Libro marrone: Difference between revisions

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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=32}} Una tribù ha due sistemi per contare. La gente ha imparato a contare con l’alfabeto dalla A alla Z e anche, come in 30), con il sistema decimale. Se un uomo si accinge a contare oggetti con il primo sistema, gli si ordina di contare “''nella maniera chiusa''”, nel secondo caso invece “''nella maniera aperta'';la tribù si serve dei termini “aperta” e “chiusa” anche in riferimento a una porta chiusa e aperta.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=32}} Una tribù ha due sistemi per contare. La gente ha imparato a contare con l’alfabeto dalla A alla Z e anche, come in 30), con il sistema decimale. Se un uomo si accinge a contare oggetti con il primo sistema, gli si ordina di contare “''nella maniera chiusa''”, nel secondo caso invece “''nella maniera aperta''; la tribù si serve dei termini “aperta” e “chiusa” anche in riferimento a una porta chiusa e aperta.


(Osservazione: 23 è limitata in modo ovvio dal mazzo di carte. 24): nota l’analogia e la mancanza di analogia tra il ''rifornimento limitato'' di carte in 23) e le parole nella nostra memoria in 24). Osserva che in 26) la limitazione da un lato risiede nello ''strumento'' (il pallottoliere con venti palline) e nel suo utilizzo all’interno del gioco e dall’altro lato (in maniera completamente diversa) nel fatto che nella pratica concreta del gioco non dovranno mai essere contati più di venti oggetti. In 27) quest’ultimo tipo di limitazione era assente, ma la sfera più grossa fungeva come da sottolineatura della limitatezza dei nostri mezzi. 28) è un gioco limitato o illimitato? La pratica che abbiamo descritto fornisce il limite 40. Siamo propensi a dire che tale gioco “contiene in sé” la possibilità di continuare indefinitamente, ma ricorda che abbiamo anche costruito i giochi precedenti come degli inizi di sistemi. In 29) l’aspetto sistematico dei numerali impiegati è perfino più evidente che in 28). Se non fosse che i numerali fino a 20 vanno appresi a memoria, si potrebbe dire che gli strumenti di suddetto gioco non pongono alcuna limitazione. Ciò suggerisce l’idea che al bambino non si insegni a “''capire''” il sistema che scorgiamo nella notazione decimale. Dei membri della tribù di 30) si dovrebbe certamente dire che sono addestrati a costruire numerali indefinitamente, che l’aritmetica del loro linguaggio non è finita, che le loro serie di numeri non hanno termine. (È solo nei casi in cui i numeri sono costruiti “indefinitamente” che diciamo che le persone hanno serie infinite di numeri.) 31) potrebbe mostrarci che si può immaginare una gran quantità di casi in cui saremmo portati a dire che, nonostante il fatto che l’addestramento per i numerali a cui si sottopongono i bambini indica l’assenza di un limite superiore, l’aritmetica della tribù si rapporta a serie finite di numeri. In 32) i termini “chiusa” e “aperta” (che con una lieve variazione dell’esempio potrebbero trasformarsi in “limitato” e “illimitato”) sono inseriti nel linguaggio della tribù stessa. Se lo si introduce in un tale gioco semplice e chiaramente circoscritto, non c’è naturalmente nulla di misterioso nell’uso della parola “aperta”. Ma la parola in questione corrisponde al nostro “infinita” e i giochi per cui la adoperiamo differiscono da 31) solo in quanto estremamente più complicati. Cioè il nostro impiego del termine “infinita” è ''trasparente'' come l’utilizzo di “aperta” in 32) e la nostra idea che il suo significato sia trascendente si fonda su un’incomprensione.)
(Osservazione: 23 è limitata in modo ovvio dal mazzo di carte. 24): nota l’analogia e la mancanza di analogia tra il ''rifornimento limitato'' di carte in 23) e le parole nella nostra memoria in 24). Osserva che in 26) la limitazione da un lato risiede nello ''strumento'' (il pallottoliere con venti palline) e nel suo utilizzo all’interno del gioco e dall’altro lato (in maniera completamente diversa) nel fatto che nella pratica concreta del gioco non dovranno mai essere contati più di venti oggetti. In 27) quest’ultimo tipo di limitazione era assente, ma la sfera più grossa fungeva come da sottolineatura della limitatezza dei nostri mezzi. 28) è un gioco limitato o illimitato? La pratica che abbiamo descritto fornisce il limite 40. Siamo propensi a dire che tale gioco “contiene in sé” la possibilità di continuare indefinitamente, ma ricorda che abbiamo anche costruito i giochi precedenti come degli inizi di sistemi. In 29) l’aspetto sistematico dei numerali impiegati è perfino più evidente che in 28). Se non fosse che i numerali fino a 20 vanno appresi a memoria, si potrebbe dire che gli strumenti di suddetto gioco non pongono alcuna limitazione. Ciò suggerisce l’idea che al bambino non si insegni a “''capire''” il sistema che scorgiamo nella notazione decimale. Dei membri della tribù di 30) si dovrebbe certamente dire che sono addestrati a costruire numerali indefinitamente, che l’aritmetica del loro linguaggio non è finita, che le loro serie di numeri non hanno termine. (È solo nei casi in cui i numeri sono costruiti “indefinitamente” che diciamo che le persone hanno serie infinite di numeri.) 31) potrebbe mostrarci che si può immaginare una gran quantità di casi in cui saremmo portati a dire che, nonostante il fatto che l’addestramento per i numerali a cui si sottopongono i bambini indica l’assenza di un limite superiore, l’aritmetica della tribù si rapporta a serie finite di numeri. In 32) i termini “chiusa” e “aperta” (che con una lieve variazione dell’esempio potrebbero trasformarsi in “limitato” e “illimitato”) sono inseriti nel linguaggio della tribù stessa. Se lo si introduce in un tale gioco semplice e chiaramente circoscritto, non c’è naturalmente nulla di misterioso nell’uso della parola “aperta”. Ma la parola in questione corrisponde al nostro “infinita” e i giochi per cui la adoperiamo differiscono da 31) solo in quanto estremamente più complicati. Cioè il nostro impiego del termine “infinita” è ''trasparente'' come l’utilizzo di “aperta” in 32) e la nostra idea che il suo significato sia trascendente si fonda su un’incomprensione.)
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Qui mi pare che si debba affermare che la tabella, la regola, ''fa parte'' dell’ordine.
Qui mi pare che si debba affermare che la tabella, la regola, ''fa parte'' dell’ordine.


Attenzione, non stiamo dicendo “''che cos’è una regola''”, ma solo elencando diverse applicazioni della parola “regola;di certo ciò consiste nel fornire applicazioni della formula “espressione di una regola”.
Attenzione, non stiamo dicendo “''che cos’è una regola''”, ma solo elencando diverse applicazioni della parola “regola”; di certo ciò consiste nel fornire applicazioni della formula “espressione di una regola”.


Nota anche che in 41), in cui pure si ''potrebbe'' distinguere tra la frase e la tabella, non c’è un’obiezione rigida che, data la frase, ci impedisca di chiamare il simbolo intero. Ciò che qui ci tenta particolarmente a formulare una simile distinzione è la scrittura lineare della parte fuori dalla tabella. Seppure per certi versi bisognerebbe considerare meramente esterno e inessenziale il carattere lineare della frase, tale elemento e altri analoghi giocano un ruolo in ciò che in quanto logici siamo portati a dire su frasi e proposizioni. E quindi concepire il simbolo di 41) come un’unità ci aiuterebbe a comprendere quale aspetto ''può'' avere una frase.
Nota anche che in 41), in cui pure si ''potrebbe'' distinguere tra la frase e la tabella, non c’è un’obiezione rigida che, data la frase, ci impedisca di chiamare il simbolo intero. Ciò che qui ci tenta particolarmente a formulare una simile distinzione è la scrittura lineare della parte fuori dalla tabella. Seppure per certi versi bisognerebbe considerare meramente esterno e inessenziale il carattere lineare della frase, tale elemento e altri analoghi giocano un ruolo in ciò che in quanto logici siamo portati a dire su frasi e proposizioni. E quindi concepire il simbolo di 41) come un’unità ci aiuterebbe a comprendere quale aspetto ''può'' avere una frase.
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Qui si annida una delle fonti più fertili di perplessità filosofica: parliamo dell’evento futuro di qualcosa che entra nella mia stanza e anche dell’avvento futuro di tale evento.
Qui si annida una delle fonti più fertili di perplessità filosofica: parliamo dell’evento futuro di qualcosa che entra nella mia stanza e anche dell’avvento futuro di tale evento.


Diciamo “la tal cosa accadrà” e anche “la tal cosa mi viene incontro;con “la tal cosa” ci riferiamo al tronco, ma anche al fatto che mi viene incontro.
Diciamo “la tal cosa accadrà” e anche “la tal cosa mi viene incontro”; con “la tal cosa” ci riferiamo al tronco, ma anche al fatto che mi viene incontro.


Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come “dove va la fiamma della candela spenta con un soffio?”, “dove va la luce?”, “dove va il passato?” Ci siamo lasciati ossessionare dal nostro simbolismo. Si può dire che a condurci nella perplessità è un’analogia che ci trascina inesorabilmente. – Questo accade anche quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. Nel nostro esempio 55) sembra che la funzione di “adesso” non sia affatto paragonabile alla funzione di un’espressione come “le cinque in punto”, “mezzogiorno”, “il momento in cui il sole tramonta”, etc. Le espressioni appartenenti a quest’ultimo gruppo le chiamerei “determinazioni di tempo” o “specificazioni di tempo”. Il nostro linguaggio ordinario però si serve della parola “adesso” e delle determinazioni di tempo in contesti simili. Diciamo infatti “il sole tramonta adesso”, “il sole tramonta alle sei”. Siamo propensi a dire che sia “adesso” sia “alle sei” “si riferiscono a punti del tempo”. Tale impiego delle parole produce una perplessità esprimibile con la domanda “che cos’è tale ‘adesso’… perché è un momento del tempo, eppure non si può dire che sia né ‘il momento in cui parlo’ né ‘il momento in cui batte l’orologio,etc. etc.”. - - La nostra risposta è: la funzione della parola “adesso” è completamente diversa da quella di una specificazione di tempo. – Ce ne si accorge facilmente se si osserva il ruolo svolto da suddetta parola nel nostro uso linguistico, eppure tale aspetto resta oscuro quando, invece di guardare ''al gioco linguistico nel suo'' ''complesso'', ci concentriamo sui contesti e le combinazioni linguistiche in cui si impiega tale parola. (La parola “oggi” non è una data, ma non è nemmeno alcunché di paragonabile a una data. Non differisce da una data come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo; sicuramente potremmo dire che c’è una qualche connessione sia tra un martello e un mazzuolo sia tra un martello e un chiodo).
Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come “dove va la fiamma della candela spenta con un soffio?”, “dove va la luce?”, “dove va il passato?” Ci siamo lasciati ossessionare dal nostro simbolismo. Si può dire che a condurci nella perplessità è un’analogia che ci trascina inesorabilmente. – Questo accade anche quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. Nel nostro esempio 55) sembra che la funzione di “adesso” non sia affatto paragonabile alla funzione di un’espressione come “le cinque in punto”, “mezzogiorno”, “il momento in cui il sole tramonta”, etc. Le espressioni appartenenti a quest’ultimo gruppo le chiamerei “determinazioni di tempo” o “specificazioni di tempo”. Il nostro linguaggio ordinario però si serve della parola “adesso” e delle determinazioni di tempo in contesti simili. Diciamo infatti “il sole tramonta adesso”, “il sole tramonta alle sei”. Siamo propensi a dire che sia “adesso” sia “alle sei” “si riferiscono a punti del tempo”. Tale impiego delle parole produce una perplessità esprimibile con la domanda “che cos’è tale ‘adesso’… perché è un momento del tempo, eppure non si può dire che sia né ‘il momento in cui parlo’ né ‘il momento in cui batte l’orologio’, etc. etc.”. - - La nostra risposta è: la funzione della parola “adesso” è completamente diversa da quella di una specificazione di tempo. – Ce ne si accorge facilmente se si osserva il ruolo svolto da suddetta parola nel nostro uso linguistico, eppure tale aspetto resta oscuro quando, invece di guardare ''al gioco linguistico nel suo'' ''complesso'', ci concentriamo sui contesti e le combinazioni linguistiche in cui si impiega tale parola. (La parola “oggi” non è una data, ma non è nemmeno alcunché di paragonabile a una data. Non differisce da una data come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo; sicuramente potremmo dire che c’è una qualche connessione sia tra un martello e un mazzuolo sia tra un martello e un chiodo).


Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di una località, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio… mi riferisco ai ''giochi'' svolti con tali parole, non alle espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo “questo è piccolo” e “Jack è piccolo;ricorda però che, senza il gesto d’indicare e la cosa che stiamo indicando, “questo è piccolo” non significherebbe niente. – Ciò che si può paragonare a un nome non è la parola “questo” ma, per così dire, il simbolo in cui tale parola consiste, il gesto, il campione. Diremmo: niente è più tipico di un nome proprio A del nostro poterlo utilizzare in espressioni quali: “questo è A;invece non ha senso dire “questo è questo” o “adesso è adesso” o “qui è qui”.
Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di una località, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio… mi riferisco ai ''giochi'' svolti con tali parole, non alle espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo “questo è piccolo” e “Jack è piccolo”; ricorda però che, senza il gesto d’indicare e la cosa che stiamo indicando, “questo è piccolo” non significherebbe niente. – Ciò che si può paragonare a un nome non è la parola “questo” ma, per così dire, il simbolo in cui tale parola consiste, il gesto, il campione. Diremmo: niente è più tipico di un nome proprio A del nostro poterlo utilizzare in espressioni quali: “questo è A”; invece non ha senso dire “questo è questo” o “adesso è adesso” o “qui è qui”.


L’idea di una proposizione che dica qualcosa su ciò che accadrà in futuro è ancora più foriera di perplessità dell’idea di una proposizione sul passato. Per paragonare eventi futuri a eventi passati, si potrebbe quasi arrivare a dire che, sebbene gli eventi passati non esistano davvero nella piena luce del giorno, pure ristanno in un qualche aldilà in cui sono trapassati uscendo dal mondo reale, d’altro canto agli eventi futuri non pertiene nemmeno una simile vita umbratile. Certamente si potrebbe immaginare un reame di accadimenti non ancora nati e futuri, da cui poi questi eventi giungerebbero nella realtà per poi finire nel reame del passato; noi, per rimanere all’interno di questa metafora, potremmo rimanere sorpresi di come il futuro sembri meno tangibile del passato. Ricorda tuttavia che la grammatica delle nostre espressioni temporali è asimmetrica rispetto all’origine che corrisponde al momento presente. Quindi la grammatica delle espressioni legate alla memoria non riappare “di segno opposto” nella grammatica temporale del futuro. Dunque nella grammatica del futuro non c’è nulla che corrisponda alla grammatica della parola “memoria”. Questa è la ragione per cui si è detto che le proposizioni su eventi futuri non sono davvero delle proposizioni. Tale giudizio regge a patto però di non considerarlo altro che una decisione in merito all’utilizzo del termine “proposizione;una decisione che, seppure discordante dall’uso comune della parola “proposizione”, in determinate circostanze può venire spontanea a degli esseri umani. Se un filosofo dice che le proposizioni sul futuro non sono vere proposizioni, è perché è rimasto colpito dall’asimmetria nella grammatica delle espressioni temporali. Il pericolo comunque è che immagini di aver fatto un’asserzione scientifica “sulla natura del futuro”.
L’idea di una proposizione che dica qualcosa su ciò che accadrà in futuro è ancora più foriera di perplessità dell’idea di una proposizione sul passato. Per paragonare eventi futuri a eventi passati, si potrebbe quasi arrivare a dire che, sebbene gli eventi passati non esistano davvero nella piena luce del giorno, pure ristanno in un qualche aldilà in cui sono trapassati uscendo dal mondo reale, d’altro canto agli eventi futuri non pertiene nemmeno una simile vita umbratile. Certamente si potrebbe immaginare un reame di accadimenti non ancora nati e futuri, da cui poi questi eventi giungerebbero nella realtà per poi finire nel reame del passato; noi, per rimanere all’interno di questa metafora, potremmo rimanere sorpresi di come il futuro sembri meno tangibile del passato. Ricorda tuttavia che la grammatica delle nostre espressioni temporali è asimmetrica rispetto all’origine che corrisponde al momento presente. Quindi la grammatica delle espressioni legate alla memoria non riappare “di segno opposto” nella grammatica temporale del futuro. Dunque nella grammatica del futuro non c’è nulla che corrisponda alla grammatica della parola “memoria”. Questa è la ragione per cui si è detto che le proposizioni su eventi futuri non sono davvero delle proposizioni. Tale giudizio regge a patto però di non considerarlo altro che una decisione in merito all’utilizzo del termine “proposizione”; una decisione che, seppure discordante dall’uso comune della parola “proposizione”, in determinate circostanze può venire spontanea a degli esseri umani. Se un filosofo dice che le proposizioni sul futuro non sono vere proposizioni, è perché è rimasto colpito dall’asimmetria nella grammatica delle espressioni temporali. Il pericolo comunque è che immagini di aver fatto un’asserzione scientifica “sulla natura del futuro”.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo,stringendo questo peso la mia mano salirà”. Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo’, stringendo questo peso la mia mano salirà”. Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.


È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), etc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… etc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), etc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… etc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=63}} Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e di idee pigre fluttuanti nella mente, si è detto tra sé “li mette al quadrato e poi aggiunge sempre una cifra in più;poi ha pensato al numero successivo della sequenza e ha scoperto che concordava con le cifre che andava annotando A. –
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=63}} Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e di idee pigre fluttuanti nella mente, si è detto tra sé “li mette al quadrato e poi aggiunge sempre una cifra in più”; poi ha pensato al numero successivo della sequenza e ha scoperto che concordava con le cifre che andava annotando A. –




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Adesso prestiamo attenzione a come ci serviamo della parola “tentare:” ''a'') un uomo tenta di aprire la porta tirandola più forte che può. ''b'') Tenta di aprire l’anta di una cassaforte tentando di indovinarne la combinazione. ''c'') Tenta di trovare la combinazione tentando di ricordarsela, oppure ''d'') girando la manopola e auscultando con uno stetoscopio. Confronta i vari processi che chiamiamo “tentare di ricordare”. Paragona ''e'') tentare di muovere il dito contro una resistenza (per esempio qualcuno che lo trattiene) e <span id="p-62"></span>''f'') quando hai intrecciato le mani in un modo particolare e hai l’impressione di “non sapere cosa fare per muovere il dito in un determinato modo”.
Adesso prestiamo attenzione a come ci serviamo della parola “tentare:” ''a'') un uomo tenta di aprire la porta tirandola più forte che può. ''b'') Tenta di aprire l’anta di una cassaforte tentando di indovinarne la combinazione. ''c'') Tenta di trovare la combinazione tentando di ricordarsela, oppure ''d'') girando la manopola e auscultando con uno stetoscopio. Confronta i vari processi che chiamiamo “tentare di ricordare”. Paragona ''e'') tentare di muovere il dito contro una resistenza (per esempio qualcuno che lo trattiene) e <span id="p-62"></span>''f'') quando hai intrecciato le mani in un modo particolare e hai l’impressione di “non sapere cosa fare per muovere il dito in un determinato modo”.


(Considera anche la classe di casi in cui diciamo “posso fare così-e-così ma non lo farò;“se potessi, lo farei”… per esempio sollevare cinquanta kili; “se volessi, potrei”… per esempio recitare l’alfabeto).
(Considera anche la classe di casi in cui diciamo “posso fare così-e-così ma non lo farò”; “se potessi, lo farei”… per esempio sollevare cinquanta kili; “se volessi, potrei”… per esempio recitare l’alfabeto).


Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che posso fare una certa cosa è quello in cui, mentre dico che posso farla, effettivamente la faccio e che altrimenti sarebbe meglio affermare: “per quanto riguarda… lo posso fare”. Si potrebbe essere propensi a credere che solo nel caso di cui sopra una persona ha dato davvero prova di essere in grado di fare una certa cosa.
Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che posso fare una certa cosa è quello in cui, mentre dico che posso farla, effettivamente la faccio e che altrimenti sarebbe meglio affermare: “per quanto riguarda… lo posso fare”. Si potrebbe essere propensi a credere che solo nel caso di cui sopra una persona ha dato davvero prova di essere in grado di fare una certa cosa.
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Se gli si avessimo chiesto “che cos’è una matita?”, B non avrebbe indicato un altro oggetto come paradigma o campione, ma avrebbe subito indicato la matita mostratagli.
Se gli si avessimo chiesto “che cos’è una matita?”, B non avrebbe indicato un altro oggetto come paradigma o campione, ma avrebbe subito indicato la matita mostratagli.


“Nel dire però ‘ah, questa è una matita,come faceva a sapere che lo era se non l’ha riconosciuta come qualcosa?” – Ciò in fondo equivale a dire: “come ha riconosciuto ‘matita’ in quanto nome di una cosa di quella specie?” Be’, come ha fatto? Ha semplicemente reagito in questa maniera particolare, cioè ha pronunciato suddetta parola.
“Nel dire però ‘ah, questa è una matita’, come faceva a sapere che lo era se non l’ha riconosciuta come qualcosa?” – Ciò in fondo equivale a dire: “come ha riconosciuto ‘matita’ in quanto nome di una cosa di quella specie?” Be’, come ha fatto? Ha semplicemente reagito in questa maniera particolare, cioè ha pronunciato suddetta parola.




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Non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo in un punto determinato della serie. Ci confonderebbe di meno chiamarla un atto di decisione, anche qui però si tratterebbe di una definizione equivocante, perché non deve avere luogo nulla di simile a una decisione, bensì ipoteticamente solo l’atto di scrivere o di parlare. L’errore che in questo e in migliaia di altri casi siamo propensi a commettere si estrinseca nella parola “fare” per come ce ne siamo serviti nella frase “non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo”, perché sottintende l’idea che “qualcosa debba farci fare” quello che dobbiamo fare. E questo aumenta ulteriormente la confusione tra causa e ragione. ''Non dobbiamo avere una ragione per seguire la regola nel modo in cui la seguiamo.'' La catena di ragioni ha un termine.
Non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo in un punto determinato della serie. Ci confonderebbe di meno chiamarla un atto di decisione, anche qui però si tratterebbe di una definizione equivocante, perché non deve avere luogo nulla di simile a una decisione, bensì ipoteticamente solo l’atto di scrivere o di parlare. L’errore che in questo e in migliaia di altri casi siamo propensi a commettere si estrinseca nella parola “fare” per come ce ne siamo serviti nella frase “non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo”, perché sottintende l’idea che “qualcosa debba farci fare” quello che dobbiamo fare. E questo aumenta ulteriormente la confusione tra causa e ragione. ''Non dobbiamo avere una ragione per seguire la regola nel modo in cui la seguiamo.'' La catena di ragioni ha un termine.


Adesso confronta le frasi “se dopo 100 scrivi 102, 104, etc., di sicuro si tratta di un uso diverso della regola ‘addiziona 1’” e “certamente si tratta di un uso diverso dell’espressione ‘più scura,se dopo averla applicata alle macchie di colore la adoperiamo per le vocali”. – Dovrei replicare: “dipende da che cosa intendi con ‘un uso diverso’”. –
Adesso confronta le frasi “se dopo 100 scrivi 102, 104, etc., di sicuro si tratta di un uso diverso della regola ‘addiziona 1’” e “certamente si tratta di un uso diverso dell’espressione ‘più scura’, se dopo averla applicata alle macchie di colore la adoperiamo per le vocali”. – Dovrei replicare: “dipende da che cosa intendi con ‘un uso diverso’”. –


Certamente affermerò di dover chiamare l’applicazione di “più chiara” e “più scura” alle vocali “un altro uso delle parole;e dovrei continuare la serie “addiziona 1” nella maniera 101, 102, etc., ma non – o non necessariamente – a causa di qualche altro atto mentale che lo giustifichi.
Certamente affermerò di dover chiamare l’applicazione di “più chiara” e “più scura” alle vocali “un altro uso delle parole”; e dovrei continuare la serie “addiziona 1” nella maniera 101, 102, etc., ma non – o non necessariamente – a causa di qualche altro atto mentale che lo giustifichi.


C’è una sorta di malattia del pensiero che cerca sempre (e lo trova) ciò che chiameremmo uno stato mentale, da cui tutti i nostri atti sprizzano come da un serbatoio. Perciò si dice “la moda cambia perché cambia il gusto della gente”. Il gusto è il serbatoio mentale. Ma se oggi un sarto disegna un abito di taglio diverso da quello che ha disegnato l’anno scorso, ciò che chiamiamo il suo cambio di gusto non può essere consistito, in parte o integralmente, nel limitarsi a disegnare un abito diverso?
C’è una sorta di malattia del pensiero che cerca sempre (e lo trova) ciò che chiameremmo uno stato mentale, da cui tutti i nostri atti sprizzano come da un serbatoio. Perciò si dice “la moda cambia perché cambia il gusto della gente”. Il gusto è il serbatoio mentale. Ma se oggi un sarto disegna un abito di taglio diverso da quello che ha disegnato l’anno scorso, ciò che chiamiamo il suo cambio di gusto non può essere consistito, in parte o integralmente, nel limitarsi a disegnare un abito diverso?
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Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, etc., tutti fattori che chiameremmo mezzi di espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mezzi di espressività come il gioco della mimica facciale o dei gesti, e che possono essere considerati accompagnamenti del discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.
Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, etc., tutti fattori che chiameremmo mezzi di espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mezzi di espressività come il gioco della mimica facciale o dei gesti, e che possono essere considerati accompagnamenti del discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.


Torniamo all’esempio sull’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due impieghi diversi è la seguente: “non crediamo che le espressioni ’più scuro,‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una vaga somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari o più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine di oscurità”. Nel pronunciare tale frase, dovrei di certo adoperare un tono diverso rispetto a quello che impiegherei nel dire “disponi questi libri dal più chiaro al più scuro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero tu riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
Torniamo all’esempio sull’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due impieghi diversi è la seguente: “non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una vaga somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari o più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine di oscurità”. Nel pronunciare tale frase, dovrei di certo adoperare un tono diverso rispetto a quello che impiegherei nel dire “disponi questi libri dal più chiaro al più scuro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero tu riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.


Ciò mi porta al punto successivo: quando mi si chiede “di che colore è quel libro?”, io rispondo “rosso” e poi mi si domanda “che cosa ti ha portato a chiamare ‘rosso’ tale colore?”, nella maggior parte dei casi io dovrei rispondere “nulla mi porta a chiamarlo rosso; cioè nessuna ''ragione''. L’ho soltanto guardato e ho detto ‘è rosso.’” Allora si è propensi a dire “di sicuro non è successo soltanto questo; perché io potrei guardare un colore, pronunciare una parola e non nominare comunque il colore”. Poi si si sarebbe tentati di proseguire “quando la pronunciamo per nominare il colore che abbiamo davanti, la parola ‘rosso’ ''arriva in una maniera particolare''”. Se però ci dicessero “descrivi questa particolare maniera” noi non ci sentiremmo preparati a fornire ''alcuna'' descrizione. Immagina che chiedessimo “tu, in ogni caso, ricordi che, ogniqualvolta in passato hai nominato un qualche colore, il nome del colore ti è arrivato ''in'' ''quella maniera particolare''?” – L’’interlocutore sarebbe costretto ad ammettere che non ricorda il modo specifico in cui ciò si è verificato in ciascuno dei casi. Infatti si potrebbe facilmente mostrargli l’atto di nominare un colore insieme a tutta una serie di esperienze diverse. Paragona casi come i seguenti: ''a'') metto un ferro nel fuoco per riscaldarlo finché la temperatura lo fa diventare rosso chiaro. Ti chiedo di guardare il ferro e voglio che tu mi dica di volta in volta quale stadio di ''calore'' ha raggiunto. Tu osservi e dici “comincia a farsi rosso chiaro”. ''b'') Siamo a un incrocio di strade e io dico “aspetta che diventi rosso. Quando arriva, avvertimi che attraverso”. Poniti la domanda: se in un caso gridi “verde!” e in un altro “corri!”, queste due parole ti giungono nello stesso modo o in modi diversi? A riguardo puoi dire qualcosa in termini generici? ''c'') Ti chiedo “qual è il colore del pezzo di materiale che tieni in mano?” (e che io non riesco a vedere). Tu pensi “com’è che si chiama questo? ‘Blu di Prussia’ o ‘indaco?’”
Ciò mi porta al punto successivo: quando mi si chiede “di che colore è quel libro?”, io rispondo “rosso” e poi mi si domanda “che cosa ti ha portato a chiamare ‘rosso’ tale colore?”, nella maggior parte dei casi io dovrei rispondere “nulla mi porta a chiamarlo rosso; cioè nessuna ''ragione''. L’ho soltanto guardato e ho detto ‘è rosso.’” Allora si è propensi a dire “di sicuro non è successo soltanto questo; perché io potrei guardare un colore, pronunciare una parola e non nominare comunque il colore”. Poi si si sarebbe tentati di proseguire “quando la pronunciamo per nominare il colore che abbiamo davanti, la parola ‘rosso’ ''arriva in una maniera particolare''”. Se però ci dicessero “descrivi questa particolare maniera” noi non ci sentiremmo preparati a fornire ''alcuna'' descrizione. Immagina che chiedessimo “tu, in ogni caso, ricordi che, ogniqualvolta in passato hai nominato un qualche colore, il nome del colore ti è arrivato ''in'' ''quella maniera particolare''?” – L’’interlocutore sarebbe costretto ad ammettere che non ricorda il modo specifico in cui ciò si è verificato in ciascuno dei casi. Infatti si potrebbe facilmente mostrargli l’atto di nominare un colore insieme a tutta una serie di esperienze diverse. Paragona casi come i seguenti: ''a'') metto un ferro nel fuoco per riscaldarlo finché la temperatura lo fa diventare rosso chiaro. Ti chiedo di guardare il ferro e voglio che tu mi dica di volta in volta quale stadio di ''calore'' ha raggiunto. Tu osservi e dici “comincia a farsi rosso chiaro”. ''b'') Siamo a un incrocio di strade e io dico “aspetta che diventi rosso. Quando arriva, avvertimi che attraverso”. Poniti la domanda: se in un caso gridi “verde!” e in un altro “corri!”, queste due parole ti giungono nello stesso modo o in modi diversi? A riguardo puoi dire qualcosa in termini generici? ''c'') Ti chiedo “qual è il colore del pezzo di materiale che tieni in mano?” (e che io non riesco a vedere). Tu pensi “com’è che si chiama questo? ‘Blu di Prussia’ o ‘indaco?’”
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In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, si direbbe, abbiamo un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confrontalo con l’esempio in cui passo a un uomo, che ho intento a cercare di accendersi la sigaretta, un fiammifero acceso con la mia sigaretta; oppure ancora il caso di muovere la mano per scrivere una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, etc. per parlare. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, mi sono servito apposta di un’espressione equivocabile. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere dell’intenzionalità. Da questo tipo di esempi sulla volontà si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio e si crede di poterli applicare – magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si potrebbero chiamare casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, etc. etc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso inequivocabile di lettura. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione di cui è l’intenzione e nel primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere il caso in questione da quello in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del fatto di ponderare e del fatto di decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli esempi restanti e in infiniti altri che avremmo potuto fare?
In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, si direbbe, abbiamo un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confrontalo con l’esempio in cui passo a un uomo, che ho intento a cercare di accendersi la sigaretta, un fiammifero acceso con la mia sigaretta; oppure ancora il caso di muovere la mano per scrivere una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, etc. per parlare. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, mi sono servito apposta di un’espressione equivocabile. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere dell’intenzionalità. Da questo tipo di esempi sulla volontà si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio e si crede di poterli applicare – magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si potrebbero chiamare casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, etc. etc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso inequivocabile di lettura. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione di cui è l’intenzione e nel primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere il caso in questione da quello in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del fatto di ponderare e del fatto di decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli esempi restanti e in infiniti altri che avremmo potuto fare?


D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: costui rimugina “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto intenzionale. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto siffatto? Penso che il paradigma dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a confutarla; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo,ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di un qualche azione riflessa. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso del palmo che sfiora l’intonaco, se mantenendo l’arto rigido premo le nocche contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano di fretta dalla parete lasciando il braccio molle, tale braccio, senza da parte mia alcuna azione, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di casi in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.
D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: costui rimugina “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto intenzionale. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto siffatto? Penso che il paradigma dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a confutarla; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di un qualche azione riflessa. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso del palmo che sfiora l’intonaco, se mantenendo l’arto rigido premo le nocche contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano di fretta dalla parete lasciando il braccio molle, tale braccio, senza da parte mia alcuna azione, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di casi in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.


Qui è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso di ritrovare me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa, inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira sotto le coperte, magari dicendomi “si sta per alzare?” Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del braccio c’è una differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”.
Qui è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso di ritrovare me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa, inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira sotto le coperte, magari dicendomi “si sta per alzare?” Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del braccio c’è una differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”.
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Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, in parte appartenenti al tuo idioma natio, in parte a lingue straniere a te più o meno familiari, in parte a linguaggi che ti sono completamente sconosciuti (oppure –in fondo qui è lo stesso – termini senza senso inventati apposta.) Alcune delle parole della mia madrelingua sono ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo” sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime imparate da un bambino, e alcune di queste, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici quali “carburatore”, “dinamo”, “fuso”; etc. etc. Tutte queste parole mi vengono lette e dopo ognuna io, a seconda del fatto che la capisco oppure no, devo dire “sì” o “no”. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso i termini che ho compreso e quando non ho capito le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostra una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non porterà alla luce nessuna esperienza che saremo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze simili a queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo”. Oppure sento “corroborazione”… dico a me stesso “vediamo un po’”, mi sovviene il vago ricordo di un caso inerente e dico “sì”. Sento “aggeggio”, immagino l’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo… “sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di rintracciarne il significato per etimologia, ma non ci riesco e affermo “no”. In un altro caso dire a me stesso “sembra cinese… no”. Etc. D’altra parte ci sarà una grande varietà di casi in cui, oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta, non sarò consapevole di altro. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non avevano assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci sarà una classe che potremmo chiamare esperienze tipiche del capire ed esperienze tipiche del non capire. In contrasto con tale classe di casi ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrò dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.
Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, in parte appartenenti al tuo idioma natio, in parte a lingue straniere a te più o meno familiari, in parte a linguaggi che ti sono completamente sconosciuti (oppure –in fondo qui è lo stesso – termini senza senso inventati apposta.) Alcune delle parole della mia madrelingua sono ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo” sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime imparate da un bambino, e alcune di queste, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici quali “carburatore”, “dinamo”, “fuso”; etc. etc. Tutte queste parole mi vengono lette e dopo ognuna io, a seconda del fatto che la capisco oppure no, devo dire “sì” o “no”. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso i termini che ho compreso e quando non ho capito le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostra una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non porterà alla luce nessuna esperienza che saremo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze simili a queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo”. Oppure sento “corroborazione”… dico a me stesso “vediamo un po’”, mi sovviene il vago ricordo di un caso inerente e dico “sì”. Sento “aggeggio”, immagino l’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo… “sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di rintracciarne il significato per etimologia, ma non ci riesco e affermo “no”. In un altro caso dire a me stesso “sembra cinese… no”. Etc. D’altra parte ci sarà una grande varietà di casi in cui, oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta, non sarò consapevole di altro. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non avevano assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci sarà una classe che potremmo chiamare esperienze tipiche del capire ed esperienze tipiche del non capire. In contrasto con tale classe di casi ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrò dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.


Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo “sì” tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’, qualcosa è accaduto”, sarei portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero,non ho provato una specie di sentimento grezzo?” Tuttavia, quando sento o impiego tale parola, provo sempre il sentimento a cui mi riferivo, rammento di averlo sempre provato, mi ricordo addirittura una serie di, poniamo, cinque sensazioni, alcune delle quali ho sperimentato in ciascuna delle occasioni in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento grezzo” appena menzionato non è un’esperienza caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero dell’atto di filosofare sul “capire?”
Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo “sì” tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’, qualcosa è accaduto”, sarei portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento grezzo?” Tuttavia, quando sento o impiego tale parola, provo sempre il sentimento a cui mi riferivo, rammento di averlo sempre provato, mi ricordo addirittura una serie di, poniamo, cinque sensazioni, alcune delle quali ho sperimentato in ciascuna delle occasioni in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento grezzo” appena menzionato non è un’esperienza caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero dell’atto di filosofare sul “capire?”


Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare “sì” o “no” esperienze caratterizzanti il fatto di capire o il fatto di non capire, ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? Ci troviamo qui in una difficoltà bizzarra: da un lato sembriamo non avere ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze – ha luogo. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato affermare che in un tale sempio tutto ciò che succede è che sento o dico la parola in questione. Perché così parrebbe che stia affermando che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso ciò è vero e in un altro senso ciò è falso.
Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare “sì” o “no” esperienze caratterizzanti il fatto di capire o il fatto di non capire, ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? Ci troviamo qui in una difficoltà bizzarra: da un lato sembriamo non avere ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze – ha luogo. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato affermare che in un tale sempio tutto ciò che succede è che sento o dico la parola in questione. Perché così parrebbe che stia affermando che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso ciò è vero e in un altro senso ciò è falso.
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Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa riflettendo su problemi filosofici. Molti intoppi sorgono in tale modo, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo per poi spiegarlo, quando il termine è impiegato intransitivamente, ricorrendo a una costruzione riflessiva.
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa riflettendo su problemi filosofici. Molti intoppi sorgono in tale modo, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo per poi spiegarlo, quando il termine è impiegato intransitivamente, ricorrendo a una costruzione riflessiva.


Quindi diciamo “con ‘kilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua”, “con ‘A’ intendo ‘B’”, dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “ho detto che ero malato e lo intendevo”. Qui di nuovo intendere ciò che si dice lo si potrebbe chiamare “ripercorrerlo”, “enfatizzarlo”. Ma l’impiego di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “che ''cosa'' intendevi?” e rispondere “con quello che ho detto intendevo quello che ho detto;ovvero trattando il caso di “intendo ciò che dico” come un caso speciale di “dicendo ‘A’ intendo ‘B’”. Infatti ci si serve dell’espressione “intendo ciò che intendo” per dire “non ho una spiegazione in merito”. La domanda “che cosa significa questa frase ''p''?”, se non chiede una traduzione di ''p'' in altri simboli, non ha più senso di “quale frase viene formata con questa sequenza di parole?”
Quindi diciamo “con ‘kilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua”, “con ‘A’ intendo ‘B’”, dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “ho detto che ero malato e lo intendevo”. Qui di nuovo intendere ciò che si dice lo si potrebbe chiamare “ripercorrerlo”, “enfatizzarlo”. Ma l’impiego di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “che ''cosa'' intendevi?” e rispondere “con quello che ho detto intendevo quello che ho detto”; ovvero trattando il caso di “intendo ciò che dico” come un caso speciale di “dicendo ‘A’ intendo ‘B’”. Infatti ci si serve dell’espressione “intendo ciò che intendo” per dire “non ho una spiegazione in merito”. La domanda “che cosa significa questa frase ''p''?”, se non chiede una traduzione di ''p'' in altri simboli, non ha più senso di “quale frase viene formata con questa sequenza di parole?”


Immagina che alla domanda “che cos’è un kilogrammo?” io risponda “è ciò che pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “be’, quanto pesa un litro d’acqua?”
Immagina che alla domanda “che cos’è un kilogrammo?” io risponda “è ciò che pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “be’, quanto pesa un litro d’acqua?”
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La stessa strana illusione che ci affligge quando sembra che cerchiamo il qualcosa che una faccia esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai tratti posti di fronte a noi… questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci un motivo e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, affermiamo “questo motivo dice ''qualcosa''” ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla in cui potrei esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendolo, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, sarebbe grossomodo come affermare “esprime solo se stesso”. – “Di certo però, quando lo suoni, non lo suoni ''in un modo qualunque'' bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, etc.”.
La stessa strana illusione che ci affligge quando sembra che cerchiamo il qualcosa che una faccia esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai tratti posti di fronte a noi… questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci un motivo e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, affermiamo “questo motivo dice ''qualcosa''” ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla in cui potrei esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendolo, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, sarebbe grossomodo come affermare “esprime solo se stesso”. – “Di certo però, quando lo suoni, non lo suoni ''in un modo qualunque'' bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, etc.”.


- Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando affermo “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, etc. (Ciò peraltro mostra che cos’è “una giustificazione” o “una spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare un motivo e dire “non è che così che andrebbe suonato, ma così;e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?” L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che è per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiedesse “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettare in un modo particolare e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che il motivo ''effettivamente fischiettato'' (e non una ''sua'' immagine).
- Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando affermo “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, etc. (Ciò peraltro mostra che cos’è “una giustificazione” o “una spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare un motivo e dire “non è che così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?” L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che è per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiedesse “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettare in un modo particolare e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che il motivo ''effettivamente fischiettato'' (e non una ''sua'' immagine).


Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale concepita quale contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo viso” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale concepita quale contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo viso” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
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in noi tende a sorgere una perplessità esprimibile con la domanda “in che consa consiste il vederlo tridimensionalmente?” In realtà tale interrogativo significa “che cos’è che, quando lo vediamo tridimensionalmente, si aggiunge al semplice fatto di vedere l’oggetto?” Ma quale risposta possiamo aspettarci? Come dice Hertz “aber offenbar irrt die Frage in Bezug auf die Antwort, welche sie erwartet” (p. 9, Die Prinzipien der Mechanik). È la domanda stessa a tenere la mente premuta contro il muro spoglio, impedendole così di trovare l’uscita. Per mostrare a un uomo la via d’uscita bisogna innanzitutto mostrargli i malintesi generati dalla domanda.
in noi tende a sorgere una perplessità esprimibile con la domanda “in che consa consiste il vederlo tridimensionalmente?” In realtà tale interrogativo significa “che cos’è che, quando lo vediamo tridimensionalmente, si aggiunge al semplice fatto di vedere l’oggetto?” Ma quale risposta possiamo aspettarci? Come dice Hertz “aber offenbar irrt die Frage in Bezug auf die Antwort, welche sie erwartet” (p. 9, Die Prinzipien der Mechanik). È la domanda stessa a tenere la mente premuta contro il muro spoglio, impedendole così di trovare l’uscita. Per mostrare a un uomo la via d’uscita bisogna innanzitutto mostrargli i malintesi generati dalla domanda.


Osserva una parola scritta, per esempio “leggere”. “Non è solo uno scarabocchio, è ‘leggere,’” diremo. “Ha una fisionomia definita”. Ma che cos’è che sto dicendo davvero su tale termine? Una volta raddrizzata, di che affermazione si tratta? “La parola cade”, si sarebbe tentati di dire “in un calco che la mia mente le ha preparato ''tempo prima''”. Poiché però non percepisco al contempo sia la parola sia il calco, la metafora della parola adatta al calco non può alludere all’esperienza di confrontare un foro e la forma solida prima che li si faccia combaciare, bensì all’esperienza di vedere la forma solida accentuata da uno sfondo particolare.
Osserva una parola scritta, per esempio “leggere”. “Non è solo uno scarabocchio, è ‘leggere’”, diremo. “Ha una fisionomia definita”. Ma che cos’è che sto dicendo davvero su tale termine? Una volta raddrizzata, di che affermazione si tratta? “La parola cade”, si sarebbe tentati di dire “in un calco che la mia mente le ha preparato ''tempo prima''”. Poiché però non percepisco al contempo sia la parola sia il calco, la metafora della parola adatta al calco non può alludere all’esperienza di confrontare un foro e la forma solida prima che li si faccia combaciare, bensì all’esperienza di vedere la forma solida accentuata da uno sfondo particolare.




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Osserva questo gioco linguistico e vedi se riesci a trovare la relazione misteriosa tra l’oggetto e il suo nome. – La relazione di nome e oggetto, diremmo, consiste nel fatto che uno scarabocchio è scritto sopra un oggetto (o qualche altra relazione altrettanto banale) e nient’altro. Questo però non ci soddisfa, perché abbiamo l’impressione che in sé uno scarabocchio vergato su un oggetto non rivesta per noi alcuna importanza e non ci interessi affatto. Ed è vero; tutta l’importanza risiede nell’impiego particolare che facciamo dello scarabocchio scritto sull’oggetto e noi, in un certo senso, semplifichiamo la questione dicendo che il nome ha una relazione particolare con il suo oggetto, una relazione diversa dal fatto, diciamo, di essere scritto sopra suddetto oggetto, o di essere pronunciato da una persona che con un dito indica l’oggetto. Una filosofia primitiva condensa l’uso complessivo del nome nell’idea di una relazione, che dunque diviene misteriosa. (Confronta le idee di attività mentali quali desiderare, credere, pensare, etc. che per la stessa ragione hanno in sé un che di misterioso e inesplicabile).
Osserva questo gioco linguistico e vedi se riesci a trovare la relazione misteriosa tra l’oggetto e il suo nome. – La relazione di nome e oggetto, diremmo, consiste nel fatto che uno scarabocchio è scritto sopra un oggetto (o qualche altra relazione altrettanto banale) e nient’altro. Questo però non ci soddisfa, perché abbiamo l’impressione che in sé uno scarabocchio vergato su un oggetto non rivesta per noi alcuna importanza e non ci interessi affatto. Ed è vero; tutta l’importanza risiede nell’impiego particolare che facciamo dello scarabocchio scritto sull’oggetto e noi, in un certo senso, semplifichiamo la questione dicendo che il nome ha una relazione particolare con il suo oggetto, una relazione diversa dal fatto, diciamo, di essere scritto sopra suddetto oggetto, o di essere pronunciato da una persona che con un dito indica l’oggetto. Una filosofia primitiva condensa l’uso complessivo del nome nell’idea di una relazione, che dunque diviene misteriosa. (Confronta le idee di attività mentali quali desiderare, credere, pensare, etc. che per la stessa ragione hanno in sé un che di misterioso e inesplicabile).


Ora potremmo impiegare l’espressione “la relazione tra nome e oggetto non consiste solo in questa connessione banale, ‘meramente esteriore,’” intendendo quindi che ciò che chiamiamo il rapporto tra nome e oggetto si caratterizza per l’impiego complessivo del nome, ma allora è chiaro che tra nome e oggetto non c’è una sola relazione ma tante quanti sono gli impieghi dei suoni o dei fregi che chiamiamo nomi.
Ora potremmo impiegare l’espressione “la relazione tra nome e oggetto non consiste solo in questa connessione banale, ‘meramente esteriore’”, intendendo quindi che ciò che chiamiamo il rapporto tra nome e oggetto si caratterizza per l’impiego complessivo del nome, ma allora è chiaro che tra nome e oggetto non c’è una sola relazione ma tante quanti sono gli impieghi dei suoni o dei fregi che chiamiamo nomi.


Possiamo dire dunque che, se nominare dev’essere qualcosa di più del mero fatto di emettere un suono indicando un oggetto, allora in un modo o nell’altro deve entrare in gioco la conoscenza di come il suono o il fregio va usato in quel caso specifico.
Possiamo dire dunque che, se nominare dev’essere qualcosa di più del mero fatto di emettere un suono indicando un oggetto, allora in un modo o nell’altro deve entrare in gioco la conoscenza di come il suono o il fregio va usato in quel caso specifico.
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Avresti potuto ricevere un campione, per esempio un pezzo di materiale colorato, e poi l’ordine “osserva il colore di questo campione”. Possiamo operare una distinzione tra l’atto di osservare, di considerare la forma del campione e di considerare il suo colore. Tuttavia non si può descrivere l’atto di considerare il colore come il fatto di guardare la cosa che è connessa al campione, bensì come il fatto di guardare il campione in un modo particolare.
Avresti potuto ricevere un campione, per esempio un pezzo di materiale colorato, e poi l’ordine “osserva il colore di questo campione”. Possiamo operare una distinzione tra l’atto di osservare, di considerare la forma del campione e di considerare il suo colore. Tuttavia non si può descrivere l’atto di considerare il colore come il fatto di guardare la cosa che è connessa al campione, bensì come il fatto di guardare il campione in un modo particolare.


Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…” ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione;ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il considerare, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.
Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…” ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il considerare, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.


Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza…” Una tale frase parrebbe affermare che il soggetto può indicarci di che luce si tratti. Cioè può sembrare che l’ordine dica di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'', invece delle dimensioni, delle forme, etc.
Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza…” Una tale frase parrebbe affermare che il soggetto può indicarci di che luce si tratti. Cioè può sembrare che l’ordine dica di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'', invece delle dimensioni, delle forme, etc.
Line 1,033: Line 1,033:
Torno alla frase “questa faccia ha un’espressione particolare”. Anche qui non ho confrontato o distinto la mia impressione da nulla, non mi sono servito del campione posto davanti a me. La frase era l’enunciazione di uno stato di attenzione.
Torno alla frase “questa faccia ha un’espressione particolare”. Anche qui non ho confrontato o distinto la mia impressione da nulla, non mi sono servito del campione posto davanti a me. La frase era l’enunciazione di uno stato di attenzione.


Ciò che va spiegato è questo: perché parliamo alla nostra impressione? – Leggi, ti metti in uno stato di attenzione e dici “senza dubbio accade qualcosa di specifico”. Sei portato a proseguire “qui c’è una certa fluidità;ma hai l’impressione che questa sia soltanto una descrizione inadeguata e che l’esperienza sia completa in se stessa. “Qualcosa di specifico senza dubbio accade” è come dire “ho avuto un’esperienza”. Tu però non vuoi esprimere un’affermazione generica indipendente dall’esperienza particolare che hai avuto, bensì un’affermazione in cui l’esperienza fa il suo ingresso.
Ciò che va spiegato è questo: perché parliamo alla nostra impressione? – Leggi, ti metti in uno stato di attenzione e dici “senza dubbio accade qualcosa di specifico”. Sei portato a proseguire “qui c’è una certa fluidità”; ma hai l’impressione che questa sia soltanto una descrizione inadeguata e che l’esperienza sia completa in se stessa. “Qualcosa di specifico senza dubbio accade” è come dire “ho avuto un’esperienza”. Tu però non vuoi esprimere un’affermazione generica indipendente dall’esperienza particolare che hai avuto, bensì un’affermazione in cui l’esperienza fa il suo ingresso.


Hai un’impressione. Questo ti porta ad affermare “ho un’impressione '' particolare''” e questa frase sembra dire, a te stesso almeno, quale impressione hai. Come se ti riferissi a un’immagine pronta nella tua mente e dicessi “è questo”. Invece hai solo indicato la tua impressione. Nel nostro caso ) dire “noto il colore particolare di questa parete” è come disegnare, per esempio, un rettangolo nero attorno a una piccola porzione del muro e adottarlo in qualità di campione in vista di impieghi ulteriori.
Hai un’impressione. Questo ti porta ad affermare “ho un’impressione '' particolare''” e questa frase sembra dire, a te stesso almeno, quale impressione hai. Come se ti riferissi a un’immagine pronta nella tua mente e dicessi “è questo”. Invece hai solo indicato la tua impressione. Nel nostro caso ) dire “noto il colore particolare di questa parete” è come disegnare, per esempio, un rettangolo nero attorno a una piccola porzione del muro e adottarlo in qualità di campione in vista di impieghi ulteriori.