Libro marrone: Difference between revisions

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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.


(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “Passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “Passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “Passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “Porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.)
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “Passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “Passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “Passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “Porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?”? Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?”. Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.)




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=4}} Nel ricevere l’ordine “Questa lastra!”, B porta la piastra indicata da A. Nel ricevere l’ordine “Piastra, là!”, porta una piastra nel luogo indicato. La parola “là” viene insegnata deitticamente? Sì e no! Durante l’addestramento di una persona all’uso della parola “là”, il maestro gli farà il gesto dell’indicare e pronuncerà la parola “là”. Dobbiamo dire però che così facendo attribuisce a un luogo il nome “là?Ricorda che in questo caso il gesto d’indicare rientra della pratica stessa della comunicazione.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=4}} Nel ricevere l’ordine “Questa lastra!”, B porta la piastra indicata da A. Nel ricevere l’ordine “Piastra, là!”, porta una piastra nel luogo indicato. La parola “là” viene insegnata deitticamente? Sì e no! Durante l’addestramento di una persona all’uso della parola “là”, il maestro gli farà il gesto dell’indicare e pronuncerà la parola “là”. Dobbiamo dire però che così facendo attribuisce a un luogo il nome “là”? Ricorda che in questo caso il gesto d’indicare rientra della pratica stessa della comunicazione.


(Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là”, “qui”, “adesso”, “questo” siano “''i veri nomi propri''”, in contrapposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista a cui mi riferisco possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come una rozza approssimazione di quel che idealmente si potrebbe chiamare così. Pensiamo all’idea degli “individui” in Russell. Ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individui. L’idea è che a rivelarlo dev’essere un’analisi ulteriore. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di un nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti”, “cose” (“pietre da costruzione”).
(Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là”, “qui”, “adesso”, “questo” siano “''i veri nomi propri''”, in contrapposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista a cui mi riferisco possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come una rozza approssimazione di quel che idealmente si potrebbe chiamare così. Pensiamo all’idea degli “individui” in Russell. Ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individui. L’idea è che a rivelarlo dev’essere un’analisi ulteriore. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di un nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti”, “cose” (“pietre da costruzione”).
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=10}} L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!” Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=10}} L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!”. Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.


Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni, ed è curioso paragonare quello che vediamo nei nostri esempi con le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due”, “tre”, ecc., come mostriamo qui sotto:
Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni, ed è curioso paragonare quello che vediamo nei nostri esempi con le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due”, “tre”, ecc., come mostriamo qui sotto:
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“Certamente però nel caso 14''c'') B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Non aveva ragioni per sceglierla. Se ha scelto quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non abbiamo negato che nel caso 14''c'') B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui ha scelto o quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari e tattili e simili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Cioè: che aspetto ''immaginiamo'' che avrebbe?) Penso che dovremmo dire che il contrario del confronto automatico, cioè per così dire il caso ideale del confronto consapevole, era quello in cui si aveva di fronte all’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida o quello in cui si vedeva un campione reale e si aveva la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Penso che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. Questa sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze della vista del campione, da una parte, e il materiale, dall’altra. Ma allora che cosa connette quest’esperienza specifica a ciascuna di quelle due cose? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non intendiamo dire che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari; per esempio se in una data circostanza ci chiedono “Questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi possiamo essere giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a dare come spiegazione che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''nel caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però potremmo distinguere i modi in cui appare un’immagine mnemonica tra un modo automatico e un modo non-automatico, ecc.
“Certamente però nel caso 14''c'') B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Non aveva ragioni per sceglierla. Se ha scelto quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non abbiamo negato che nel caso 14''c'') B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui ha scelto o quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari e tattili e simili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Cioè: che aspetto ''immaginiamo'' che avrebbe?) Penso che dovremmo dire che il contrario del confronto automatico, cioè per così dire il caso ideale del confronto consapevole, era quello in cui si aveva di fronte all’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida o quello in cui si vedeva un campione reale e si aveva la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Penso che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. Questa sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze della vista del campione, da una parte, e il materiale, dall’altra. Ma allora che cosa connette quest’esperienza specifica a ciascuna di quelle due cose? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non intendiamo dire che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari; per esempio se in una data circostanza ci chiedono “Questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi possiamo essere giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a dare come spiegazione che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''nel caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però potremmo distinguere i modi in cui appare un’immagine mnemonica tra un modo automatico e un modo non-automatico, ecc.


Se il nostro caso 14''c'') ti turba, magari sarai portato a dire: “Ma ''perché'' ha portato proprio questa striscia di materiale? Come l’ha riconosciuta in quanto quella giusta? In base a che cosa?” – Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta nelle condizioni date. È compito delle scienze sperimentali vagliare ipotesi simili. Se invece ti interessa la ragione, la risposta è “Non ci deve essere stata per forza una ragione della scelta. Una ragione è un passo che precede il passo della scelta. Ma perché ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”
Se il nostro caso 14''c'') ti turba, magari sarai portato a dire: “Ma ''perché'' ha portato proprio questa striscia di materiale? Come l’ha riconosciuta in quanto quella giusta? In base a che cosa?”. – Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta nelle condizioni date. È compito delle scienze sperimentali vagliare ipotesi simili. Se invece ti interessa la ragione, la risposta è “Non ci deve essere stata per forza una ragione della scelta. Una ragione è un passo che precede il passo della scelta. Ma perché ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”


“Ma allora B non ha davvero ''riconosciuto'' il materiale come quello giusto”. – Non devi per forza annoverare 14''c'') nei casi di riconoscimento, ma se sei divenuto cosciente di come i processi che chiamiamo processi di riconoscimento formano una grande famiglia con somiglianze che si accavallano, probabilmente non sarai restio a includere in questa famiglia anche 14''c''). – “In questo caso non manca però a B il criterio in base a cui riconoscere il materiale? In 14''a''), per esempio, aveva l’immagine mnemonica e ha riconosciuto il materiale che stava guardando proprio in base alla sua concordanza con tale immagine”. – Ma davanti a sé aveva un’immagine anche di tale concordanza, un’immagine con cui poter confrontare la congruenza tra lo schema e la striscia per vedere se era quella giusta? E d’altra parte tale immagine non avrebbe potuto essergli data? Supponi, per esempio, che A volesse far ricordare a B che ciò che era richiesto era una striscia esattamente identica al campione e non, come forse in altre circostanze, un materiale leggermente più scuro dello schema. In tal caso A non avrebbe potuto dare a B un esempio della concordanza richiesta dandogli due pezze dello stesso colore (come una specie di promemoria)? Un qualsiasi legame come questo tra l’ordine e la sua esecuzione è necessariamente l’ultimo? – E se dici che in 14''b'') almeno B aveva l’allentarsi della tensione in base al quale riconoscere il materiale giusto, doveva B avere con sé un’immagine di questo rilassamento per poterlo riconoscere come ciò in base a cui bisognava riconoscere il materiale giusto? – –
“Ma allora B non ha davvero ''riconosciuto'' il materiale come quello giusto”. – Non devi per forza annoverare 14''c'') nei casi di riconoscimento, ma se sei divenuto cosciente di come i processi che chiamiamo processi di riconoscimento formano una grande famiglia con somiglianze che si accavallano, probabilmente non sarai restio a includere in questa famiglia anche 14''c''). – “In questo caso non manca però a B il criterio in base a cui riconoscere il materiale? In 14''a''), per esempio, aveva l’immagine mnemonica e ha riconosciuto il materiale che stava guardando proprio in base alla sua concordanza con tale immagine”. – Ma davanti a sé aveva un’immagine anche di tale concordanza, un’immagine con cui poter confrontare la congruenza tra lo schema e la striscia per vedere se era quella giusta? E d’altra parte tale immagine non avrebbe potuto essergli data? Supponi, per esempio, che A volesse far ricordare a B che ciò che era richiesto era una striscia esattamente identica al campione e non, come forse in altre circostanze, un materiale leggermente più scuro dello schema. In tal caso A non avrebbe potuto dare a B un esempio della concordanza richiesta dandogli due pezze dello stesso colore (come una specie di promemoria)? Un qualsiasi legame come questo tra l’ordine e la sua esecuzione è necessariamente l’ultimo? – E se dici che in 14''b'') almeno B aveva l’allentarsi della tensione in base al quale riconoscere il materiale giusto, doveva B avere con sé un’immagine di questo rilassamento per poterlo riconoscere come ciò in base a cui bisognava riconoscere il materiale giusto? – –
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La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo; per esempio, il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli bianchi e matite.
La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo; per esempio, il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli bianchi e matite.


Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?” Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ''ad inf''.”. Quindi la differenza tra le due mani ''a'') e ''b'') risiede negli strumenti che usiamo, anche se, per nostra stessa ammissione, non nelle carte con cui vengono giocate. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente ciò che accade mentre si gioca una mano dopo l’altra, ti accorgi di riuscire a trovare qualche differenza solo in una serie di dettagli ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono e si giocano le carte nei due casi ''possono'' essere identici. Durante lo svolgimento della mano ''a''), i giocatori possono aver considerato di creare nuove carte e poi averci rinunciato. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo quale il dire a se stessi, o anche ad alta voce, “Chissà se mi conviene farmi un’altra carta”. Magari però un simile pensiero non è passato per la mente di nessuno dei giocatori. È possibile che tutta la differenza tra una mano del gioco limitato e una mano del gioco illimitato consista in ciò che si è detto prima di iniziare a giocare, per esempio “Facciamo una partita al gioco limitato”.
Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?”. Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ''ad inf''.”. Quindi la differenza tra le due mani ''a'') e ''b'') risiede negli strumenti che usiamo, anche se, per nostra stessa ammissione, non nelle carte con cui vengono giocate. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente ciò che accade mentre si gioca una mano dopo l’altra, ti accorgi di riuscire a trovare qualche differenza solo in una serie di dettagli ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono e si giocano le carte nei due casi ''possono'' essere identici. Durante lo svolgimento della mano ''a''), i giocatori possono aver considerato di creare nuove carte e poi averci rinunciato. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo quale il dire a se stessi, o anche ad alta voce, “Chissà se mi conviene farmi un’altra carta”. Magari però un simile pensiero non è passato per la mente di nessuno dei giocatori. È possibile che tutta la differenza tra una mano del gioco limitato e una mano del gioco illimitato consista in ciò che si è detto prima di iniziare a giocare, per esempio “Facciamo una partita al gioco limitato”.


“Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci.
“Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “Lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi se gli si mostra la lettera ''a''?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Il fatto che in 38) e in 39) l’addestramento ''precedeva'' l’esecuzione dell’ordine non cambia infatti il processo della sua esecuzione. In altre parole “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Ma ''potrebbe'' un tale meccanismo essere innato?” Hai però riscontrato qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato ''quel'' meccanismo che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o spiegazione dei segni abcd data nella tabella 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire una tabella, e avanti così. (Cfr. 21).)
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “Lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi se gli si mostra la lettera ''a''?”. Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Il fatto che in 38) e in 39) l’addestramento ''precedeva'' l’esecuzione dell’ordine non cambia infatti il processo della sua esecuzione. In altre parole “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Ma ''potrebbe'' un tale meccanismo essere innato?” Hai però riscontrato qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato ''quel'' meccanismo che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o spiegazione dei segni abcd data nella tabella 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire una tabella, e avanti così. (Cfr. 21).)


Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “Vai da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “Se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Questo esempio mostra semplicemente gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “Vai da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “Se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Questo esempio mostra semplicemente gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=56}} Prendiamo adesso in considerazione una ''descrizione'' del futuro, una previsione. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=56}} Prendiamo adesso in considerazione una ''descrizione'' del futuro, una previsione. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco.


Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Cosa sia tale aspetto e come avvenga che si manifesti si può esemplificare in modo caratteristico riflettendo sulla domanda “Dove va il presente quando diventa passato, e il passato dove si trova?” – in quali circostanze ci affascina un simile interrogativo? In certe circostanze infatti non ci affascina e lo liquideremmo come un’insensatezza.
Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Cosa sia tale aspetto e come avvenga che si manifesti si può esemplificare in modo caratteristico riflettendo sulla domanda “Dove va il presente quando diventa passato, e il passato dove si trova?”. – in quali circostanze ci affascina un simile interrogativo? In certe circostanze infatti non ci affascina e lo liquideremmo come un’insensatezza.


È evidente che una domanda del genere tende a sorgere facilmente se ci si occupa di casi in cui le cose ci oltrepassano in un flusso – come tronchi portati dalla corrente. In tal caso possiamo dire che i tronchi che ''ci hanno superato'' sono laggiù a sinistra e quelli che ''ci supereranno'' sono lassù a destra. Poi ci serviamo di questa situazione come di un modello per tutto ciò che accade nel tempo e la incorporiamo perfino nel nostro linguaggio, dicendo per esempio che “l’evento presente passa e va” (un tronco passa e va), “l’evento futuro deve arrivare” (il tronco deve arrivare). Parliamo di flusso degli eventi; ma anche di flusso del tempo – cioè del fiume in cui si spostano i tronchi.
È evidente che una domanda del genere tende a sorgere facilmente se ci si occupa di casi in cui le cose ci oltrepassano in un flusso – come tronchi portati dalla corrente. In tal caso possiamo dire che i tronchi che ''ci hanno superato'' sono laggiù a sinistra e quelli che ''ci supereranno'' sono lassù a destra. Poi ci serviamo di questa situazione come di un modello per tutto ciò che accade nel tempo e la incorporiamo perfino nel nostro linguaggio, dicendo per esempio che “l’evento presente passa e va” (un tronco passa e va), “l’evento futuro deve arrivare” (il tronco deve arrivare). Parliamo di flusso degli eventi; ma anche di flusso del tempo – cioè del fiume in cui si spostano i tronchi.
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{{Nowrap|………………….    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .}}
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=73}} non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n”, la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo “Nel caso 71) tu hai ovviamente ipotizzato che avesse ''compreso la tabella in maniera diversa''; che non la capisse nella maniera normale”. Ma cos’è che chiamiamo “comprendere la tabella in una maniera particolare?Qualunque processo tu immagini sia questo “comprendere”, è solo un altro anello intermedio inserito tra i processi esterni e interni di derivazione che ho descritto e la trascrizione effettiva. In realtà questo processo di comprensione potrebbe ovviamente essere descritto per mezzo di uno schema del tipo di quello impiegato in 71), e si potrebbe dire allora che in un caso specifico il nostro soggetto abbia guardato la tabella così:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=73}} non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n”, la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo “Nel caso 71) tu hai ovviamente ipotizzato che avesse ''compreso la tabella in maniera diversa''; che non la capisse nella maniera normale”. Ma cos’è che chiamiamo “comprendere la tabella in una maniera particolare”? Qualunque processo tu immagini sia questo “comprendere”, è solo un altro anello intermedio inserito tra i processi esterni e interni di derivazione che ho descritto e la trascrizione effettiva. In realtà questo processo di comprensione potrebbe ovviamente essere descritto per mezzo di uno schema del tipo di quello impiegato in 71), e si potrebbe dire allora che in un caso specifico il nostro soggetto abbia guardato la tabella così:




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(Intervallo. Vacanze al termine del semestre autunnale.)
(Intervallo. Vacanze al termine del semestre autunnale.)




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Si potrebbe dire: “L’assenza di familiarità è un’esperienza molto più saliente della familiarità”.
Si potrebbe dire: “L’assenza di familiarità è un’esperienza molto più saliente della familiarità”.


Diciamo: A mostra a B una serie di oggetti. B deve dire ad A se l’oggetto gli è familiare o no. ''a'') La domanda potrebbe essere “B sa che oggetti sono?” Oppure ''b'') “B riconosce l’oggetto particolare?”
Diciamo: A mostra a B una serie di oggetti. B deve dire ad A se l’oggetto gli è familiare o no. ''a'') La domanda potrebbe essere “B sa che oggetti sono?”. Oppure ''b'') “B riconosce l’oggetto particolare?”.




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Se gli si avessimo chiesto “che cos’è una matita?”, B non avrebbe indicato un altro oggetto come paradigma o campione, ma avrebbe subito indicato la matita mostratagli.
Se gli si avessimo chiesto “che cos’è una matita?”, B non avrebbe indicato un altro oggetto come paradigma o campione, ma avrebbe subito indicato la matita mostratagli.


“Nel dire però ‘ah, questa è una matita’, come faceva a sapere che lo era se non l’ha riconosciuta come qualcosa?” – Ciò in fondo equivale a dire: “come ha riconosciuto ‘matita’ come il nome di una cosa di questa specie?” Be’, come ha fatto? Ha semplicemente reagito in questa maniera particolare, dicendo questa parola.
“Nel dire però ‘ah, questa è una matita’, come faceva a sapere che lo era se non l’ha riconosciuta come qualcosa?” – Ciò in fondo equivale a dire: “come ha riconosciuto ‘matita’ come il nome di una cosa di questa specie?”. Be’, come ha fatto? Ha semplicemente reagito in questa maniera particolare, dicendo questa parola.




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Che cosa ci porta a impiegare l’espressione “cercare nella memoria” quando tentiamo di ricordare una parola?
Che cosa ci porta a impiegare l’espressione “cercare nella memoria” quando tentiamo di ricordare una parola?


Chiediamoci “qual è la somiglianza tra cercare una parola nella memoria e cercare un amico nel parco?” Quale sarebbe la risposta a una simile domanda?
Chiediamoci “qual è la somiglianza tra cercare una parola nella memoria e cercare un amico nel parco?”. Quale sarebbe la risposta a una simile domanda?


Un certo tipo di risposta consisterebbe certamente nella descrizione di una serie di casi intermedi. Potremmo dire che il caso a cui più assomiglia il cercare qualcosa nella memoria non è quello di cercare un amico nel parco, bensì, diciamo, quello di cercare in un dizionario come si scrive una parola. Si potrebbe proseguire elencando altri casi. Un altro modo di ''indicare'' la somiglianza consisterebbe nell’affermare, per esempio, “in entrambi i casi all’inizio non siamo in grado di scrivere la parola, poi invece sì”. Questo è ciò che chiamiamo indicare un elemento comune.
Un certo tipo di risposta consisterebbe certamente nella descrizione di una serie di casi intermedi. Potremmo dire che il caso a cui più assomiglia il cercare qualcosa nella memoria non è quello di cercare un amico nel parco, bensì, diciamo, quello di cercare in un dizionario come si scrive una parola. Si potrebbe proseguire elencando altri casi. Un altro modo di ''indicare'' la somiglianza consisterebbe nell’affermare, per esempio, “in entrambi i casi all’inizio non siamo in grado di scrivere la parola, poi invece sì”. Questo è ciò che chiamiamo indicare un elemento comune.
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Qui ci occupiamo di casi in cui, per esprimerci rozzamente, la grammatica di una parola pare suggerirci “la necessità” di un certo passaggio intermedio, sebbene in realtà nei casi in cui è usata la parola non vi sia alcun simile passaggio intermedio. Quindi siamo portati a dire “prima di obbedire a un ordine, un uomo ''deve per forza'' averlo capito”, “prima di poterlo indicare, deve sapere dov’è che il punto che gli fa male”, “prima di poterlo cantare, deve conoscere il brano in questione”, e così via.
Qui ci occupiamo di casi in cui, per esprimerci rozzamente, la grammatica di una parola pare suggerirci “la necessità” di un certo passaggio intermedio, sebbene in realtà nei casi in cui è usata la parola non vi sia alcun simile passaggio intermedio. Quindi siamo portati a dire “prima di obbedire a un ordine, un uomo ''deve per forza'' averlo capito”, “prima di poterlo indicare, deve sapere dov’è che il punto che gli fa male”, “prima di poterlo cantare, deve conoscere il brano in questione”, e così via.


Poniamoci un’altra domanda: immagina che, per spiegare a qualcuno la parola “rosso” (o il significato della parola “rosso”), tu gli abbia indicato vari oggetti rossi e abbia fornito la spiegazione ostensiva. – Che cosa significa dire “se ha capito il significato, se glielo chiederò mi porterà un oggetto rosso?Ciò sembra voler dire: se ha davvero capito cos’hanno in comune gli oggetti che gli ho mostrato, sarà nelle condizioni di eseguire tale ordine. Ma che cos’è che hanno in comune questi oggetti?
Poniamoci un’altra domanda: immagina che, per spiegare a qualcuno la parola “rosso” (o il significato della parola “rosso”), tu gli abbia indicato vari oggetti rossi e abbia fornito la spiegazione ostensiva. – Che cosa significa dire “se ha capito il significato, se glielo chiederò mi porterà un oggetto rosso”? Ciò sembra voler dire: se ha davvero capito cos’hanno in comune gli oggetti che gli ho mostrato, sarà nelle condizioni di eseguire tale ordine. Ma che cos’è che hanno in comune questi oggetti?


Sapresti dirmi cosa hanno in comune un rosso chiaro e un rosso scuro? Confronta questo con il caso seguente: ti mostro due immagini di due paesaggi diversi. Nelle due immagini, tra vari altri oggetti, c’è l’immagine di un cespuglio, identica in entrambe. Ti chiedo “indica ciò che hanno in comune le due immagini” e a mo’ di risposta tu indichi il cespuglio.
Sapresti dirmi cosa hanno in comune un rosso chiaro e un rosso scuro? Confronta questo con il caso seguente: ti mostro due immagini di due paesaggi diversi. Nelle due immagini, tra vari altri oggetti, c’è l’immagine di un cespuglio, identica in entrambe. Ti chiedo “indica ciò che hanno in comune le due immagini” e a mo’ di risposta tu indichi il cespuglio.
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Consideriamo adesso la spiegazione seguente: do a qualcuno due scatole contenenti varie cose e dico “l’oggetto in comune tra le due scatole è chiamato forchettone da pane”. La persona a cui do tale spiegazione deve frugare tra gli oggetti dentro le due scatole fino a trovare quello che hanno in comune e così facendo, possiamo dire, giunge alla spiegazione ostensiva. Oppure pensiamo a una spiegazione come questa: “nelle due immagini che ti mostro vedi macchie di molti colori; il solo colore che trovi in entrambe si chiama ‘malva’”. – In questo caso ha chiaramente senso dire “se ha visto (o trovato) ciò che hanno in comune le due immagini, adesso sarà in grado di portarmi un oggetto malva”.
Consideriamo adesso la spiegazione seguente: do a qualcuno due scatole contenenti varie cose e dico “l’oggetto in comune tra le due scatole è chiamato forchettone da pane”. La persona a cui do tale spiegazione deve frugare tra gli oggetti dentro le due scatole fino a trovare quello che hanno in comune e così facendo, possiamo dire, giunge alla spiegazione ostensiva. Oppure pensiamo a una spiegazione come questa: “nelle due immagini che ti mostro vedi macchie di molti colori; il solo colore che trovi in entrambe si chiama ‘malva’”. – In questo caso ha chiaramente senso dire “se ha visto (o trovato) ciò che hanno in comune le due immagini, adesso sarà in grado di portarmi un oggetto malva”.


C’è questo gioco: dico a qualcuno “ti spiegherò la parola ‘w’ mostrandoti vari oggetti. Ciò che hanno tutti in comune è il significato di ‘w.’ Prima gli mostro due libri e lui si chiede “‘w’ vorrà dire ‘libro’?” Io poi indico un mattone e lui si dice “forse ‘w’ significa ‘parallelepipedo’”. Infine gli indico un carbone ardente e lui si dice “ah, è ‘rosso’ che intende, poiché tutti questi oggetti avevano qualcosa di rosso”. Sarebbe interessante considerare una forma alternativa di questo gioco, in cui l’interlocutore di volta in volta deve ''disegnare'' o ''dipingere'' ciò che crede che io intenda. L’interesse di questa versione risiede nel fatto che in certi casi sarebbe assolutamente ovvio che cosa costui debba disegnare, per esempio quando vede che tutti gli oggetti che gli ho mostrato finora esibiscono un certo segno distintivo (disegnerebbe proprio tale segno distintivo). – D’altra parte, se riconosce che in ciascuno degli oggetti c’è qualcosa di rosso, che cosa dovrebbe dipingere? Una macchia rossa? Di quale forma e di che tonalità? Qui bisognerebbe stabilire una convenzione, per esempio che disegnare una macchia rossa dai contorni frastagliati non significa che gli oggetti hanno in comune una macchia rossa dai contorni frastagliati bensì ''qualcosa'' di rosso.
C’è questo gioco: dico a qualcuno “ti spiegherò la parola ‘w’ mostrandoti vari oggetti. Ciò che hanno tutti in comune è il significato di ‘w.’ Prima gli mostro due libri e lui si chiede “‘w’ vorrà dire ‘libro’?”. Io poi indico un mattone e lui si dice “forse ‘w’ significa ‘parallelepipedo’”. Infine gli indico un carbone ardente e lui si dice “ah, è ‘rosso’ che intende, poiché tutti questi oggetti avevano qualcosa di rosso”. Sarebbe interessante considerare una forma alternativa di questo gioco, in cui l’interlocutore di volta in volta deve ''disegnare'' o ''dipingere'' ciò che crede che io intenda. L’interesse di questa versione risiede nel fatto che in certi casi sarebbe assolutamente ovvio che cosa costui debba disegnare, per esempio quando vede che tutti gli oggetti che gli ho mostrato finora esibiscono un certo segno distintivo (disegnerebbe proprio tale segno distintivo). – D’altra parte, se riconosce che in ciascuno degli oggetti c’è qualcosa di rosso, che cosa dovrebbe dipingere? Una macchia rossa? Di quale forma e di che tonalità? Qui bisognerebbe stabilire una convenzione, per esempio che disegnare una macchia rossa dai contorni frastagliati non significa che gli oggetti hanno in comune una macchia rossa dai contorni frastagliati bensì ''qualcosa'' di rosso.


Se, indicando macchie di varie sfumature di rosso, tu chiedessi a qualcuno “che cos’hanno in comune che te le fa chiamare rosse?”, costui sarebbe portato a dirti “non vedi?” Naturalmente una tale risposta non equivarrebbe al fatto di indicare un elemento in comune.
Se, indicando macchie di varie sfumature di rosso, tu chiedessi a qualcuno “che cos’hanno in comune che te le fa chiamare rosse?”, costui sarebbe portato a dirti “non vedi?”. Naturalmente una tale risposta non equivarrebbe al fatto di indicare un elemento in comune.


Ci sono casi in cui l’esperienza insegna che, se qualcuno non ha visto cosa avevano in comune i vari oggetti che gli ho indicato a mo’ di spiegazione di “x”, costui non è in grado di eseguire un ordine, per esempio, della forma di “portami x”. E “vedere che cos’hanno in comune” in certi casi consiste nell’indicarlo, nel lasciare che, dopo un processo di analisi e di confronto, lo sguardo si posi su una macchia colorata, nel dire a se stessi “ah, è rosso che intende” e magari al contempo nel dare un’occhiata a tutte le macchie rosse sui vari oggetti, e avanti così. – Tuttavia ci sono casi in cui non ha luogo nessun processo intermedio paragonabile a questo “vedere cos’hanno in comune” e in cui ci serviamo lo stesso di tale espressione, anche se qui bisognerebbe dire “se dopo che gli ho mostrato queste cose lui mi porta un altro oggetto di rosso, allora ''dovrò dire'' che ha visto l’elemento comune degli oggetti che gli ho mostrato”. Eseguire l’ordine è ora il ''criterio'' per stabilire se il soggetto ha compreso o meno.
Ci sono casi in cui l’esperienza insegna che, se qualcuno non ha visto cosa avevano in comune i vari oggetti che gli ho indicato a mo’ di spiegazione di “x”, costui non è in grado di eseguire un ordine, per esempio, della forma di “portami x”. E “vedere che cos’hanno in comune” in certi casi consiste nell’indicarlo, nel lasciare che, dopo un processo di analisi e di confronto, lo sguardo si posi su una macchia colorata, nel dire a se stessi “ah, è rosso che intende” e magari al contempo nel dare un’occhiata a tutte le macchie rosse sui vari oggetti, e avanti così. – Tuttavia ci sono casi in cui non ha luogo nessun processo intermedio paragonabile a questo “vedere cos’hanno in comune” e in cui ci serviamo lo stesso di tale espressione, anche se qui bisognerebbe dire “se dopo che gli ho mostrato queste cose lui mi porta un altro oggetto di rosso, allora ''dovrò dire'' che ha visto l’elemento comune degli oggetti che gli ho mostrato”. Eseguire l’ordine è ora il ''criterio'' per stabilire se il soggetto ha compreso o meno.
Line 662: Line 661:
((Ora che ha cominciato, Wittgenstein riprende la dettatura formale.))
((Ora che ha cominciato, Wittgenstein riprende la dettatura formale.))


“Perché chiamiamo ‘sforzo’ tutte queste esperienze?” – “Perché hanno un qualche elemento in comune”. – “Che cos’è che hanno in comune lo sforzo fisico e quello mentale?” – “Non lo so, ma ovviamente una somiglianza dev’esserci”.
“Perché chiamiamo ‘sforzo’ tutte queste esperienze?” – “Perché hanno un qualche elemento in comune.– “Che cos’è che hanno in comune lo sforzo fisico e quello mentale?” – “Non lo so, ma ovviamente una somiglianza dev’esserci.


Allora perché hai detto che queste esperienze hanno qualcosa in comune? Tale espressione non si limitava a paragonare il caso presente con quei casi in cui primariamente diciamo che due esperienze hanno qualcosa in comune? (Quindi potremmo sostenere che alcune esperienze di gioia e di paura hanno in comune la sensazione del batticuore). Ma quando hai detto che le due esperienze di sforzo avevano qualcosa in comune, si trattava solo di parole diverse per dire che erano simili: dunque dire che la somiglianza consisteva nella presenza di un elemento comune non era una spiegazione.
Allora perché hai detto che queste esperienze hanno qualcosa in comune? Tale espressione non si limitava a paragonare il caso presente con quei casi in cui primariamente diciamo che due esperienze hanno qualcosa in comune? (Quindi potremmo sostenere che alcune esperienze di gioia e di paura hanno in comune la sensazione del batticuore). Ma quando hai detto che le due esperienze di sforzo avevano qualcosa in comune, si trattava solo di parole diverse per dire che erano simili: dunque dire che la somiglianza consisteva nella presenza di un elemento comune non era una spiegazione.
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Si potrebbe suggerire che la spiegazione è che in questo caso chiami “blu” ciò che i due colori hanno ''in comune'' e che se tu chiamassi “sforzo” ciò che hanno in comune le due esperienze di sforzo sarebbe stato sbagliato dire “le chiamo entrambe ‘sforzo’ perché tra di loro c’è una qualche somiglianza”, e invece avresti dovuto dire “ho usato la parola ‘sforzo’ in entrambi i casi perché in entrambi è presente uno sforzo”.
Si potrebbe suggerire che la spiegazione è che in questo caso chiami “blu” ciò che i due colori hanno ''in comune'' e che se tu chiamassi “sforzo” ciò che hanno in comune le due esperienze di sforzo sarebbe stato sbagliato dire “le chiamo entrambe ‘sforzo’ perché tra di loro c’è una qualche somiglianza”, e invece avresti dovuto dire “ho usato la parola ‘sforzo’ in entrambi i casi perché in entrambi è presente uno sforzo”.


Allora cosa dovremmo rispondere alla domanda “cos’hanno in comune il blu chiaro e il blu scuro?Di primo acchito la risposta pare ovvia: “sono due sfumature di blu”. Questa però è una tautologia. Chiediamoci quindi “cos’hanno in comune questi due colori che sto indicando?” (Immagina che uno sia blu chiaro, l’altro blu scuro). Qui davvero bisognerebbe rispondere “non so a quale gioco tu stia giocando”. E da questo gioco dipende se io debba dire oppure no che hanno qualcosa in comune, e che cosa nello specifico hanno in comune.
Allora cosa dovremmo rispondere alla domanda “cos’hanno in comune il blu chiaro e il blu scuro”? Di primo acchito la risposta pare ovvia: “sono due sfumature di blu”. Questa però è una tautologia. Chiediamoci quindi “cos’hanno in comune questi due colori che sto indicando?” (Immagina che uno sia blu chiaro, l’altro blu scuro). Qui davvero bisognerebbe rispondere “non so a quale gioco tu stia giocando”. E da questo gioco dipende se io debba dire oppure no che hanno qualcosa in comune, e che cosa nello specifico hanno in comune.


Immagina il gioco seguente: A mostra a B varie macchie di colore e gli chiede che cos’hanno in comune. B deve rispondere indicando un particolare colore puro. Quindi se A indica rosa e arancio, B deve indicare il rosso puro. Se A indica due sfumature di blu verdastro, B deve indicare il verde puro e il blu puro, ecc. Se in questo gioco A mostrasse a B un blu chiaro e un blu scuro e gli chiedesse che cos’hanno in comune, la risposta sarebbe ovvia. Se gli indicasse il rosso puro e il verde puro, la risposta sarebbe che non hanno nulla in comune. Potrei però immaginare facilmente delle circostanze in cui diremmo che hanno qualcosa in comune e non esiteremmo a dire di che cosa si tratta: immagina un uso linguistico (una cultura) in cui da un lato il verde e il rosso hanno lo stesso nome, e dall’altro anche giallo e il blu. Poniamo per esempio che ci siano due caste, quella patrizia che indossa abiti rossi e verdi, quella plebea che indossa abiti blu e gialli. Al giallo e al blu ci si riferirebbe sempre come a colori plebei, al verde e al rosso sempre come a colori patrizi. Se gli si chiedesse cos’hanno in comune una macchia rossa e una macchia verde, senza esitare un membro della tribù risponderebbe che sono entrambi colori patrizi.
Immagina il gioco seguente: A mostra a B varie macchie di colore e gli chiede che cos’hanno in comune. B deve rispondere indicando un particolare colore puro. Quindi se A indica rosa e arancio, B deve indicare il rosso puro. Se A indica due sfumature di blu verdastro, B deve indicare il verde puro e il blu puro, ecc. Se in questo gioco A mostrasse a B un blu chiaro e un blu scuro e gli chiedesse che cos’hanno in comune, la risposta sarebbe ovvia. Se gli indicasse il rosso puro e il verde puro, la risposta sarebbe che non hanno nulla in comune. Potrei però immaginare facilmente delle circostanze in cui diremmo che hanno qualcosa in comune e non esiteremmo a dire di che cosa si tratta: immagina un uso linguistico (una cultura) in cui da un lato il verde e il rosso hanno lo stesso nome, e dall’altro anche giallo e il blu. Poniamo per esempio che ci siano due caste, quella patrizia che indossa abiti rossi e verdi, quella plebea che indossa abiti blu e gialli. Al giallo e al blu ci si riferirebbe sempre come a colori plebei, al verde e al rosso sempre come a colori patrizi. Se gli si chiedesse cos’hanno in comune una macchia rossa e una macchia verde, senza esitare un membro della tribù risponderebbe che sono entrambi colori patrizi.
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Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e poi esprimono tale concezione con parole e gesti.
Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e poi esprimono tale concezione con parole e gesti.


Come mai però impieghi l’espressione “devono?In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, ecc.”? Altrimenti, non è solo ciò che potremmo chiamare un pregiudizio linguistico ad averti fatto dire dire “prima di tutto doveva concepire che, ecc.”?
Come mai però impieghi l’espressione “devono”? In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, ecc.”? Altrimenti, non è solo ciò che potremmo chiamare un pregiudizio linguistico ad averti fatto dire dire “prima di tutto doveva concepire che, ecc.”?


Invece da questo esempio e da altri puoi imparare che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui, se parliamo davvero di un’esperienza del concepire, dobbiamo applicare tale parola all’esperienza dell’uso di certe parole, certi gesti, ecc.
Invece da questo esempio e da altri puoi imparare che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui, se parliamo davvero di un’esperienza del concepire, dobbiamo applicare tale parola all’esperienza dell’uso di certe parole, certi gesti, ecc.
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La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui la parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che una parola ha due significati potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “la parola ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se si diano entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una potrebbe dipendere dalle reazioni naturali delle persone che usano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo a cui diamo la definizione ostensiva “questo si chiama ‘rosso’” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece potrebbe fare diversamente e portarci solo oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso prossime a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Potremmo dire che costui “non vede cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.
La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui la parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che una parola ha due significati potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “la parola ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se si diano entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una potrebbe dipendere dalle reazioni naturali delle persone che usano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo a cui diamo la definizione ostensiva “questo si chiama ‘rosso’” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece potrebbe fare diversamente e portarci solo oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso prossime a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Potremmo dire che costui “non vede cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.


Considera il caso seguente: a B hanno insegnato un uso delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno spiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a portare un oggetto in risposta all’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, ecc., ecc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine dal più scuro al più chiaro. Lui esegue disponendo dei libri in fila, scrivendo i nomi di certi animali e scrivendo le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?” Potremmo essere portati a trattare un simile caso come una specie di anomalia e ad affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale mette in ordine sia gli oggetti colorati sia le vocali”. E se provassimo a rendere tale nostra idea del tutto esplicita, si arriverebbe a questo: la persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visibili con uno strumento e ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali) con un altro, nello stesso senso in cui si potrebbe dire che noi registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura. B allora, vorremmo dire, mette in ordine suoni e colori con uno strumento (organo di senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica potrebbe registrare raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).
Considera il caso seguente: a B hanno insegnato un uso delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno spiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a portare un oggetto in risposta all’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, ecc., ecc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine dal più scuro al più chiaro. Lui esegue disponendo dei libri in fila, scrivendo i nomi di certi animali e scrivendo le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?”. Potremmo essere portati a trattare un simile caso come una specie di anomalia e ad affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale mette in ordine sia gli oggetti colorati sia le vocali”. E se provassimo a rendere tale nostra idea del tutto esplicita, si arriverebbe a questo: la persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visibili con uno strumento e ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali) con un altro, nello stesso senso in cui si potrebbe dire che noi registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura. B allora, vorremmo dire, mette in ordine suoni e colori con uno strumento (organo di senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica potrebbe registrare raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).


Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa dalla persona normale. D’altro canto, poniamo fianco a fianco questa immagine e il fatto che in questo caso non ci sono prove dell’esistenza di “un altro senso”. – E in effetti, quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare ai fenomeni osservati in base all’immagine tratteggiata nella frase stessa.
Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa dalla persona normale. D’altro canto, poniamo fianco a fianco questa immagine e il fatto che in questo caso non ci sono prove dell’esistenza di “un altro senso”. – E in effetti, quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare ai fenomeni osservati in base all’immagine tratteggiata nella frase stessa.
Line 744: Line 743:
Ma il fatto che gli usi differiscano è qualcosa in più, di ulteriore, rispetto a ciò che descrivi indicando le differenze specifiche?
Ma il fatto che gli usi differiscano è qualcosa in più, di ulteriore, rispetto a ciò che descrivi indicando le differenze specifiche?


E se, accennando a due macchie che ho chiamato rosse, qualcuno dicesse “di certo stai usando la parola ‘rosso’ in due modi diversi”. – Io direi “questo è rosso chiaro e quest’altro è rosso scuro – ma perché dovrei parlare di due usi diversi?” – –
E se, accennando a due macchie che ho chiamato rosse, qualcuno dicesse “di certo stai usando la parola ‘rosso’ in due modi diversi”. – Io direi “questo è rosso chiaro e quest’altro è rosso scuro – ma perché dovrei parlare di due usi diversi?”. – –


È sicuramente facile indicare le differenze tra la parte del gioco in cui abbiamo applicato “più chiaro” e “più scuro” agli oggetti colorati e quella in cui abbiamo applicato le stesse espressioni alle vocali. Nella prima parte si trattava di confrontare due oggetti avvicinandoli e spostando lo sguardo dall’uno all’altro, si trattava di dipingere una sfumatura più scura o più chiara del campione dato; nella seconda parte non c’erano paragoni a occhio, nulla di dipinto, ecc. Ma, nell’indicare tali differenze, siamo ancora liberi di parlare di due parti dello stesso gioco (come abbiamo appena fatto) oppure di due giochi diversi.
È sicuramente facile indicare le differenze tra la parte del gioco in cui abbiamo applicato “più chiaro” e “più scuro” agli oggetti colorati e quella in cui abbiamo applicato le stesse espressioni alle vocali. Nella prima parte si trattava di confrontare due oggetti avvicinandoli e spostando lo sguardo dall’uno all’altro, si trattava di dipingere una sfumatura più scura o più chiara del campione dato; nella seconda parte non c’erano paragoni a occhio, nulla di dipinto, ecc. Ma, nell’indicare tali differenze, siamo ancora liberi di parlare di due parti dello stesso gioco (come abbiamo appena fatto) oppure di due giochi diversi.
Line 750: Line 749:
“Non percepisco però come la relazione tra un pezzo di materiale più chiaro e uno più scuro sia diversa da quella tra le vocali ''e'' e ''u'' – mentre percepisco che la relazione tra ''u'' ed ''e'' è la stessa che tra ''e'' e ''i''.” In certe circostanze saremo portati a parlare in questi casi di relazioni diverse, in altre circostanze della stessa relazione. “Dipende da come le confronti” si potrebbe dire.
“Non percepisco però come la relazione tra un pezzo di materiale più chiaro e uno più scuro sia diversa da quella tra le vocali ''e'' e ''u'' – mentre percepisco che la relazione tra ''u'' ed ''e'' è la stessa che tra ''e'' e ''i''.” In certe circostanze saremo portati a parlare in questi casi di relazioni diverse, in altre circostanze della stessa relazione. “Dipende da come le confronti” si potrebbe dire.


Chiediamoci “diremo che le frecce → e ← indicano nella stessa direzione o in due direzioni diverse?” – A prima vista saresti forse propenso a dire “in direzioni diverse, è ovvio”. Guarda però la cosa in questo modo: se guardandomi allo specchio vedo il riflesso del mio volto, lo posso considerare un criterio per il fatto di vedere la mia testa. Se invece vedessi nello specchio una nuca potrei dire “ciò che vedo non può essere la mia testa, ma una testa che guarda nella direzione opposta”. Ciò dunque potrebbe portarmi a dire che una freccia e il riflesso di una freccia in uno specchio, quando puntano l’una verso l’altro, hanno la stessa direzione e, quando invece la testa dell’una punta verso la coda dell’altro, hanno direzioni opposte. Immagina il caso di un uomo a cui abbiano insegnato l’uso ordinario dell’espressione “lo stesso” nei casi di “lo stesso colore”, “la stessa forma”, “la stessa lunghezza”. Gli hanno anche insegnato l’impiego dell’espressione “indicare verso” in contesti quali “la freccia indica verso l’albero”. Ora gli mostriamo due frecce puntate l’una verso l’altra, poi due frecce che si inseguono e gli chiediamo in quale dei due casi applicherebbe l’espressione “le frecce indicano nella stessa direzione”. Non è facile immaginare che se nella sua mente fossero predominanti certi impieghi, lui sarebbe propenso a rispondere che le frecce → ← indicano “nella stessa direzione”?
Chiediamoci “diremo che le frecce → e ← indicano nella stessa direzione o in due direzioni diverse?”. – A prima vista saresti forse propenso a dire “in direzioni diverse, è ovvio”. Guarda però la cosa in questo modo: se guardandomi allo specchio vedo il riflesso del mio volto, lo posso considerare un criterio per il fatto di vedere la mia testa. Se invece vedessi nello specchio una nuca potrei dire “ciò che vedo non può essere la mia testa, ma una testa che guarda nella direzione opposta”. Ciò dunque potrebbe portarmi a dire che una freccia e il riflesso di una freccia in uno specchio, quando puntano l’una verso l’altro, hanno la stessa direzione e, quando invece la testa dell’una punta verso la coda dell’altro, hanno direzioni opposte. Immagina il caso di un uomo a cui abbiano insegnato l’uso ordinario dell’espressione “lo stesso” nei casi di “lo stesso colore”, “la stessa forma”, “la stessa lunghezza”. Gli hanno anche insegnato l’impiego dell’espressione “indicare verso” in contesti quali “la freccia indica verso l’albero”. Ora gli mostriamo due frecce puntate l’una verso l’altra, poi due frecce che si inseguono e gli chiediamo in quale dei due casi applicherebbe l’espressione “le frecce indicano nella stessa direzione”. Non è facile immaginare che se nella sua mente fossero predominanti certi impieghi, lui sarebbe propenso a rispondere che le frecce → ← indicano “nella stessa direzione”?


Quando sentiamo la scala diatonica siamo portati a dire che, dopo ogni sette note, ritorna la stessa nota e se ci chiedessero come mai la chiamiamo la stessa nota si potrebbe rispondere “be’, è di nuovo un do”. Non è questa però la spiegazione che voglio, poiché allora dovrei domandare “che cosa ti porta a chiamarlo di nuovo do?” A questo punto la risposta potrebbe essere “be’, non senti che è la stessa nota, solo di un’ottava più alta?” – Anche in tal caso si potrebbe immaginare che a un uomo abbiano insegnato il nostro utilizzo dell’espressione “lo stesso” quando applicata a colori, lunghezze, direzioni ecc. e che adesso gli suoniamo la scala diatonica e gli chiediamo se direbbe di aver sentito le stesse note riproporsi continuamente a certi intervalli; e sarebbe facile ipotizzare varie risposte, in particolare, per esempio, quella secondo la quale costui ha sentito la stessa nota alternatamente dopo ogni quattro o tre note (il nostro soggetto chiama la tonica, la dominante e l’ottava la stessa nota).
Quando sentiamo la scala diatonica siamo portati a dire che, dopo ogni sette note, ritorna la stessa nota e se ci chiedessero come mai la chiamiamo la stessa nota si potrebbe rispondere “be’, è di nuovo un do”. Non è questa però la spiegazione che voglio, poiché allora dovrei domandare “che cosa ti porta a chiamarlo di nuovo do?”. A questo punto la risposta potrebbe essere “be’, non senti che è la stessa nota, solo di un’ottava più alta?”. – Anche in tal caso si potrebbe immaginare che a un uomo abbiano insegnato il nostro utilizzo dell’espressione “lo stesso” quando applicata a colori, lunghezze, direzioni ecc. e che adesso gli suoniamo la scala diatonica e gli chiediamo se direbbe di aver sentito le stesse note riproporsi continuamente a certi intervalli; e sarebbe facile ipotizzare varie risposte, in particolare, per esempio, quella secondo la quale costui ha sentito la stessa nota alternatamente dopo ogni quattro o tre note (il nostro soggetto chiama la tonica, la dominante e l’ottava la stessa nota).


Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B, e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo motivo di dire che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se diciamo di sì, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure non vogliamo asserire niente del genere.
Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B, e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo motivo di dire che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se diciamo di sì, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure non vogliamo asserire niente del genere.


Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero di ''n'' più grande del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “aggiungere ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini –, {{Nowrap|– –}}, {{Nowrap|– – –}}, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel dare spiegazioni generali e fare esempi. – Questi esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “aggiungi 1”. Dopo un po’ notiamo che, passato 100, lui ha fatto quello che noi chiameremmo aggiungere 2; passato 300, quello che chiameremmo aggiungere 3. Noi lo sgridiamo: “non ti ho detto di aggiungere sempre 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capisci che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi che gli avevamo dato, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) che ci dicono: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”.
Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero di ''n'' più grande del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “aggiungere ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini –, {{Nowrap|– –}}, {{Nowrap|– – –}}, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel dare spiegazioni generali e fare esempi. – Questi esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “aggiungi 1”. Dopo un po’ notiamo che, passato 100, lui ha fatto quello che noi chiameremmo aggiungere 2; passato 300, quello che chiameremmo aggiungere 3. Noi lo sgridiamo: “non ti ho detto di aggiungere sempre 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!”. – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capisci che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi che gli avevamo dato, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) che ci dicono: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”.


(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto di indicare, muovendosi nella direzione che va dalla spalla alla mano, bensì in quella contraria. E comprendere qui significa lo stesso che reagire.)
(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto di indicare, muovendosi nella direzione che va dalla spalla alla mano, bensì in quella contraria. E comprendere qui significa lo stesso che reagire.)
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“Suppongo che ciò che dici implichi questo, ovvero che, per seguire correttamente la regola ‘aggiungi 1’, a ogni passo c’è bisogno di una nuova comprensione o intuizione”. – Ma che cosa significa seguire la regola ''correttamente''? Come e quando si decide qual è il passo giusto da compiere in un momento specifico? – “Il passo giusto da compiere in ogni momento è quello in accordo con il ''significato'', l’intenzione della regola.” – Immagino che l’idea sia questa: nel dargli la regola “addiziona 1”, e nell’intenderla, tu intendevi che lui scrivesse 101 dopo 100, 199 dopo 198, 1041 dopo 1040 e avanti così. Nel dargli la regola però come hai compiuto tutti questi atti di intendere (ne immagino una quantità infinita)? Oppure si tratta di una rappresentazione sbagliata? E diresti che c’è stato un solo atto di intendere, dal quale comunque sono conseguiti tutti questi altri, o ciascuno di essi? Ma il punto non è solo “che cosa consegue dalla regola generale?”? Tu potresti dire “di certo nel dargli la regola sapevo di intendere che dopo 100 scrivesse 101”. Qui però sei sviato dalla grammatica del termine “sapere”. Sapere ciò era un qualche atto mentale con il quale tu in quel momento hai compiuto la transizione da 100 a 101, per esempio un atto come il dire a te stesso: “voglio che scriva 101 dopo 100”? In questo caso chiediti quanti atti simili hai compiuto nel fornirgli la regola. Oppure intendi l’essere a conoscenza di un qualche tipo di disposizione… in tal caso solo l’esperienza può insegnarci a che cosa fosse atta tale disposizione. – “Certamente però se tu mi avessi chiesto quale numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1568, io ti avrei risposto 1569.” – Non ne dubito, ma come fai a esserne sicuro? La tua idea è che in qualche modo nell’atto misterioso dell’''intendere'' la regola tu abbia compiuto le transizioni senza compierle davvero. Hai venduto la pelle di tutti gli orsi prima di averli uccisi. Questa strana idea è legata a un utilizzo peculiare della parola “intendere”. Immagina che il soggetto sia arrivato a 100 e che poi abbia scritto 102. In tal caso diremmo “''intendevo'' che tu scrivessi 101”. Il tempo passato nella parola “intendere” suggerisce che, quando è stata data la regola, abbia avuto luogo un particolare atto di intendere, anche se in concreto tale espressione non allude ad alcun atto del genere. Si potrebbe spiegare il verbo al passato trasponendo la frase nella forma “se tu prima mi avessi chiesto che cosa volevi che tu facessi a questo punto, io ti avrei detto…” Che tu però in tal caso gli avresti detto così resta comunque un’ipotesi.
“Suppongo che ciò che dici implichi questo, ovvero che, per seguire correttamente la regola ‘aggiungi 1’, a ogni passo c’è bisogno di una nuova comprensione o intuizione”. – Ma che cosa significa seguire la regola ''correttamente''? Come e quando si decide qual è il passo giusto da compiere in un momento specifico? – “Il passo giusto da compiere in ogni momento è quello in accordo con il ''significato'', l’intenzione della regola.” – Immagino che l’idea sia questa: nel dargli la regola “addiziona 1”, e nell’intenderla, tu intendevi che lui scrivesse 101 dopo 100, 199 dopo 198, 1041 dopo 1040 e avanti così. Nel dargli la regola però come hai compiuto tutti questi atti di intendere (ne immagino una quantità infinita)? Oppure si tratta di una rappresentazione sbagliata? E diresti che c’è stato un solo atto di intendere, dal quale comunque sono conseguiti tutti questi altri, o ciascuno di essi? Ma il punto non è solo “che cosa consegue dalla regola generale?”? Tu potresti dire “di certo nel dargli la regola sapevo di intendere che dopo 100 scrivesse 101”. Qui però sei sviato dalla grammatica del termine “sapere”. Sapere ciò era un qualche atto mentale con il quale tu in quel momento hai compiuto la transizione da 100 a 101, per esempio un atto come il dire a te stesso: “voglio che scriva 101 dopo 100”? In questo caso chiediti quanti atti simili hai compiuto nel fornirgli la regola. Oppure intendi l’essere a conoscenza di un qualche tipo di disposizione… in tal caso solo l’esperienza può insegnarci a che cosa fosse atta tale disposizione. – “Certamente però se tu mi avessi chiesto quale numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1568, io ti avrei risposto 1569.” – Non ne dubito, ma come fai a esserne sicuro? La tua idea è che in qualche modo nell’atto misterioso dell’''intendere'' la regola tu abbia compiuto le transizioni senza compierle davvero. Hai venduto la pelle di tutti gli orsi prima di averli uccisi. Questa strana idea è legata a un utilizzo peculiare della parola “intendere”. Immagina che il soggetto sia arrivato a 100 e che poi abbia scritto 102. In tal caso diremmo “''intendevo'' che tu scrivessi 101”. Il tempo passato nella parola “intendere” suggerisce che, quando è stata data la regola, abbia avuto luogo un particolare atto di intendere, anche se in concreto tale espressione non allude ad alcun atto del genere. Si potrebbe spiegare il verbo al passato trasponendo la frase nella forma “se tu prima mi avessi chiesto che cosa volevi che tu facessi a questo punto, io ti avrei detto…” Che tu però in tal caso gli avresti detto così resta comunque un’ipotesi.


Per capire meglio, pensa all’esempio seguente: qualcuno dice “Napoleone è stato incoronato nel 1804”. Io gli chiedo “intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?” Costui risponde “sì, intendevo lui”. – Ciò significa che quando “intendeva lui” il soggetto ha in qualche modo pensato al fatto che Napoleone ha vinto la battaglia di Austerlitz?
Per capire meglio, pensa all’esempio seguente: qualcuno dice “Napoleone è stato incoronato nel 1804”. Io gli chiedo “intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?”. Costui risponde “sì, intendevo lui”. – Ciò significa che quando “intendeva lui” il soggetto ha in qualche modo pensato al fatto che Napoleone ha vinto la battaglia di Austerlitz?


L’espressione “la regola intendeva che dopo 100 scrivesse 101” fa sembrare che la regola in questione, per come la si intendeva, ''presagisse'' tutte le transizioni che si sarebbero dovute compiere seguendola. Ma presupporre il presagio di una transizione non ci aiuta a procedere, perché non accorcia il divario tra esso e la transizione vera e propria. Se le semplici parole della regola non potevano anticipare una transizione futura, non poteva farlo nemmeno un atto mentale con cui accompagnare queste parole.
L’espressione “la regola intendeva che dopo 100 scrivesse 101” fa sembrare che la regola in questione, per come la si intendeva, ''presagisse'' tutte le transizioni che si sarebbero dovute compiere seguendola. Ma presupporre il presagio di una transizione non ci aiuta a procedere, perché non accorcia il divario tra esso e la transizione vera e propria. Se le semplici parole della regola non potevano anticipare una transizione futura, non poteva farlo nemmeno un atto mentale con cui accompagnare queste parole.
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Consideriamo la proposizione “credere qualcosa non può consistere soltanto nel dire che ci credi, lo devi dire con una particolare espressione facciale, gestualità, tono di voce”. È indubbio che consideriamo certe espressioni, gesti, ecc. come caratteristici dell’espressione della credenza. Diciamo “con tono convinto”. Eppure è evidente che suddetto tono convinto non è presente in tutti i casi in cui parliamo a buon diritto di convinzione. “Infatti”, potresti rispondermi tu, “ciò mostra che c’è qualcos’altro, qualcosa dietro a questi gesti, ecc. che è la vera credenza, distinta dalle mere espressioni della credenza”. – “Niente affatto”, ti risponderei, “molti criteri diversi distinguono, in diverse circostanze, casi in cui si crede a ciò che si dice e casi in cui non si crede a ciò che si dice”. Possono esserci casi in cui la presenza di una sensazione diversa da quelle connesse a gesti, tono di voce, ecc. distingue il fatto di intendere ciò che si dice dal fatto di non intenderlo. Qualche volta però a operare tale distinzione non è qualcosa che succede mentre si parla, ma uno stuolo di azioni ed esperienze di vario genere sia prima sia dopo.
Consideriamo la proposizione “credere qualcosa non può consistere soltanto nel dire che ci credi, lo devi dire con una particolare espressione facciale, gestualità, tono di voce”. È indubbio che consideriamo certe espressioni, gesti, ecc. come caratteristici dell’espressione della credenza. Diciamo “con tono convinto”. Eppure è evidente che suddetto tono convinto non è presente in tutti i casi in cui parliamo a buon diritto di convinzione. “Infatti”, potresti rispondermi tu, “ciò mostra che c’è qualcos’altro, qualcosa dietro a questi gesti, ecc. che è la vera credenza, distinta dalle mere espressioni della credenza”. – “Niente affatto”, ti risponderei, “molti criteri diversi distinguono, in diverse circostanze, casi in cui si crede a ciò che si dice e casi in cui non si crede a ciò che si dice”. Possono esserci casi in cui la presenza di una sensazione diversa da quelle connesse a gesti, tono di voce, ecc. distingue il fatto di intendere ciò che si dice dal fatto di non intenderlo. Qualche volta però a operare tale distinzione non è qualcosa che succede mentre si parla, ma uno stuolo di azioni ed esperienze di vario genere sia prima sia dopo.


Per comprendere questa famiglia di casi ci sarà nuovamente d’aiuto considerare un caso analogo preso dall’ambito delle espressioni facciali. Esiste una famiglia di espressioni facciali amichevoli. Immagina che avessimo chiesto “qual è l’elemento che caratterizza un viso amichevole?” All’inizio si potrebbe pensare che ci siano certi tratti che si potrebbero chiamare tratti amichevoli, ognuno dei quali conferisce al volto un certo grado di amichevolezza e che quando presenti in gran numero costituiscono l’espressione amichevole. Tale idea sembra confermata dal nostro linguaggio comune, in cui si parla di “occhi amichevoli”, “bocca amichevole”, ecc. È facile però vedere che gli stessi occhi di cui diciamo che fanno apparire un volto amichevole smettono di apparire amichevoli, anzi iniziano ad apparire ostili, se accompagnati da certe rughe sulla fronte, o da certe linee attorno alla bocca, ecc. Perché mai allora diciamo che sono questi occhi ad apparirci amichevoli? Non è sbagliato dire che caratterizzano il volto come amichevole? Infatti, se sosteniamo che hanno questo effetto “in alcune circostanze” (tali circostanze essendo gli altri elementi del viso), perché abbiamo isolato un unico tratto fra gli altri? La risposta è che nella grande famiglia delle facce amichevoli c’è quello che potremmo chiamare un ramo principale caratterizzato da un certo tipo di occhi, un altro da un certo tipo di bocca, ecc.; anche se nell’ampia famiglia di facce ostili ci imbattiamo in questi stessi occhi, quando essi non mitigano l’ostilità dell’espressione. – Bisogna inoltre considerare che, quando si nota l’espressione amichevole di un volto, la nostra attenzione, il nostro sguardo, si soffermano su un suo elemento specifico, cioè “gli occhi amichevoli” o “la bocca amichevole”, ecc., e non invece su altri tratti, sebbene anch’essi siano responsabili dell’espressione amichevole.
Per comprendere questa famiglia di casi ci sarà nuovamente d’aiuto considerare un caso analogo preso dall’ambito delle espressioni facciali. Esiste una famiglia di espressioni facciali amichevoli. Immagina che avessimo chiesto “qual è l’elemento che caratterizza un viso amichevole?”. All’inizio si potrebbe pensare che ci siano certi tratti che si potrebbero chiamare tratti amichevoli, ognuno dei quali conferisce al volto un certo grado di amichevolezza e che quando presenti in gran numero costituiscono l’espressione amichevole. Tale idea sembra confermata dal nostro linguaggio comune, in cui si parla di “occhi amichevoli”, “bocca amichevole”, ecc. È facile però vedere che gli stessi occhi di cui diciamo che fanno apparire un volto amichevole smettono di apparire amichevoli, anzi iniziano ad apparire ostili, se accompagnati da certe rughe sulla fronte, o da certe linee attorno alla bocca, ecc. Perché mai allora diciamo che sono questi occhi ad apparirci amichevoli? Non è sbagliato dire che caratterizzano il volto come amichevole? Infatti, se sosteniamo che hanno questo effetto “in alcune circostanze” (tali circostanze essendo gli altri elementi del viso), perché abbiamo isolato un unico tratto fra gli altri? La risposta è che nella grande famiglia delle facce amichevoli c’è quello che potremmo chiamare un ramo principale caratterizzato da un certo tipo di occhi, un altro da un certo tipo di bocca, ecc.; anche se nell’ampia famiglia di facce ostili ci imbattiamo in questi stessi occhi, quando essi non mitigano l’ostilità dell’espressione. – Bisogna inoltre considerare che, quando si nota l’espressione amichevole di un volto, la nostra attenzione, il nostro sguardo, si soffermano su un suo elemento specifico, cioè “gli occhi amichevoli” o “la bocca amichevole”, ecc., e non invece su altri tratti, sebbene anch’essi siano responsabili dell’espressione amichevole.


“Non c’è quindi differenza tra dire qualche cosa e intenderla davvero e dirla senza intenderla?” Non deve esserci per forza una differenza mentre lo si dice, e se c’è, tale differenza potrebbe essere sempre diversa a seconda delle circostanze. Dal fatto che ci sono ciò che chiamiamo un’espressione amichevole e un’espressione ostile dell’occhio non consegue che debba esserci una differenza tra l’occhio di una faccia amichevole e l’occhio di una faccia ostile.
“Non c’è quindi differenza tra dire qualche cosa e intenderla davvero e dirla senza intenderla?” Non deve esserci per forza una differenza mentre lo si dice, e se c’è, tale differenza potrebbe essere sempre diversa a seconda delle circostanze. Dal fatto che ci sono ciò che chiamiamo un’espressione amichevole e un’espressione ostile dell’occhio non consegue che debba esserci una differenza tra l’occhio di una faccia amichevole e l’occhio di una faccia ostile.
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Impieghiamo le parole “significare”, “credere”, “intendere” in modo tale per cui si riferiscono a certi atti o stati mentali in circostanze determinate; come con l’espressione “dare scacco matto a qualcuno” ci riferiamo all’atto di mangiare il suo re. Se però qualcuno, per esempio un bambino che a cincischia con i pezzi degli scacchi, ne mettesse alcuni sulla scacchiera e compisse il gesto di mangiare il re, non diremmo che ha dato scacco matto a qualcuno. Anche qui si potrebbe pensare che ciò che distingue questo caso da un vero scacco matto è quanto ha avuto luogo nella mente del bambino.
Impieghiamo le parole “significare”, “credere”, “intendere” in modo tale per cui si riferiscono a certi atti o stati mentali in circostanze determinate; come con l’espressione “dare scacco matto a qualcuno” ci riferiamo all’atto di mangiare il suo re. Se però qualcuno, per esempio un bambino che a cincischia con i pezzi degli scacchi, ne mettesse alcuni sulla scacchiera e compisse il gesto di mangiare il re, non diremmo che ha dato scacco matto a qualcuno. Anche qui si potrebbe pensare che ciò che distingue questo caso da un vero scacco matto è quanto ha avuto luogo nella mente del bambino.


Immagina che io abbia compiuto una mossa a scacchi e mi si chieda “intendevi dargli scacco matto?” Rispondo “sì” e allora mi domandano “come facevi a saperlo, se tutto ciò che ''sapevi'' era quel che accadeva dentro di te mentre facevi la mossa?” Io potrei rispondere “in ''queste'' circostanze ciò equivaleva all’intenzione di dargli scacco matto”.
Immagina che io abbia compiuto una mossa a scacchi e mi si chieda “intendevi dargli scacco matto?”. Rispondo “sì” e allora mi domandano “come facevi a saperlo, se tutto ciò che ''sapevi'' era quel che accadeva dentro di te mentre facevi la mossa?”. Io potrei rispondere “in ''queste'' circostanze ciò equivaleva all’intenzione di dargli scacco matto”.


Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non fossero la coppia di verbi “parlare” : : “pensare” e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.
Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non fossero la coppia di verbi “parlare” : : “pensare” e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.
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D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: egli pondera “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto di volizione. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto del genere? Penso che il prototipo dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a dire diversamente; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di certe azioni riflesse. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso della mano che sfiora l’intonaco, e se mantenendo l’arto rigido premo il dorso della mano contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano in fretta dalla parete lasciando il braccio molle, il braccio, senza alcuna azione da parte mia, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di caso in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.
D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: egli pondera “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto di volizione. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto del genere? Penso che il prototipo dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a dire diversamente; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di certe azioni riflesse. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso della mano che sfiora l’intonaco, e se mantenendo l’arto rigido premo il dorso della mano contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano in fretta dalla parete lasciando il braccio molle, il braccio, senza alcuna azione da parte mia, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di caso in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.


Qui di nuovo è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso in cui ritrovo me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa; inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira nel letto, magari dicendomi “si sta per alzare?” Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del mio braccio c’è un’unica differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”.
Qui di nuovo è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso in cui ritrovo me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa; inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira nel letto, magari dicendomi “si sta per alzare?”. Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del mio braccio c’è un’unica differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”.


La descrizione di un risveglio in cui si dice “mi sono semplicemente ritrovato ad alzarmi dal letto” suggerisce che il soggetto voglia dire di essersi ''osservato'' intento ad alzarsi. E senza dubbio si può dire che un atteggiamento di osservazione è in questo caso assente. Però di nuovo l’atteggiamento di osservazione non è uno stato mentale o di altra natura di carattere continuo in cui noi ci troviamo per tutto il tempo in cui, come diremmo, siamo intenti a osservare. C’è piuttosto una famiglia di insiemi di attività ed esperienze che noi chiamiamo atteggiamenti di osservazione. Si potrebbe dire all’incirca che ci sono elementi di osservazione della curiosità, dell’aspettativa, della sorpresa e anche, diremmo, espressioni facciali e gesti della curiosità, dell’aspettativa e della sorpresa; e se sei d’accordo che per ognuno di tali casi c’è più di un’espressione facciale caratteristica e che possono esserci casi privi di un’espressione facciale caratteristica, ammetterai che a ciascuna delle tre parole corrisponde una ''famiglia'' di fenomeni.
La descrizione di un risveglio in cui si dice “mi sono semplicemente ritrovato ad alzarmi dal letto” suggerisce che il soggetto voglia dire di essersi ''osservato'' intento ad alzarsi. E senza dubbio si può dire che un atteggiamento di osservazione è in questo caso assente. Però di nuovo l’atteggiamento di osservazione non è uno stato mentale o di altra natura di carattere continuo in cui noi ci troviamo per tutto il tempo in cui, come diremmo, siamo intenti a osservare. C’è piuttosto una famiglia di insiemi di attività ed esperienze che noi chiamiamo atteggiamenti di osservazione. Si potrebbe dire all’incirca che ci sono elementi di osservazione della curiosità, dell’aspettativa, della sorpresa e anche, diremmo, espressioni facciali e gesti della curiosità, dell’aspettativa e della sorpresa; e se sei d’accordo che per ognuno di tali casi c’è più di un’espressione facciale caratteristica e che possono esserci casi privi di un’espressione facciale caratteristica, ammetterai che a ciascuna delle tre parole corrisponde una ''famiglia'' di fenomeni.
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L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.
L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.


Potremmo domandare “hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?” – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.
Potremmo domandare “hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.


“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere.
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere.
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Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso”, “sono quello che sono”, “le cose sono quelle che sono”, oppure “se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “la cosa è risolta” con “se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “la cosa è risolta” dirò “la questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “se è così è così” è sottolineare il “così”.
Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso”, “sono quello che sono”, “le cose sono quelle che sono”, oppure “se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “la cosa è risolta” con “se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “la cosa è risolta” dirò “la questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “se è così è così” è sottolineare il “così”.


Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!” Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di commentare delle alternative, come quando diciamo “o piove o non piove; se piove staremo nella mia stanza, se non piove…”. La prima parte della frase non contiene informazioni (proprio come “prendere o lasciare” non è un ordine). Invece di “o piove o non piove” avremmo potuto dire “considera i due casi…”. La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione.
Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!”. Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di commentare delle alternative, come quando diciamo “o piove o non piove; se piove staremo nella mia stanza, se non piove…”. La prima parte della frase non contiene informazioni (proprio come “prendere o lasciare” non è un ordine). Invece di “o piove o non piove” avremmo potuto dire “considera i due casi…”. La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione.


A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) si è tentati di adoperare l’espressione “''naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…”. Raddrizzandola otterremo: “sia il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato…”. Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sull’estremità superiore della gamma dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.
A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) si è tentati di adoperare l’espressione “''naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…”. Raddrizzandola otterremo: “sia il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato…”. Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sull’estremità superiore della gamma dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.
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Sono tentato di dire “questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare”. – Ma non posso dire “vedo ''questo'' come ''questo'' volto”; dovrei dire “vedo questo come ''un'' volto”. Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come ''un'' volto, lo vedo come ''questo'' volto!”. Ma nella seconda metà di questa frase la parola “volto” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come un volto, lo vedo ''così''”.
Sono tentato di dire “questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare”. – Ma non posso dire “vedo ''questo'' come ''questo'' volto”; dovrei dire “vedo questo come ''un'' volto”. Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come ''un'' volto, lo vedo come ''questo'' volto!”. Ma nella seconda metà di questa frase la parola “volto” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come un volto, lo vedo ''così''”.


Immagina che io dica “questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così''”, vedo il volto – questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi appare così, poi mi appare diversamente” e qui il “così” e il “diversamente” sarebbero accompagnati dai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco è usata questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi la sto dicendo? Supponi che la risposta sia “a me stesso”. Ciò però non è sufficiente. Qui si corre il grave pericolo di credere di sapere cosa farsene di una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’uso, per esempio, delle parole “così” e “diversamente?” – oppure: quali sono i diversi usi che ne facciamo? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che è loro agganciato indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi un utilizzo della parola “questo” è quello accompagnato dal gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali così”, indicando la svastica. E a proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare diversamente [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]”. E questo di certo non è l’uso che abbiamo fatto della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso possiamo chiamare immagini delle raffigurazioni mentali, perché da certi punti di vista sono paragonabili a immagini disegnate o dipinte e da altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali nell’uso di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto che ha ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze diremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; e diciamo che non è cambiata perché è stata tenuta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” è usata in modi diversi a seconda che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con uno strumento, e un’altra grammatica se sono invece ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedere: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, come gli stessi che mi si erano dati in occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per occasioni future? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”
Immagina che io dica “questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così''”, vedo il volto – questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi appare così, poi mi appare diversamente” e qui il “così” e il “diversamente” sarebbero accompagnati dai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco è usata questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi la sto dicendo? Supponi che la risposta sia “a me stesso”. Ciò però non è sufficiente. Qui si corre il grave pericolo di credere di sapere cosa farsene di una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’uso, per esempio, delle parole “così” e “diversamente?”. – oppure: quali sono i diversi usi che ne facciamo? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che è loro agganciato indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi un utilizzo della parola “questo” è quello accompagnato dal gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali così”, indicando la svastica. E a proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare diversamente [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]”. E questo di certo non è l’uso che abbiamo fatto della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso possiamo chiamare immagini delle raffigurazioni mentali, perché da certi punti di vista sono paragonabili a immagini disegnate o dipinte e da altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali nell’uso di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto che ha ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze diremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; e diciamo che non è cambiata perché è stata tenuta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” è usata in modi diversi a seconda che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con uno strumento, e un’altra grammatica se sono invece ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedere: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, come gli stessi che mi si erano dati in occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per occasioni future? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”


Il pericolo dell’illusione a cui siamo soggetti diventa del tutto evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “così” e “diversamente” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che dare un nome a qualcosa consista nel correlare in un modo peculiare e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con quel qualcosa. Come facciamo uso di tale peculiare correlazione sembra quasi una questione secondaria. (Si potrebbe quasi immaginare che dare un nome a una cosa comporti uno specifico atto sacramentale e che questo generi una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
Il pericolo dell’illusione a cui siamo soggetti diventa del tutto evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “così” e “diversamente” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che dare un nome a qualcosa consista nel correlare in un modo peculiare e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con quel qualcosa. Come facciamo uso di tale peculiare correlazione sembra quasi una questione secondaria. (Si potrebbe quasi immaginare che dare un nome a una cosa comporti uno specifico atto sacramentale e che questo generi una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
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Considera questo esempio: quale è la differenza tra un’immagine mnemonica, un’immagine che si accompagna a un’aspettativa e, poniamo, l’immagine di una fantasticheria? Potresti essere portato a rispondere “tra queste immagini c’è una differenza intrinseca”. – Hai notato tale differenza o hai affermato che esiste solo perché hai pensato che dovesse esserci?
Considera questo esempio: quale è la differenza tra un’immagine mnemonica, un’immagine che si accompagna a un’aspettativa e, poniamo, l’immagine di una fantasticheria? Potresti essere portato a rispondere “tra queste immagini c’è una differenza intrinseca”. – Hai notato tale differenza o hai affermato che esiste solo perché hai pensato che dovesse esserci?


“Di certo però riconosco un’immagine mnemonica in quanto immagine mnemonica, l’immagine di una fantasticheria in quanto immagine di una fantasticheria, ecc.” – Rammenta che a volte non sei sicuro se hai davvero visto accadere un certo evento, o l’hai sognato, o ne hai soltanto sentito parlare e l’hai immaginato in maniera vivida. Detto ciò, cosa intendi con “riconoscere un’immagine in quanto immagine mnemonica?Concordo che (perlomeno nella maggioranza dei casi), mentre un’immagine si trova davanti all’occhio della tua mente, tu non sei in dubbio se si tratti di un’immagine mnemonica, ecc. Inoltre, alla domanda se l’immagine in questione è un’immagine mnemonica, tu (nella maggioranza dei casi) risponderesti senza esitare. E se invece ti chiedessi “''quand’è'' che sai di che tipo di immagine si tratta?”? Ciò che chiami sapere di che tipo di immagine si tratta consiste nel non essere in dubbio, nel non doverti interrogare in proposito? L’introspezione ti mostra uno stato o un atto mentale che chiameresti sapere che l’immagine è un’immagine mnemonica e che ha luogo quando l’immagine ti è presente alla mente? – E poi, se rispondi alla domanda in merito a che tipo di immagine hai avuto, lo fai, per così dire, guardando l’immagine e scoprendo in essa una certa caratteristica? (Come se ti avessero chiesto chi ha dipinto un certo quadro e tu guardandolo e riconoscendone lo stile avessi detto che è un Rembrandt.)
“Di certo però riconosco un’immagine mnemonica in quanto immagine mnemonica, l’immagine di una fantasticheria in quanto immagine di una fantasticheria, ecc.” – Rammenta che a volte non sei sicuro se hai davvero visto accadere un certo evento, o l’hai sognato, o ne hai soltanto sentito parlare e l’hai immaginato in maniera vivida. Detto ciò, cosa intendi con “riconoscere un’immagine in quanto immagine mnemonica”? Concordo che (perlomeno nella maggioranza dei casi), mentre un’immagine si trova davanti all’occhio della tua mente, tu non sei in dubbio se si tratti di un’immagine mnemonica, ecc. Inoltre, alla domanda se l’immagine in questione è un’immagine mnemonica, tu (nella maggioranza dei casi) risponderesti senza esitare. E se invece ti chiedessi “''quand’è'' che sai di che tipo di immagine si tratta?”? Ciò che chiami sapere di che tipo di immagine si tratta consiste nel non essere in dubbio, nel non doverti interrogare in proposito? L’introspezione ti mostra uno stato o un atto mentale che chiameresti sapere che l’immagine è un’immagine mnemonica e che ha luogo quando l’immagine ti è presente alla mente? – E poi, se rispondi alla domanda in merito a che tipo di immagine hai avuto, lo fai, per così dire, guardando l’immagine e scoprendo in essa una certa caratteristica? (Come se ti avessero chiesto chi ha dipinto un certo quadro e tu guardandolo e riconoscendone lo stile avessi detto che è un Rembrandt.)


È facile d’altro canto indicare le esperienze caratteristiche del ricordare, aspettarsi, ecc. che accompagnano le immagini, e altre differenze nei dintorni più prossimi o remoti di tali esperienze. Dunque noi certamente ''diciamo'' cose diverse nei diversi casi, per esempio “mi ricordo che è stato nella mia stanza”, “mi aspetto che venga nella mia stanza”, “immagino che arrivi nella mia stanza”. – “Di sicuro però la differenza non può essere tutta qui!” Non è tutta qui: ci sono i tre diversi giochi giocati con queste tre parole che circondano queste affermazioni.
È facile d’altro canto indicare le esperienze caratteristiche del ricordare, aspettarsi, ecc. che accompagnano le immagini, e altre differenze nei dintorni più prossimi o remoti di tali esperienze. Dunque noi certamente ''diciamo'' cose diverse nei diversi casi, per esempio “mi ricordo che è stato nella mia stanza”, “mi aspetto che venga nella mia stanza”, “immagino che arrivi nella mia stanza”. – “Di sicuro però la differenza non può essere tutta qui!” Non è tutta qui: ci sono i tre diversi giochi giocati con queste tre parole che circondano queste affermazioni.
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Se messi alle strette, ''capiamo'' la parola “ricordare”, ecc.? Tra questi casi c’è davvero una differenza oltre a quella meramente verbale, oltre al fatto che i nostri pensieri si muovono nelle immediate vicinanze dell’immagine che abbiamo avuto o dell’espressione che abbiamo usato? Ho un’immagine di una cena in Sala con T. Se mi si chiede se è un’immagine mnemonica, dico “ma certo” e i miei pensieri cominciano a muoversi su sentieri che da tale immagine si dipartono. Ricordo chi era seduto accanto a noi, su cosa verteva la conversazione, ciò che pensavo io in merito, cosa è successo in seguito a T., ecc. ecc.
Se messi alle strette, ''capiamo'' la parola “ricordare”, ecc.? Tra questi casi c’è davvero una differenza oltre a quella meramente verbale, oltre al fatto che i nostri pensieri si muovono nelle immediate vicinanze dell’immagine che abbiamo avuto o dell’espressione che abbiamo usato? Ho un’immagine di una cena in Sala con T. Se mi si chiede se è un’immagine mnemonica, dico “ma certo” e i miei pensieri cominciano a muoversi su sentieri che da tale immagine si dipartono. Ricordo chi era seduto accanto a noi, su cosa verteva la conversazione, ciò che pensavo io in merito, cosa è successo in seguito a T., ecc. ecc.


Immagina due giochi diversi, entrambi giocati con i pezzi degli scacchi su una scacchiera. Nei due giochi le posizioni iniziali sono identiche. Uno dei giochi si gioca sempre con pezzi rossi e verdi, l’altro con pezzi bianchi e neri. Due persone cominciano a giocare, tra di loro sta la scacchiera con i pezzi rossi e verdi schierati. Qualcuno chiede loro “sapete quale gioco intendete giocare?” Uno risponde “ma certo, giochiamo al gioco numero 2”. “Qual è allora la differenza tra giocare al numero 2 e al numero 1?” – “Be’, sulla scacchiera ci sono i pezzi rossi e verdi, non quelli bianchi e neri, inoltre diciamo di giocare al numero 2”. – “Questa però non può essere l’unica differenza; non ''capisci'' cosa significa ‘numero 2’ e per quale gioco stanno le pedine rosse e verdi?” Qui siamo propensi a rispondere “certo che lo capisco” e per provarlo a noi stessi cominciamo proprio a muovere i pezzi secondo le regole del gioco numero 2. Questo è ciò che chiamerei muoversi nelle immediate vicinanze della nostra posizione iniziale.
Immagina due giochi diversi, entrambi giocati con i pezzi degli scacchi su una scacchiera. Nei due giochi le posizioni iniziali sono identiche. Uno dei giochi si gioca sempre con pezzi rossi e verdi, l’altro con pezzi bianchi e neri. Due persone cominciano a giocare, tra di loro sta la scacchiera con i pezzi rossi e verdi schierati. Qualcuno chiede loro “sapete quale gioco intendete giocare?”. Uno risponde “ma certo, giochiamo al gioco numero 2”. “Qual è allora la differenza tra giocare al numero 2 e al numero 1?” – “Be’, sulla scacchiera ci sono i pezzi rossi e verdi, non quelli bianchi e neri, inoltre diciamo di giocare al numero 2”. – “Questa però non può essere l’unica differenza; non ''capisci'' cosa significa ‘numero 2’ e per quale gioco stanno le pedine rosse e verdi?” Qui siamo propensi a rispondere “certo che lo capisco” e per provarlo a noi stessi cominciamo proprio a muovere i pezzi secondo le regole del gioco numero 2. Questo è ciò che chiamerei muoversi nelle immediate vicinanze della nostra posizione iniziale.


Non c’è però anche una sensazione peculiare di passato a caratterizzare le immagini in quanto immagini mnemoniche? Certamente ci sono esperienze che sarei portato a chiamare sensazioni di passato, anche se non sempre, quando ricordo qualcosa, è presente una di queste sensazioni. – Per gettare luce sulla natura di tali sensazioni è di nuovo utilissimo rammentare che ci sono gesti di passato e intonazioni di passato di cui possiamo pensare che rappresentano le esperienze di passato (Aristotele).
Non c’è però anche una sensazione peculiare di passato a caratterizzare le immagini in quanto immagini mnemoniche? Certamente ci sono esperienze che sarei portato a chiamare sensazioni di passato, anche se non sempre, quando ricordo qualcosa, è presente una di queste sensazioni. – Per gettare luce sulla natura di tali sensazioni è di nuovo utilissimo rammentare che ci sono gesti di passato e intonazioni di passato di cui possiamo pensare che rappresentano le esperienze di passato (Aristotele).