che il rabdomante dica «non ho mai imparato a correlare la profondità dell’acqua sottoterra con delle sensazioni nelle mani, ma quando avverto una certa sensazione di tensione nelle mani, mi viene in {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,16}} mente la locuzione “un metro”». Noi risponderemmo: «Questa è un’ottima spiegazione di ciò che intendi per “sentire che la profondità è di un metro” e l’affermazione secondo cui tu lo senti non avrà né più né meno significato di quanto gliene ha dato la tua spiegazione. E se l’esperienza ti mostra che l’effettiva profondità dell’acqua combacia sempre con la locuzione “''n'' metri” che ti sorge nella mente, allora la tua esperienza sarà di grande utilità per determinare la profondità dell’acqua». – Vedi però che il significato delle parole «sento che la profondità dell’acqua è di ''n'' metri» andava spiegato; non era noto quando era noto il significato della locuzione «''n'' metri» nel senso ordinario (ossia nei contesti ordinari). – Non diciamo che l’uomo che sostiene di sentire l’immagine visiva cinque centimetri dietro il ponte del naso mente o fa affermazioni prive di senso. Diciamo però che non comprendiamo il significato della sua locuzione. Tale espressione combina parole ben note, ma le combina in un modo che non riusciamo ancora a comprendere. La grammatica di questa frase deve ancora venirci spiegata. | ||
L’importanza di analizzare la risposta del rabdomante sta nel fatto che spesso pensiamo di aver dato un significato a un’affermazione P semplicemente asserendo «''sento'' (o credo) che si dia il caso che P». (Più avanti parleremo del professor Hardy, secondo cui il teorema di Goldbach è una proposizione perché lui può credere che sia vero.) Abbiamo già detto che limitandoci a spiegare il significato della locuzione «un metro» nella maniera usuale, non abbiamo ancora spiegato il senso dell’espressione «sentire che l’acqua è a un metro ecc.». Se però il rabdomante avesse detto di aver ''imparato'' a stimare la profondità {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,17}} dell’acqua, poniamo, mettendosi a scavare alla ricerca d’acqua | L’importanza di analizzare la risposta del rabdomante sta nel fatto che spesso pensiamo di aver dato un significato a un’affermazione P semplicemente asserendo «''sento'' (o credo) che si dia il caso che P». (Più avanti parleremo del professor Hardy, secondo cui il teorema di Goldbach è una proposizione perché lui può credere che sia vero.) Abbiamo già detto che limitandoci a spiegare il significato della locuzione «un metro» nella maniera usuale, non abbiamo ancora spiegato il senso dell’espressione «sentire che l’acqua è a un metro ecc.». Se però il rabdomante avesse detto di aver ''imparato'' a stimare la profondità {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,17}} dell’acqua, poniamo, mettendosi a scavare alla ricerca d’acqua ogni volta che avvertiva una sensazione particolare e così correlando tali sensazioni con ''misurazioni'' della profondità, noi non avremmo avuto simili difficoltà. Ora dobbiamo esaminare la relazione tra il processo di ''imparare a stimare'' e l’atto di stimare. L’importanza di questa disamina risiede nel fatto che si applica alla relazione tra l’apprendimento del significato di una parola e l’impiego della parola. O, più in generale, che mostra le differenti relazioni possibili tra una regola data e le sue applicazioni. | ||
Consideriamo ora il processo di stimare una lunghezza a occhio: è estremamente importante che tu ti renda conto che ci sono moltissimi processi diversi che noi chiamiamo «stimare a occhio». | Consideriamo ora il processo di stimare una lunghezza a occhio: è estremamente importante che tu ti renda conto che ci sono moltissimi processi diversi che noi chiamiamo «stimare a occhio». | ||
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Se si pensa che non potrebbe darsi alcun comprendere o eseguire l’ordine senza un previo insegnamento, si pensa all’insegnamento come a ciò che fornisce una ''ragione'' per fare ciò che si è fatto; come a ciò che fornisce la strada su cui si cammina. Si ritiene che se un ordine viene compreso e poi eseguito dev’esserci una ragione per il fatto che viene eseguito nel modo in cui viene eseguito; anzi, una catena di ragioni che risale fino all’infinito. È come se si dicesse: «Ovunque tu sia, devi esserci arrivato da qualche altro luogo, e lì sei giunto da un altro luogo ancora; e così ''ad infinitum''». (Se, d’altro canto, tu avessi detto «ovunque ti trovi, avresti ''potuto'' arrivarci da un altro luogo distante dieci metri; e lì da un terzo luogo, a sua volta distante dieci metri, e avanti così ''ad infinitum''», ciò che tu invece avresti sottolineato sarebbe stata l’infinita ''possibilità'' di compiere un passo. Quindi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,23}} l’idea di un’infinita catena di ragioni sorge da una conclusione simile a questa: – che una linea di una certa lunghezza consiste in un numero infinito di parti perché è divisibile indefinitamente; ossia, perché la possibilità di suddividerla non ha fine). | Se si pensa che non potrebbe darsi alcun comprendere o eseguire l’ordine senza un previo insegnamento, si pensa all’insegnamento come a ciò che fornisce una ''ragione'' per fare ciò che si è fatto; come a ciò che fornisce la strada su cui si cammina. Si ritiene che se un ordine viene compreso e poi eseguito dev’esserci una ragione per il fatto che viene eseguito nel modo in cui viene eseguito; anzi, una catena di ragioni che risale fino all’infinito. È come se si dicesse: «Ovunque tu sia, devi esserci arrivato da qualche altro luogo, e lì sei giunto da un altro luogo ancora; e così ''ad infinitum''». (Se, d’altro canto, tu avessi detto «ovunque ti trovi, avresti ''potuto'' arrivarci da un altro luogo distante dieci metri; e lì da un terzo luogo, a sua volta distante dieci metri, e avanti così ''ad infinitum''», ciò che tu invece avresti sottolineato sarebbe stata l’infinita ''possibilità'' di compiere un passo. Quindi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,23}} l’idea di un’infinita catena di ragioni sorge da una conclusione simile a questa: – che una linea di una certa lunghezza consiste in un numero infinito di parti perché è divisibile indefinitamente; ossia, perché la possibilità di suddividerla non ha fine). | ||
Se d’altro canto comprendi che la catena di ragioni ''effettive'' ha un inizio, non ti disgusterà più l’idea di un caso in cui non c’è ''alcuna'' ragione per il modo in cui hai eseguito l’ordine. A questo punto, comunque, subentra un’altra confusione, quella tra ragione e causa. A creare tale confusione è l’uso ambiguo della parola «perché». Quindi quando la catena di ragioni è giunta alla fine e la domanda «perché» continua a essere posta, ''allora'' si è portati a fornire una causa invece che una ragione. Se, per esempio, alla domanda, «perché hai usato questo colore quando ti ho detto di dipingere una superficie rossa» tu rispondi, «mi si è mostrato un campione di questo colore e al contempo mi è stata detta la parola “rosso”, e dunque ora, | Se d’altro canto comprendi che la catena di ragioni ''effettive'' ha un inizio, non ti disgusterà più l’idea di un caso in cui non c’è ''alcuna'' ragione per il modo in cui hai eseguito l’ordine. A questo punto, comunque, subentra un’altra confusione, quella tra ragione e causa. A creare tale confusione è l’uso ambiguo della parola «perché». Quindi quando la catena di ragioni è giunta alla fine e la domanda «perché» continua a essere posta, ''allora'' si è portati a fornire una causa invece che una ragione. Se, per esempio, alla domanda, «perché hai usato questo colore quando ti ho detto di dipingere una superficie rossa» tu rispondi, «mi si è mostrato un campione di questo colore e al contempo mi è stata detta la parola “rosso”, e dunque ora, ogni volta che sento la parola “rosso”, mi si presenta alla mente questo colore», allora della tua azione hai fornito una causa invece che una ragione. | ||
La proposizione secondo cui la tua azione ha avuto una causa così e così è un’ipotesi. L’ipotesi è fondata abbiamo avuto una serie di esperienze che, per dirla grossolanamente, concordano nel mostrare che la tua azione è il regolare seguito di certe condizioni che allora chiameremo cause dell’azione. Per conoscere la ragione per cui hai fatto una certa affermazione, hai agito in un particolare modo, ecc., non è necessaria alcuna serie di esperienze concordanti e l’affermazione della tua ragione non è un’ipotesi. La differenza tra le grammatiche di «ragione» e di «causa» è molto simile {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,24}} a quella tra le grammatiche di «movente» e di «causa». Della causa si può dire che non si può ''conoscerla'' ma soltanto fare congetture a riguardo. D’altra parte, si dice spesso: «Certo ''io'' lo so perché ho fatto così», riferendosi al ''movente''. Quando dico: «Possiamo solo ''congetturare'' la causa ma ''conosciamo'' il movente», si vedrà in seguito che questa è un’affermazione grammaticale. Il «possiamo» si riferisce a una possibilità ''logica''. | La proposizione secondo cui la tua azione ha avuto una causa così e così è un’ipotesi. L’ipotesi è fondata abbiamo avuto una serie di esperienze che, per dirla grossolanamente, concordano nel mostrare che la tua azione è il regolare seguito di certe condizioni che allora chiameremo cause dell’azione. Per conoscere la ragione per cui hai fatto una certa affermazione, hai agito in un particolare modo, ecc., non è necessaria alcuna serie di esperienze concordanti e l’affermazione della tua ragione non è un’ipotesi. La differenza tra le grammatiche di «ragione» e di «causa» è molto simile {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,24}} a quella tra le grammatiche di «movente» e di «causa». Della causa si può dire che non si può ''conoscerla'' ma soltanto fare congetture a riguardo. D’altra parte, si dice spesso: «Certo ''io'' lo so perché ho fatto così», riferendosi al ''movente''. Quando dico: «Possiamo solo ''congetturare'' la causa ma ''conosciamo'' il movente», si vedrà in seguito che questa è un’affermazione grammaticale. Il «possiamo» si riferisce a una possibilità ''logica''. | ||
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Possiamo descrivere questi casi dicendo che abbiamo certe sensazioni che non si riferiscono a oggetti. La locuzione «non si riferiscono a oggetti» introduce una distinzione grammaticale. Se nel caratterizzare tali sensazioni usiamo locuzioni verbali come «avere paura», «avere voglia», ecc., queste saranno intransitive; «ho paura» sarà analogo a «piango». Possiamo piangere per qualcosa, ma ciò per cui piangiamo non è un elemento costitutivo del processo di piangere; ovverosia, potremmo descrivere tutto ciò che accade mentre piangiamo senza fare menzione di ciò per cui piangiamo. | Possiamo descrivere questi casi dicendo che abbiamo certe sensazioni che non si riferiscono a oggetti. La locuzione «non si riferiscono a oggetti» introduce una distinzione grammaticale. Se nel caratterizzare tali sensazioni usiamo locuzioni verbali come «avere paura», «avere voglia», ecc., queste saranno intransitive; «ho paura» sarà analogo a «piango». Possiamo piangere per qualcosa, ma ciò per cui piangiamo non è un elemento costitutivo del processo di piangere; ovverosia, potremmo descrivere tutto ciò che accade mentre piangiamo senza fare menzione di ciò per cui piangiamo. | ||
Supponiamo ora che io suggerisca di utilizzare l’espressione «provo paura» e altre simili soltanto in maniera transitiva. | Supponiamo ora che io suggerisca di utilizzare l’espressione «provo paura» e altre simili soltanto in maniera transitiva. Ovunque prima dicevamo (intransitivamente) «ho una sensazione di paura», adesso diremo «ho paura di qualcosa, ma non so di cosa». Esistono obiezioni a questa fraseologia? | ||
Potremmo dire: «No, fatto salvo che in tal caso usiamo la parola “sapere” in maniera bizzarra». Considera il caso seguente: – abbiamo una sensazione generale, priva di direzioni, di paura. Successivamente ci capita un’esperienza che ci fa dire: «Ora so di cos’avevo paura. Avevo paura che accadesse questa e questa cosa». È corretto descrivere la mia prima sensazione con un verbo intransitivo, oppure dovrei dire che la mia paura aveva un oggetto, anche se io ignoravo che l’avesse? {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,36}} Possono essere impiegate entrambe queste forme di descrizione. Per capirlo, esamina gli esempi seguenti: – potrebbe risultare pratico chiamare un certo stato di decadimento dentale, non accompagnato da ciò che chiamiamo comunemente mal di denti, «mal di denti inconscio» e utilizzare in tal caso l’espressione che abbiamo mal di denti, ma non lo sappiamo. È proprio in questo senso che la psicanalisi parla di pensieri inconsci, atti di volizione inconsci, ecc. È dunque sbagliato in questo senso dire che ho mal di denti ma non lo so? Non è affatto sbagliato, perché si tratta soltanto di una nuova terminologia, che può essere ritradotta in qualsiasi momento nel linguaggio ordinario. D’altra parte, è evidente che qui si fa un uso nuovo della parola «sapere». Se vuoi esaminare come viene usata tale espressione, ti sarà utile chiederti: «Che aspetto ha in questo caso il processo di venire a sapere?», «Che cos’è che chiamiamo “venire a sapere” o “scoprire”?». | Potremmo dire: «No, fatto salvo che in tal caso usiamo la parola “sapere” in maniera bizzarra». Considera il caso seguente: – abbiamo una sensazione generale, priva di direzioni, di paura. Successivamente ci capita un’esperienza che ci fa dire: «Ora so di cos’avevo paura. Avevo paura che accadesse questa e questa cosa». È corretto descrivere la mia prima sensazione con un verbo intransitivo, oppure dovrei dire che la mia paura aveva un oggetto, anche se io ignoravo che l’avesse? {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,36}} Possono essere impiegate entrambe queste forme di descrizione. Per capirlo, esamina gli esempi seguenti: – potrebbe risultare pratico chiamare un certo stato di decadimento dentale, non accompagnato da ciò che chiamiamo comunemente mal di denti, «mal di denti inconscio» e utilizzare in tal caso l’espressione che abbiamo mal di denti, ma non lo sappiamo. È proprio in questo senso che la psicanalisi parla di pensieri inconsci, atti di volizione inconsci, ecc. È dunque sbagliato in questo senso dire che ho mal di denti ma non lo so? Non è affatto sbagliato, perché si tratta soltanto di una nuova terminologia, che può essere ritradotta in qualsiasi momento nel linguaggio ordinario. D’altra parte, è evidente che qui si fa un uso nuovo della parola «sapere». Se vuoi esaminare come viene usata tale espressione, ti sarà utile chiederti: «Che aspetto ha in questo caso il processo di venire a sapere?», «Che cos’è che chiamiamo “venire a sapere” o “scoprire”?». | ||
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Abbiamo detto che chiederci che cosa, nel caso particolare che stiamo esaminando, dovremmo chiamare «venire a sapere» era un modo di esaminare la grammatica (l’uso) della parola «sapere». Si ha {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,38}} la tentazione di pensare che questa domanda sia soltanto vagamente pertinente, sempre che lo sia, rispetto alla domanda «che cosa significa la parola “sapere”?». Quando chiediamo «che aspetto ha in questo caso il “venire a sapere?”» sembra che ci siamo fatti sviare. Ma tale domanda è davvero una domanda riguardante la grammatica della parola «sapere», e ciò diventa più chiaro se la mettiamo nella forma: «Che cosa ''chiamiamo'' “venire a sapere?”». È parte della grammatica della parola «sedia» che ''questo'' sia ciò che chiamiamo «stare seduti su una sedia» ed è parte della grammatica della parola «significato» che ''questo'' sia ciò che chiamiamo «spiegazione di un significato»; analogamente, spiegare il mio criterio per il mal di denti a un’altra persona è fornire una spiegazione grammaticale sulla locuzione «mal di denti» e, in questo senso, «una spiegazione in merito al significato della locuzione “mal di denti”». | Abbiamo detto che chiederci che cosa, nel caso particolare che stiamo esaminando, dovremmo chiamare «venire a sapere» era un modo di esaminare la grammatica (l’uso) della parola «sapere». Si ha {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,38}} la tentazione di pensare che questa domanda sia soltanto vagamente pertinente, sempre che lo sia, rispetto alla domanda «che cosa significa la parola “sapere”?». Quando chiediamo «che aspetto ha in questo caso il “venire a sapere?”» sembra che ci siamo fatti sviare. Ma tale domanda è davvero una domanda riguardante la grammatica della parola «sapere», e ciò diventa più chiaro se la mettiamo nella forma: «Che cosa ''chiamiamo'' “venire a sapere?”». È parte della grammatica della parola «sedia» che ''questo'' sia ciò che chiamiamo «stare seduti su una sedia» ed è parte della grammatica della parola «significato» che ''questo'' sia ciò che chiamiamo «spiegazione di un significato»; analogamente, spiegare il mio criterio per il mal di denti a un’altra persona è fornire una spiegazione grammaticale sulla locuzione «mal di denti» e, in questo senso, «una spiegazione in merito al significato della locuzione “mal di denti”». | ||
Quando abbiamo imparato il significato dell’espressione «il tal dei tali ha mal di denti», ci sono stati indicati certi tipi di comportamento di coloro che si diceva avessero mal di denti. Come esempio di tali tipi di comportamento, prendiamo l’atto di tenersi la guancia. Supponi che, osservando, io abbia scoperto che in certi casi, | Quando abbiamo imparato il significato dell’espressione «il tal dei tali ha mal di denti», ci sono stati indicati certi tipi di comportamento di coloro che si diceva avessero mal di denti. Come esempio di tali tipi di comportamento, prendiamo l’atto di tenersi la guancia. Supponi che, osservando, io abbia scoperto che in certi casi, ogni volta che questi primi criteri mi dicevano che qualcuno aveva mal di denti, sulla sua guancia compariva una macchia rossa. Supponi che io dica ora a qualcuno: «Vedo che A ha mal di denti, ha una macchia rossa sulla guancia». Quello mi potrebbe chiedere: «Come fai a sapere che A ha mal di denti quando vedi una macchia rossa?». Io dovrei fargli presente che certi fenomeni hanno sempre coinciso con la comparsa della macchia rossa. | ||
A questo punto, allora, si potrebbe chiedere: «Come fai a sapere che ha {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,39}} mal di denti quando si tiene la guancia?». Qui la risposta potrebbe essere: «Dico che ''lui'' ha mal di denti quando si tiene la guancia perché io mi tengo la guancia quando ho mal di denti». E se però proseguissimo domandando: – «E come mai supponi che il mal di denti corrisponde al fatto che lui si tiene la guancia solo perché il tuo mal di denti corrisponde al fatto che tu ti tenga la guancia?». Non sapresti come rispondere a una simile domanda e si scopriresti che abbiamo toccato il fondo, ossia siamo scesi fino alle convenzioni. (Se per rispondere all’ultima domanda suggerisci che ogni volta che hai visto delle persone tenersi la guancia e hai chiesto loro «che cosa c’è?» loro ti hanno risposto «ho mal di denti», – ricorda che quest’esperienza coordina soltanto il gesto di tenerti la guancia con il fatto di dire certe parole.) | A questo punto, allora, si potrebbe chiedere: «Come fai a sapere che ha {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,39}} mal di denti quando si tiene la guancia?». Qui la risposta potrebbe essere: «Dico che ''lui'' ha mal di denti quando si tiene la guancia perché io mi tengo la guancia quando ho mal di denti». E se però proseguissimo domandando: – «E come mai supponi che il mal di denti corrisponde al fatto che lui si tiene la guancia solo perché il tuo mal di denti corrisponde al fatto che tu ti tenga la guancia?». Non sapresti come rispondere a una simile domanda e si scopriresti che abbiamo toccato il fondo, ossia siamo scesi fino alle convenzioni. (Se per rispondere all’ultima domanda suggerisci che ogni volta che hai visto delle persone tenersi la guancia e hai chiesto loro «che cosa c’è?» loro ti hanno risposto «ho mal di denti», – ricorda che quest’esperienza coordina soltanto il gesto di tenerti la guancia con il fatto di dire certe parole.) | ||
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Nella pratica, se ti chiedessero quale fenomeno è il criterio di definizione e quale è un sintomo, nella maggior parte dei casi tu non saresti in grado di rispondere a meno di non compiere una decisione arbitraria ''ad hoc''. Può essere pratico definire una parola prendendo un fenomeno come criterio di definizione, ma sarebbe facile persuaderci a definire una parola per mezzo di ciò che, secondo il nostro primo impiego, era un sintomo. I medici usano i nomi delle malattie senza mai decidere quali fenomeni vanno presi come criteri e quali come sintomi; e questa non è per forza una deplorevole carenza di chiarezza. Ricorda infatti che in generale non utilizziamo il linguaggio seguendo regole stringenti – né il linguaggio ci è stato insegnato per mezzo di regole stringenti. ''Noi'', d’altro canto, nelle nostre discussioni, confrontiamo costantemente il linguaggio con un calcolo che procede secondo regole esatte. | Nella pratica, se ti chiedessero quale fenomeno è il criterio di definizione e quale è un sintomo, nella maggior parte dei casi tu non saresti in grado di rispondere a meno di non compiere una decisione arbitraria ''ad hoc''. Può essere pratico definire una parola prendendo un fenomeno come criterio di definizione, ma sarebbe facile persuaderci a definire una parola per mezzo di ciò che, secondo il nostro primo impiego, era un sintomo. I medici usano i nomi delle malattie senza mai decidere quali fenomeni vanno presi come criteri e quali come sintomi; e questa non è per forza una deplorevole carenza di chiarezza. Ricorda infatti che in generale non utilizziamo il linguaggio seguendo regole stringenti – né il linguaggio ci è stato insegnato per mezzo di regole stringenti. ''Noi'', d’altro canto, nelle nostre discussioni, confrontiamo costantemente il linguaggio con un calcolo che procede secondo regole esatte. | ||
È questa una prospettiva molto unidirezionale sul linguaggio. Nella pratica è rarissimo che ci serviamo del linguaggio come di un tale calcolo. Non solo non pensiamo alle regole d’uso – alle definizioni, ecc. – mentre usiamo il linguaggio; quando ci si chiede di fornire tali regole, nella maggior parte dei casi non siamo in grado di farlo. Siamo incapaci di circoscrivere chiaramente i concetti che impieghiamo; non perché non conosciamo le loro vere definizioni, ma perché essi non hanno una vera «definizione». Supporre che ''debba'' esserci sarebbe come suppore che | È questa una prospettiva molto unidirezionale sul linguaggio. Nella pratica è rarissimo che ci serviamo del linguaggio come di un tale calcolo. Non solo non pensiamo alle regole d’uso – alle definizioni, ecc. – mentre usiamo il linguaggio; quando ci si chiede di fornire tali regole, nella maggior parte dei casi non siamo in grado di farlo. Siamo incapaci di circoscrivere chiaramente i concetti che impieghiamo; non perché non conosciamo le loro vere definizioni, ma perché essi non hanno una vera «definizione». Supporre che ''debba'' esserci sarebbe come suppore che ogni volta che i bambini giocano con un pallone giochino {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,41}} un gioco dotato di regole stringenti. | ||
Quando parliamo del linguaggio come di un simbolismo utilizzato in un calcolo esatto, ciò che abbiamo in mente può essere rinvenuto nella scienza e nella matematica. Il nostro uso ordinario del linguaggio si conforma a tale standard di esattezza solo in casi rari. Perché allora filosofando confrontiamo costantemente il nostro uso delle parole con un uso che segue regole esatte? La risposta è che gli enigmi che cerchiamo di rimuovere sorgono sempre proprio da questa attitudine verso il linguaggio. | Quando parliamo del linguaggio come di un simbolismo utilizzato in un calcolo esatto, ciò che abbiamo in mente può essere rinvenuto nella scienza e nella matematica. Il nostro uso ordinario del linguaggio si conforma a tale standard di esattezza solo in casi rari. Perché allora filosofando confrontiamo costantemente il nostro uso delle parole con un uso che segue regole esatte? La risposta è che gli enigmi che cerchiamo di rimuovere sorgono sempre proprio da questa attitudine verso il linguaggio. | ||
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Una risposta ovvia e giusta alla domanda «che cosa rende il ritratto il ritratto del tal dei tali?» è che è l’''intenzione''. Ma se desideriamo sapere che cosa significa «avere l’intenzione che questo sia un ritratto del tal dei tali», vediamo che cosa succede effettivamente quando abbiamo quest’intenzione. Ricorda l’occasione in cui abbiamo parlato di cosa accade quando ci aspettiamo l’arrivo di qualcuno tra le quattro e le quattro e mezza. Avere l’intenzione che un quadro sia un ritratto del tal dei tali (da parte del pittore, per esempio) non è né un particolare stato della mente né un particolare processo mentale. Ci sono però moltissime combinazioni di azioni e stati mentali che dovremmo chiamare «avere l’intenzione che…». Potrebbe trattarsi del fatto che gli hanno detto di dipingere un ritratto di N e lui si è seduto davanti a N e ha svolto certe azioni che chiamiamo «copiare la faccia di N». A ciò si potrebbe obiettare dicendo che l’essenza del copiare è l’intenzione di copiare. Ribatterei che ci sono moltissimi processi diversi che chiamiamo «copiare qualcosa». Facciamo un esempio. Disegno un’ellisse su un foglio e ti chiedo di copiarla. Che cosa caratterizza il processo di copiare? Perché è chiaro che non è il {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,53}} fatto che tu disegni un’ellisse simile. Avresti potuto cercare di copiarla e non riuscirci; oppure avresti potuto disegnare un’ellisse con un’intenzione completamente diversa e avrebbe potuto essere un caso che sia venuta fuori come quella che avresti dovuto copiare. Quindi che cosa fai quando cerchi di copiare un’ellisse? Be’, la guardi, disegni qualcosa su un pezzo di carta, magari misuri ciò che hai disegnato, magari imprechi se scopri che non concorda con il modello o magari dici «adesso copio quest’ellisse» e semplicemente disegni un’ellisse come questa. C’è una varietà infinita di azioni e di parole, che intrattengono una familiarità reciproca, che noi chiamiamo «cercare di copiare». | Una risposta ovvia e giusta alla domanda «che cosa rende il ritratto il ritratto del tal dei tali?» è che è l’''intenzione''. Ma se desideriamo sapere che cosa significa «avere l’intenzione che questo sia un ritratto del tal dei tali», vediamo che cosa succede effettivamente quando abbiamo quest’intenzione. Ricorda l’occasione in cui abbiamo parlato di cosa accade quando ci aspettiamo l’arrivo di qualcuno tra le quattro e le quattro e mezza. Avere l’intenzione che un quadro sia un ritratto del tal dei tali (da parte del pittore, per esempio) non è né un particolare stato della mente né un particolare processo mentale. Ci sono però moltissime combinazioni di azioni e stati mentali che dovremmo chiamare «avere l’intenzione che…». Potrebbe trattarsi del fatto che gli hanno detto di dipingere un ritratto di N e lui si è seduto davanti a N e ha svolto certe azioni che chiamiamo «copiare la faccia di N». A ciò si potrebbe obiettare dicendo che l’essenza del copiare è l’intenzione di copiare. Ribatterei che ci sono moltissimi processi diversi che chiamiamo «copiare qualcosa». Facciamo un esempio. Disegno un’ellisse su un foglio e ti chiedo di copiarla. Che cosa caratterizza il processo di copiare? Perché è chiaro che non è il {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,53}} fatto che tu disegni un’ellisse simile. Avresti potuto cercare di copiarla e non riuscirci; oppure avresti potuto disegnare un’ellisse con un’intenzione completamente diversa e avrebbe potuto essere un caso che sia venuta fuori come quella che avresti dovuto copiare. Quindi che cosa fai quando cerchi di copiare un’ellisse? Be’, la guardi, disegni qualcosa su un pezzo di carta, magari misuri ciò che hai disegnato, magari imprechi se scopri che non concorda con il modello o magari dici «adesso copio quest’ellisse» e semplicemente disegni un’ellisse come questa. C’è una varietà infinita di azioni e di parole, che intrattengono una familiarità reciproca, che noi chiamiamo «cercare di copiare». | ||
Supponi che dicessimo: «Il fatto che un’immagine sia il ritratto di un particolare oggetto consiste nel suo essere derivata dall’oggetto in questione in un modo particolare». È facile descrivere ciò che chiameremmo «processi di derivare un’immagine da un oggetto» (grossomodo, processi di proiezione). Ma riscontriamo una strana difficoltà nell’ammettere che qualcuno di questi processi è ciò che chiamiamo «rappresentazione intenzionale». Perché per qualunque processo (attività) noi possiamo descrivere, c’è un modo di reinterpretare tale proiezione. Dunque – si è tentati di dire – un simile processo non può mai essere l’intenzione stessa. Perché potremmo sempre aver inteso il contrario reinterpretando il processo di proiezione. Immagina questo caso: diamo a qualcuno l’ordine di camminare in una certa direzione additando o disegnando una freccia che indica quella direzione. Supponi che disegnare frecce sia il linguaggio in cui generalmente {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,54}} diamo un tale ordine. Un tale ordine non potrebbe venir interpretato come se significasse che chi lo riceve deve camminare nella direzione opposta a quella della freccia? Ciò ovviamente potrebbe venire fatto aggiungendo alla freccia dei simboli che potremmo chiamare «''un’interpretazione''». È facile immaginare un caso in cui, poniamo, per ingannare qualcuno, potremmo accordarci affinché un ordine vada eseguito nel senso opposto rispetto a quello normale. Il simbolo che aggiunge l’interpretazione alla nostra freccia originale potrebbe, per esempio, essere un’altra feccia. | Supponi che dicessimo: «Il fatto che un’immagine sia il ritratto di un particolare oggetto consiste nel suo essere derivata dall’oggetto in questione in un modo particolare». È facile descrivere ciò che chiameremmo «processi di derivare un’immagine da un oggetto» (grossomodo, processi di proiezione). Ma riscontriamo una strana difficoltà nell’ammettere che qualcuno di questi processi è ciò che chiamiamo «rappresentazione intenzionale». Perché per qualunque processo (attività) noi possiamo descrivere, c’è un modo di reinterpretare tale proiezione. Dunque – si è tentati di dire – un simile processo non può mai essere l’intenzione stessa. Perché potremmo sempre aver inteso il contrario reinterpretando il processo di proiezione. Immagina questo caso: diamo a qualcuno l’ordine di camminare in una certa direzione additando o disegnando una freccia che indica quella direzione. Supponi che disegnare frecce sia il linguaggio in cui generalmente {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,54}} diamo un tale ordine. Un tale ordine non potrebbe venir interpretato come se significasse che chi lo riceve deve camminare nella direzione opposta a quella della freccia? Ciò ovviamente potrebbe venire fatto aggiungendo alla freccia dei simboli che potremmo chiamare «''un’interpretazione''». È facile immaginare un caso in cui, poniamo, per ingannare qualcuno, potremmo accordarci affinché un ordine vada eseguito nel senso opposto rispetto a quello normale. Il simbolo che aggiunge l’interpretazione alla nostra freccia originale potrebbe, per esempio, essere un’altra feccia. Ogni volta che interpretiamo un simbolo in un modo o in un altro, l’interpretazione è un nuovo simbolo aggiunto al primo. | ||
Ora potremmo dire che | Ora potremmo dire che, quando diamo a qualcuno un ordine mostrandogli una freccia, e non lo facciamo «automaticamente», ''intendiamo'' sempre la freccia in un modo o nell’altro. E questo processo di intendere, di qualunque tipo sia, può essere rappresentato da un’altra freccia (che indica nella stessa direzione della prima o in quella opposta). In questa raffigurazione che ci siamo fatti di «intendere e dire» è essenziale che immaginiamo i processi di dire e di intendere come se avessero luogo in due sfere diverse. | ||
È allora corretto dire che nessuna freccia potrebbe essere il significato, poiché ogni freccia potrebbe essere intesa in senso opposto? – Supponi che scriviamo lo schema di dire e di intendere con una colonna di frecce una sotto l’altra. | È allora corretto dire che nessuna freccia potrebbe essere il significato, poiché ogni freccia potrebbe essere intesa in senso opposto? – Supponi che scriviamo lo schema di dire e di intendere con una colonna di frecce una sotto l’altra. | ||
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Non c’è dubbio che, vedendo l’immagine di un filo di perline che viene tirato fuori da una scatola attraverso un foro nel coperchio, io direi: «Queste perline prima dovevano tutte essere nella scatola». Ma è facile capire che questo è fare {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,65}} un’ipotesi. Avrei visto la stessa immagine se le perline avessero gradualmente cominciato a esistere nel foro del coperchio. Trascuriamo facilmente la distinzione tra affermare un evento mentale conscio e fare un’ipotesi su ciò che si potrebbe chiamare il meccanismo della mente. A maggior ragione perché tali ipotesi o raffigurazioni del funzionamento della nostra mente sono incorporate in molte forme d’espressione del nostro linguaggio ordinario. Il tempo passato «intendevo» nella frase «intendevo colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz» è soltanto una parte di una tale raffigurazione, essendo la mente concepita come un luogo in cui ciò che ricordiamo è custodito, immagazzinato, prima che noi lo esprimiamo. Se fischietto una melodia che conosco bene e vengo interrotto a metà, e se poi qualcuno mi chiede «sapevi come continuare?», io dovrei rispondere «sì, lo sapevo». Che genere di processo è questo ''sapere come continuare''? Parrebbe che, mentre sapevo come continuare, l’intero prosieguo della melodia dovesse essere presente. | Non c’è dubbio che, vedendo l’immagine di un filo di perline che viene tirato fuori da una scatola attraverso un foro nel coperchio, io direi: «Queste perline prima dovevano tutte essere nella scatola». Ma è facile capire che questo è fare {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,65}} un’ipotesi. Avrei visto la stessa immagine se le perline avessero gradualmente cominciato a esistere nel foro del coperchio. Trascuriamo facilmente la distinzione tra affermare un evento mentale conscio e fare un’ipotesi su ciò che si potrebbe chiamare il meccanismo della mente. A maggior ragione perché tali ipotesi o raffigurazioni del funzionamento della nostra mente sono incorporate in molte forme d’espressione del nostro linguaggio ordinario. Il tempo passato «intendevo» nella frase «intendevo colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz» è soltanto una parte di una tale raffigurazione, essendo la mente concepita come un luogo in cui ciò che ricordiamo è custodito, immagazzinato, prima che noi lo esprimiamo. Se fischietto una melodia che conosco bene e vengo interrotto a metà, e se poi qualcuno mi chiede «sapevi come continuare?», io dovrei rispondere «sì, lo sapevo». Che genere di processo è questo ''sapere come continuare''? Parrebbe che, mentre sapevo come continuare, l’intero prosieguo della melodia dovesse essere presente. | ||
Poniti una domanda come: «Quanto ci si mette a sapere come proseguire?». Oppure si tratta di un processo istantaneo? Non stiamo commettendo un errore simile al confondere l’esistenza del disco registrato di una melodia con l’esistenza della melodia? Non stiamo presupponendo che, | Poniti una domanda come: «Quanto ci si mette a sapere come proseguire?». Oppure si tratta di un processo istantaneo? Non stiamo commettendo un errore simile al confondere l’esistenza del disco registrato di una melodia con l’esistenza della melodia? Non stiamo presupponendo che, quando una melodia viene a esistere, debba sempre esserci una specie di disco registrato da cui essa è suonata? | ||
Considera l’esempio seguente: in mia presenza si fa sparare una pistola e io dico: «Questo boato non è stato forte come me {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,66}} l’aspettavo». Qualcuno mi chiede: «Come è possibile? C’è stato un boato, più forte di quello della pistola, nella tua immaginazione?». Devo confessare che non c’è stato nulla di simile. Lui allora mi dice: «Quindi non ti aspettavi davvero un boato più forte, – bensì forse la sua ombra. – E come facevi a sapere che era l’ombra di un boato più forte?». – Vediamo che cosa, in un tale caso, potrebbe essere realmente accaduto. Magari attendendo lo scoppio ho aperto la bocca, ho afferrato qualcosa per sorreggermi e magari ho detto: «Sarà tremendo». Poi, quando la detonazione è cessata: «Dopo tutto, non è stato così forte». – Certe tensioni nel mio corpo si allentano. Ma qual è la connessione tra queste tensioni, il fatto di aprire la bocca, ecc., e un vero boato più forte? Magari questa connessione è stata istituita dal fatto di aver sentito un tale boato e di aver avuto l’esperienza citata. | Considera l’esempio seguente: in mia presenza si fa sparare una pistola e io dico: «Questo boato non è stato forte come me {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,66}} l’aspettavo». Qualcuno mi chiede: «Come è possibile? C’è stato un boato, più forte di quello della pistola, nella tua immaginazione?». Devo confessare che non c’è stato nulla di simile. Lui allora mi dice: «Quindi non ti aspettavi davvero un boato più forte, – bensì forse la sua ombra. – E come facevi a sapere che era l’ombra di un boato più forte?». – Vediamo che cosa, in un tale caso, potrebbe essere realmente accaduto. Magari attendendo lo scoppio ho aperto la bocca, ho afferrato qualcosa per sorreggermi e magari ho detto: «Sarà tremendo». Poi, quando la detonazione è cessata: «Dopo tutto, non è stato così forte». – Certe tensioni nel mio corpo si allentano. Ma qual è la connessione tra queste tensioni, il fatto di aprire la bocca, ecc., e un vero boato più forte? Magari questa connessione è stata istituita dal fatto di aver sentito un tale boato e di aver avuto l’esperienza citata. | ||
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Ora chiediamoci a che genere di identità di personalità ci stiamo riferendo quando diciamo: «Quando una cosa viene vista, sono sempre io che vedo». Che cos’è che voglio che abbiano in comune tutte queste istanze del vedere? Come risposta, devo confessare a me stesso che non si tratta del mio aspetto corporeo. Quando vedo, non vedo sempre parte del mio corpo. E non è essenziale che il mio corpo, se visto tra le cose che vedo, debba sempre avere lo stesso aspetto. In effetti, non mi interessa quanto esso cambia. E i miei sentimenti sono gli stessi nei confronti delle proprietà del mio corpo, delle caratteristiche del mio comportamento e persino dei miei ricordi. – Pensandoci un po’ più a lungo mi accorgo che ciò che desideravo dire era: «Sempre, quando una cosa viene vista, qualcosa viene visto». Ossia, ciò di cui ho detto che continuava durante tutte le esperienze del vedere non era alcuna particolare entità «io», ma l’esperienza stessa del vedere. Ciò può divenire più chiaro se immaginiamo che l’uomo che fa la nostra affermazione solipsistica mentre dice «io» indichi i propri occhi. (Magari perché desidera essere esatto e vuole dire espressamente quali occhi appartengono alla bocca che dice «io» e {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,106}} alle mani che indicano il suo corpo.) Ma che cos’è che sta indicando? Questi particolari occhi con l’identità di oggetti fisici? (Per comprendere tale frase devi ricordare che la grammatica delle parole di cui diciamo che stanno per oggetti fisici è caratterizzata dal modo in cui utilizziamo la locuzione «lo ''stesso'' così e così», o «l’identico così e così» dove così e così designa l’oggetto fisico.) Abbiamo detto prima che non desideravamo affatto indicare un particolare oggetto fisico. L’idea che costui avesse fatto un’affermazione dotata di significato è sorta da una confusione corrispondente alla confusione tra ciò che chiameremo «l’occhio geometrico» e «l’occhio fisico». Indicherò l’uso di questi termini: se un uomo cerca di eseguire l’ordine «indica il tuo occhio», può fare molte cose diverse e ci sono molti criteri diversi per il fatto di aver indicato il proprio occhio che considererà accettabili. Se questi criteri, come accade di solito, coincidono, posso usarli alternativamente e in diverse combinazioni per mostrare a me stesso che mi sono toccato l’occhio. Se non coincidono, dovrò distinguere tra sensi diversi della locuzione «mi tocco l’occhio» o «muovo il dito verso il mio occhio». Se ho gli occhi chiusi, per esempio, posso comunque avere nel braccio la caratteristica esperienza cinestetica che chiamerei l’esperienza cinestetica di sollevare la mano verso l’occhio. Il fatto di esserci riuscito lo riconoscerò in base alla caratteristica sensazione tattile di toccarmi l’occhio. Ma se il mio occhio fosse dietro una lastra di vetro assicurata in modo tale da impedirmi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,107}} di esercitare una pressione sull’occhio con il dito, ci sarebbe comunque un criterio di sensazione muscolare che mi farebbe dire che il dito è davanti all’occhio. Per quanto riguarda i criteri visivi, posso adottarne due. C’è l’esperienza ordinaria di vedere la mano alzarsi e avvicinarsi all’occhio, e questa esperienza naturalmente è diversa dal vedere due cose che si incontrano, per esempio due polpastrelli. D’altra parte, posso utilizzare come criterio per il fatto che il mio dito si muove verso l’occhio ciò che vedo quando guardo in uno specchio e vedo il dito accostarsi all’occhio. Se il punto del mio corpo che, come diciamo, «vede» va determinato muovendo il dito verso l’occhio, in accordo con il secondo criterio, allora è concepibile che io possa vedere con ciò che in base ad altri criteri è la punta del naso o qualche zona della fronte; oppure potrei indicare in questo modo un luogo posto fuori dal mio corpo. Se desidero che una persona indichi il proprio occhio (o i propri occhi) in base soltanto al secondo criterio, esprimerò il mio desiderio dicendo: «Indica il tuo occhio geometrico (o i tuoi occhi geometrici)». La grammatica della parola «occhio geometrico» sta con la grammatica della parola «occhio fisico» nella stessa relazione in cui la grammatica dell’espressione «il dato sensoriale visivo di un albero» sta alla grammatica dell’espressione «l’albero fisico». In entrambi i casi dire «l’uno è un ''tipo diverso'' di oggetto rispetto all’altro» confonde tutto; poiché chi dice che un dato sensoriale è un tipo di oggetto diverso da un oggetto fisico fraintende la grammatica della parola «tipo», proprio come chi dice che un numero è un tipo di {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,108}} oggetto diverso da un numerale. Chi dice così pensa di fare un’affermazione quale «un convoglio ferroviario, una stazione ferroviaria e un vagone ferroviario sono tipi diversi di oggetti», mentre la loro affermazione è analoga a «un convoglio ferroviario, un incidente ferroviario e una legge ferroviaria sono tipi diversi di oggetti». | Ora chiediamoci a che genere di identità di personalità ci stiamo riferendo quando diciamo: «Quando una cosa viene vista, sono sempre io che vedo». Che cos’è che voglio che abbiano in comune tutte queste istanze del vedere? Come risposta, devo confessare a me stesso che non si tratta del mio aspetto corporeo. Quando vedo, non vedo sempre parte del mio corpo. E non è essenziale che il mio corpo, se visto tra le cose che vedo, debba sempre avere lo stesso aspetto. In effetti, non mi interessa quanto esso cambia. E i miei sentimenti sono gli stessi nei confronti delle proprietà del mio corpo, delle caratteristiche del mio comportamento e persino dei miei ricordi. – Pensandoci un po’ più a lungo mi accorgo che ciò che desideravo dire era: «Sempre, quando una cosa viene vista, qualcosa viene visto». Ossia, ciò di cui ho detto che continuava durante tutte le esperienze del vedere non era alcuna particolare entità «io», ma l’esperienza stessa del vedere. Ciò può divenire più chiaro se immaginiamo che l’uomo che fa la nostra affermazione solipsistica mentre dice «io» indichi i propri occhi. (Magari perché desidera essere esatto e vuole dire espressamente quali occhi appartengono alla bocca che dice «io» e {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,106}} alle mani che indicano il suo corpo.) Ma che cos’è che sta indicando? Questi particolari occhi con l’identità di oggetti fisici? (Per comprendere tale frase devi ricordare che la grammatica delle parole di cui diciamo che stanno per oggetti fisici è caratterizzata dal modo in cui utilizziamo la locuzione «lo ''stesso'' così e così», o «l’identico così e così» dove così e così designa l’oggetto fisico.) Abbiamo detto prima che non desideravamo affatto indicare un particolare oggetto fisico. L’idea che costui avesse fatto un’affermazione dotata di significato è sorta da una confusione corrispondente alla confusione tra ciò che chiameremo «l’occhio geometrico» e «l’occhio fisico». Indicherò l’uso di questi termini: se un uomo cerca di eseguire l’ordine «indica il tuo occhio», può fare molte cose diverse e ci sono molti criteri diversi per il fatto di aver indicato il proprio occhio che considererà accettabili. Se questi criteri, come accade di solito, coincidono, posso usarli alternativamente e in diverse combinazioni per mostrare a me stesso che mi sono toccato l’occhio. Se non coincidono, dovrò distinguere tra sensi diversi della locuzione «mi tocco l’occhio» o «muovo il dito verso il mio occhio». Se ho gli occhi chiusi, per esempio, posso comunque avere nel braccio la caratteristica esperienza cinestetica che chiamerei l’esperienza cinestetica di sollevare la mano verso l’occhio. Il fatto di esserci riuscito lo riconoscerò in base alla caratteristica sensazione tattile di toccarmi l’occhio. Ma se il mio occhio fosse dietro una lastra di vetro assicurata in modo tale da impedirmi {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,107}} di esercitare una pressione sull’occhio con il dito, ci sarebbe comunque un criterio di sensazione muscolare che mi farebbe dire che il dito è davanti all’occhio. Per quanto riguarda i criteri visivi, posso adottarne due. C’è l’esperienza ordinaria di vedere la mano alzarsi e avvicinarsi all’occhio, e questa esperienza naturalmente è diversa dal vedere due cose che si incontrano, per esempio due polpastrelli. D’altra parte, posso utilizzare come criterio per il fatto che il mio dito si muove verso l’occhio ciò che vedo quando guardo in uno specchio e vedo il dito accostarsi all’occhio. Se il punto del mio corpo che, come diciamo, «vede» va determinato muovendo il dito verso l’occhio, in accordo con il secondo criterio, allora è concepibile che io possa vedere con ciò che in base ad altri criteri è la punta del naso o qualche zona della fronte; oppure potrei indicare in questo modo un luogo posto fuori dal mio corpo. Se desidero che una persona indichi il proprio occhio (o i propri occhi) in base soltanto al secondo criterio, esprimerò il mio desiderio dicendo: «Indica il tuo occhio geometrico (o i tuoi occhi geometrici)». La grammatica della parola «occhio geometrico» sta con la grammatica della parola «occhio fisico» nella stessa relazione in cui la grammatica dell’espressione «il dato sensoriale visivo di un albero» sta alla grammatica dell’espressione «l’albero fisico». In entrambi i casi dire «l’uno è un ''tipo diverso'' di oggetto rispetto all’altro» confonde tutto; poiché chi dice che un dato sensoriale è un tipo di oggetto diverso da un oggetto fisico fraintende la grammatica della parola «tipo», proprio come chi dice che un numero è un tipo di {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,108}} oggetto diverso da un numerale. Chi dice così pensa di fare un’affermazione quale «un convoglio ferroviario, una stazione ferroviaria e un vagone ferroviario sono tipi diversi di oggetti», mentre la loro affermazione è analoga a «un convoglio ferroviario, un incidente ferroviario e una legge ferroviaria sono tipi diversi di oggetti». | ||
A ciò che generava in me la tentazione di dire «sono sempre io che vedo quando qualcosa viene visto» avrei potuto cedere anche dicendo | A ciò che generava in me la tentazione di dire «sono sempre io che vedo quando qualcosa viene visto» avrei potuto cedere anche dicendo «ogni volta che qualcosa viene visto, è ''questo'' che viene visto», accompagnando la parola «questo» con un gesto che abbraccia il mio campo visivo (ma non intendendo con «questo» i particolari oggetti che si dava il caso io vedessi in quel momento). Si potrebbe dire «sto indicando il campo visivo in quanto tale, non qualcosa al suo interno». E questo serve soltanto a rendere evidente l’insensatezza dell’espressione precedente. | ||
Sbarazziamoci allora del «sempre» nella nostra espressione. In tal caso posso comunque esprimere il mio solipsismo dicendo «solo ciò che ''io'' vedo (oppure: vedo ora) viene visto davvero». E qui sono tentato di dire: «Anche se con la parola “io” non intendo L.W., andrà bene lo stesso se gli altri intendono “io” come L.W. dal momento che proprio adesso io in effetti sono L.W.». Potrei anche esprimere la mia tesi dicendo: «Sono io il contenitore della vita»; ma sta’ attento, è essenziale che tutti coloro a cui lo dico siano incapaci di comprendermi. È essenziale che l’altro non sia in grado di comprendere «ciò che ''io'' davvero ''intendo''», anche se nella pratica potrebbe fare ciò che desidero concedendomi una posizione eccezionale nella sua notazione. Ma io vorrei che fosse ''logicamente'' impossibile che lui mi capisse; cioè affermare che lui mi comprende dovrebbe essere ''privo di significato'', {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,109}} non falso. Quindi la mia espressione è una tra le molte espressioni che vengono usate in varie occasioni dai filosofi e che dovrebbero comunicare qualcosa alla persona che le dice, pur essendo essenzialmente incapace di comunicare alcunché a chiunque altro. Ora, se comunicare un significato significa essere accompagnati da o produrre certe esperienze, la nostra espressione può avere tutto uno stuolo di significati, su cui io non sono in grado di dire nulla. Siamo però, di fatto, portati a pensare che la nostra espressione abbia un significato nel senso in cui ce l’ha un’espressione non metafisica; poiché paragoniamo erroneamente il nostro caso a un caso in cui l’altra persona non può comprendere ciò che diciamo perché ignora una certa informazione. (Questa osservazione può diventare chiara soltanto se comprendiamo la connessione tra grammatica e senso e nonsenso). | Sbarazziamoci allora del «sempre» nella nostra espressione. In tal caso posso comunque esprimere il mio solipsismo dicendo «solo ciò che ''io'' vedo (oppure: vedo ora) viene visto davvero». E qui sono tentato di dire: «Anche se con la parola “io” non intendo L.W., andrà bene lo stesso se gli altri intendono “io” come L.W. dal momento che proprio adesso io in effetti sono L.W.». Potrei anche esprimere la mia tesi dicendo: «Sono io il contenitore della vita»; ma sta’ attento, è essenziale che tutti coloro a cui lo dico siano incapaci di comprendermi. È essenziale che l’altro non sia in grado di comprendere «ciò che ''io'' davvero ''intendo''», anche se nella pratica potrebbe fare ciò che desidero concedendomi una posizione eccezionale nella sua notazione. Ma io vorrei che fosse ''logicamente'' impossibile che lui mi capisse; cioè affermare che lui mi comprende dovrebbe essere ''privo di significato'', {{Blue Book Ts reference it|Ts-309,109}} non falso. Quindi la mia espressione è una tra le molte espressioni che vengono usate in varie occasioni dai filosofi e che dovrebbero comunicare qualcosa alla persona che le dice, pur essendo essenzialmente incapace di comunicare alcunché a chiunque altro. Ora, se comunicare un significato significa essere accompagnati da o produrre certe esperienze, la nostra espressione può avere tutto uno stuolo di significati, su cui io non sono in grado di dire nulla. Siamo però, di fatto, portati a pensare che la nostra espressione abbia un significato nel senso in cui ce l’ha un’espressione non metafisica; poiché paragoniamo erroneamente il nostro caso a un caso in cui l’altra persona non può comprendere ciò che diciamo perché ignora una certa informazione. (Questa osservazione può diventare chiara soltanto se comprendiamo la connessione tra grammatica e senso e nonsenso). |