Libro marrone: Difference between revisions

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Nel raccontare il proprio apprendimento del linguaggio, Agostino dice che per insegnargli a parlare gli sono stati fatti imparare i nomi delle cose. È chiaro che chiunque si esprima così ha in mente il modo in cui un bambino apprende parole quali “uomo”, “zucchero”, “tavolo”, etc. Non pensa invece almeno inizialmente a “oggi”, “non”, “ma”, “magari”.
Nel raccontare il proprio apprendimento del linguaggio, Agostino dice che per insegnargli a parlare gli sono stati fatti imparare i nomi delle cose. È chiaro che chiunque si esprima così ha in mente il modo in cui un bambino apprende parole quali “uomo”, “zucchero”, “tavolo”, ecc. Non pensa invece almeno inizialmente a “oggi”, “non”, “ma”, “magari”.


Immaginiamo che un uomo descriva una partita a scacchi senza accennare all’esistenza delle operazioni dei pedoni. Tale descrizione del gioco in quanto fenomeno naturale risulterà incompleta. D’altro canto si potrebbe dire che costui abbia descritto in maniera completa un gioco diverso. In questo senso si può asserire che la descrizione di Agostino dell’apprendimento del linguaggio era corretta per un linguaggio più semplice del nostro. Immaginiamo questo linguaggio: -
Immaginiamo che un uomo descriva una partita a scacchi senza accennare all’esistenza delle operazioni dei pedoni. Tale descrizione del gioco in quanto fenomeno naturale risulterà incompleta. D’altro canto si potrebbe dire che costui abbia descritto in maniera completa un gioco diverso. In questo senso si può asserire che la descrizione di Agostino dell’apprendimento del linguaggio era corretta per un linguaggio più semplice del nostro. Immaginiamo questo linguaggio: -
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono cubi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “cubo”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Questa procedura la chiamerò insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce assecondandoli. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporteranno la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono cubi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “cubo”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Questa procedura la chiamerò insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce assecondandoli. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporteranno la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.


(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone!”, a meno di non voler asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”, perché non potrebbe voler dire solo “mattone!”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole, oppure non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!” Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrasto con le altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, etc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’unico aspetto da rimarcare è che tali differenze debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto la conclusione con la prima domanda. Nel porre l’interrogativo iniziale, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. I significati dei segni li concepiamo talvolta quali stati mentali dell’uomo che li impiega, in altri casi invece come il ruolo che suddetti segni ricoprono in un sistema linguistico. Secondo William James all’uso di parole come “e”, “se” e “o” si accompagnano emozioni specifiche. Non ci sono dubbi che spesso alcuni gesti si leghino a tali parole. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che suddette sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera e esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa “ma” in maniera analoga a come in italiano si impiega “non, pronunciando la parola “ma”, sperimenterà più o meno le stesse sensazioni provate dagli italiani nel dire “non”. E nei due linguaggi alla parola “ma” in genere corrisponderanno diversi poli di esperienze.
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone!”, a meno di non voler asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”, perché non potrebbe voler dire solo “mattone!”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole, oppure non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!” Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrasto con le altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’unico aspetto da rimarcare è che tali differenze debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto la conclusione con la prima domanda. Nel porre l’interrogativo iniziale, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. I significati dei segni li concepiamo talvolta quali stati mentali dell’uomo che li impiega, in altri casi invece come il ruolo che suddetti segni ricoprono in un sistema linguistico. Secondo William James all’uso di parole come “e”, “se” e “o” si accompagnano emozioni specifiche. Non ci sono dubbi che spesso alcuni gesti si leghino a tali parole. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che suddette sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera e esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa “ma” in maniera analoga a come in italiano si impiega “non, pronunciando la parola “ma”, sperimenterà più o meno le stesse sensazioni provate dagli italiani nel dire “non”. E nei due linguaggi alla parola “ma” in genere corrisponderanno diversi poli di esperienze.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=2}} Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine “cinque lastre!” si reca nel luogo in cui sono poste le lastre, pronuncia le parole da uno a cinque, prende una lastra per ogni parola e le porta al costruttore. Qui entrambi utilizzano il linguaggio pronunciando le parole. Imparare a memoria i numerali sarà un aspetto essenziale dell’apprendimento di suddetto linguaggio. Anche l’uso dei numerali verrà insegnato dimostrativamente. Nell’insegnamento però della parola, per esempio, “tre”, si indicheranno o delle lastre, o dei mattoni, o delle colonne, etc. D’altro canto l’insegnamento di numerali diversi comporterà l’atto di indicare gruppi di pietre della stessa forma.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=2}} Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine “cinque lastre!” si reca nel luogo in cui sono poste le lastre, pronuncia le parole da uno a cinque, prende una lastra per ogni parola e le porta al costruttore. Qui entrambi utilizzano il linguaggio pronunciando le parole. Imparare a memoria i numerali sarà un aspetto essenziale dell’apprendimento di suddetto linguaggio. Anche l’uso dei numerali verrà insegnato dimostrativamente. Nell’insegnamento però della parola, per esempio, “tre”, si indicheranno o delle lastre, o dei mattoni, o delle colonne, ecc. D’altro canto l’insegnamento di numerali diversi comporterà l’atto di indicare gruppi di pietre della stessa forma.


(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. Quindi con l’introduzione dei numerali abbiamo inserito un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo emerge qui con maggior evidenza, rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili, se prendiamo in considerazione questo semplice esempio.
(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. Quindi con l’introduzione dei numerali abbiamo inserito un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo emerge qui con maggior evidenza, rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili, se prendiamo in considerazione questo semplice esempio.


Cosa hanno in comune le spiegazioni dimostrative dei numerali con quelle dei termini “lastra”, “colonna”, etc., oltre al gesto e al fatto di pronunciare le parole? Nei due casi il modo di utilizzo di tale gesto è diverso. Se diciamo “in un caso si indica la forma, nell’altro si indica il numero”, tale differenza si offusca. Solo quando esaminiamo un esempio ''completo'' (come l’esempio all’interno di un linguaggio interamente descritto fin nei dettagli), la differenza diventa ovvia e palese.)
Cosa hanno in comune le spiegazioni dimostrative dei numerali con quelle dei termini “lastra”, “colonna”, ecc., oltre al gesto e al fatto di pronunciare le parole? Nei due casi il modo di utilizzo di tale gesto è diverso. Se diciamo “in un caso si indica la forma, nell’altro si indica il numero”, tale differenza si offusca. Solo quando esaminiamo un esempio ''completo'' (come l’esempio all’interno di un linguaggio interamente descritto fin nei dettagli), la differenza diventa ovvia e palese.)




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=5}} Domanda e risposta: A chiede “quante piastre?”, B conta e risponde con il numerale.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=5}} Domanda e risposta: A chiede “quante piastre?”, B conta e risponde con il numerale.


Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiameremmo giochi. Con tali giochi i bambini apprendono il linguaggio natio e qui conservano la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici descritti come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, ossia sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tale assunto, spesso conviene immaginarsi uno di questi linguaggi semplici come l’intero sistema di comunicazione di una tribù contraddistinta da una struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica elementare di alcune tribù. Quando un bambino o un adulto impara quelli che si potrebbero chiamare linguaggi tecnici speciali, per esempio l’uso di grafici e diagrammi, la geometria descrittiva, il simbolismo chimico, etc., apprende nuovi giochi linguistici. (Osservazione: la nostra immagine del linguaggio dell’adulto è quella di una massa nebulosa, cioè la sua madre lingua, circondata da giochi linguistici compatti e più o meno nitidi, ovvero i linguaggi tecnici).
Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiameremmo giochi. Con tali giochi i bambini apprendono il linguaggio natio e qui conservano la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici descritti come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, ossia sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tale assunto, spesso conviene immaginarsi uno di questi linguaggi semplici come l’intero sistema di comunicazione di una tribù contraddistinta da una struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica elementare di alcune tribù. Quando un bambino o un adulto impara quelli che si potrebbero chiamare linguaggi tecnici speciali, per esempio l’uso di grafici e diagrammi, la geometria descrittiva, il simbolismo chimico, ecc., apprende nuovi giochi linguistici. (Osservazione: la nostra immagine del linguaggio dell’adulto è quella di una massa nebulosa, cioè la sua madre lingua, circondata da giochi linguistici compatti e più o meno nitidi, ovvero i linguaggi tecnici).




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda “che cos’è questo?”; A risponde “Questo è un …” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “questo è un…”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) un nome generico è stato spiegato, nella realtà concreta, quale nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale numerico, di una direzione.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda “che cos’è questo?”; A risponde “Questo è un …” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “questo è un…”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) un nome generico è stato spiegato, nella realtà concreta, quale nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale numerico, di una direzione.


(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, etc. siano molto più simili di quello che sono. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi generici quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, etc. La seconda fonte ''b'') è che una volta capito come siano fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” etc. rispetto ai nomi propri, e quanto questi due tipi di funzioni siano diverse da, per esempio, quelle dei nomi dei colori, non vediamo motivo per non parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia rispettivamente tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato e dall’altro “est” e “Jack”.
(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, ecc. siano molto più simili di quello che sono. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi generici quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, ecc. La seconda fonte ''b'') è che una volta capito come siano fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” ecc. rispetto ai nomi propri, e quanto questi due tipi di funzioni siano diverse da, per esempio, quelle dei nomi dei colori, non vediamo motivo per non parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia rispettivamente tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato e dall’altro “est” e “Jack”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=7}} B ha una tabella in cui dei segni scritti sono posti davanti a immagini di oggetti (per esempio un tavolo, una sedia, una tazza da tè, etc.). A scrive uno dei segni, B osserva la tabella, poi sposta lo sguardo o il dito dal segno scritto all’immagine di fronte e afferra l’oggetto raffigurato nell’immagine.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=7}} B ha una tabella in cui dei segni scritti sono posti davanti a immagini di oggetti (per esempio un tavolo, una sedia, una tazza da tè, ecc.). A scrive uno dei segni, B osserva la tabella, poi sposta lo sguardo o il dito dal segno scritto all’immagine di fronte e afferra l’oggetto raffigurato nell’immagine.


Consideriamo ora i diversi tipi di segno che abbiamo introdotto. Prima distinguiamo frasi e parole. In un gioco linguistico chiamerò frase ogni segno completo, i cui costituenti sono parole. (Questa è solo un’osservazione sommaria e generica su come impiegherò le parole “proposizione” e “parole”.) Una proposizione può consistere di una sola parola. In 1) i segni “mattone!”, “colonna!” sono frasi. In 2) una frase è composta da due parole. A seconda dal ruolo giocato dalle proposizioni in un gioco linguistico, distinguiamo ordini, domande, spiegazioni, descrizioni, etc.
Consideriamo ora i diversi tipi di segno che abbiamo introdotto. Prima distinguiamo frasi e parole. In un gioco linguistico chiamerò frase ogni segno completo, i cui costituenti sono parole. (Questa è solo un’osservazione sommaria e generica su come impiegherò le parole “proposizione” e “parole”.) Una proposizione può consistere di una sola parola. In 1) i segni “mattone!”, “colonna!” sono frasi. In 2) una frase è composta da due parole. A seconda dal ruolo giocato dalle proposizioni in un gioco linguistico, distinguiamo ordini, domande, spiegazioni, descrizioni, ecc.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=9}} l’ordine delle parole mostra a B l’ordine in cui portare le pietre, diremo che A pronuncia una proposizione consistente di tre parole. Se l’ordine in questo caso prendesse la forma “Lastra, poi colonna, poi mattone!” dovremmo dire che consisteva di quattro parole (non cinque). Tra le parole vediamo gruppi di parole con funzioni simili. Notiamo facilmente una somiglianza nell’uso delle parole “uno”, “due”, “tre”, etc. e poi di nuovo nell’uso di “lastra”, “colonna” e “mattone”, etc., e così distinguiamo le parti del discorso. In 8) tutte le parole della proposizione appartenevano alla stessa parte del discorso.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=9}} l’ordine delle parole mostra a B l’ordine in cui portare le pietre, diremo che A pronuncia una proposizione consistente di tre parole. Se l’ordine in questo caso prendesse la forma “Lastra, poi colonna, poi mattone!” dovremmo dire che consisteva di quattro parole (non cinque). Tra le parole vediamo gruppi di parole con funzioni simili. Notiamo facilmente una somiglianza nell’uso delle parole “uno”, “due”, “tre”, ecc. e poi di nuovo nell’uso di “lastra”, “colonna” e “mattone”, ecc., e così distinguiamo le parti del discorso. In 8) tutte le parole della proposizione appartenevano alla stessa parte del discorso.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=10}} L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!” Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=10}} L’ordine in cui B doveva portare le pietre in 9) avrebbe potuto essere indicato dall’uso degli ordinali nel modo seguente: “Secondo, colonna; primo, lastra; terzo, mattone!” Questo è un caso in cui ciò che in un gioco linguistico era l’ordine delle parole in un altro gioco linguistico è la funzione di parole specifiche.


Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni ed è un paragone curioso quello tra i nostri esempi e le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due”, “tre”, etc., come mostriamo qui sotto:
Riflessioni come la precedente ci mostreranno la varietà infinita delle funzioni delle parole nelle proposizioni ed è un paragone curioso quello tra i nostri esempi e le regole semplici e rigide date dai logici per la costruzione delle proposizioni. Se raggruppiamo assieme le parole in base alla somiglianza delle loro funzioni, distinguendo così le parti del discorso, vedremo facilmente che si possono impiegare molti modi di classificazione. Ci vorrebbe poco infatti a immaginare una ragione per non classificare la parola “uno” assieme alla parola “due”, “tre”, ecc., come mostriamo qui sotto:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=11}} Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire “una lastra!”, “un cubo!” etc., A si limita a gridare “lastra!”, “cubo!”, etc., l’uso degli altri numerali essendo descritto in 2). Immagina che a un uomo abituato a questa forma (11)) di comunicazione sia stato spiegato l’uso della parola “uno” come descritto in 2). Possiamo facilmente ipotizzare che si rifiuterebbe di classificare “uno” insieme ai numerali “2”, “3”, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=11}} Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire “una lastra!”, “un cubo!” ecc., A si limita a gridare “lastra!”, “cubo!”, ecc., l’uso degli altri numerali essendo descritto in 2). Immagina che a un uomo abituato a questa forma (11)) di comunicazione sia stato spiegato l’uso della parola “uno” come descritto in 2). Possiamo facilmente ipotizzare che si rifiuterebbe di classificare “uno” insieme ai numerali “2”, “3”, ecc.


(Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro l’inserimento di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”).
(Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro l’inserimento di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”).
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Pensa all’espressione “due o molti”.
Pensa all’espressione “due o molti”.


Ci viene naturale considerare gesti come quelli impiegati in 4) o immagini come quelle di 7) alla stregua di elementi o strumenti del linguaggio. (Si parla talvolta di linguaggio gestuale.) Le immagini di 7), e altri strumenti linguistici dalla funzione simile, li chiamo schemi. (Questa spiegazione, come altre già fornite qui, è vaga e volutamente tale.) Quando ci serviamo di uno schema, lo usiamo per paragonarci qualcosa, per esempio una sedia con l’immagine di una sedia. Non abbiamo paragonato una piastra con la parola “piastra”. Nell’introdurre la distinzione “parola, schema”, non miravamo a istituire una dualità logica definitiva. Abbiamo solo individuato due tipi determinati di strumenti nella varietà di strumenti del nostro linguaggio. Chiamiamo “uno”, “due”, “tre”, etc. parole. Se invece di questi segni utilizzassimo “-”, “--”, “---”, “----” li chiameremmo schemi. Immagina un linguaggio in cui i numerali sono “uno”, “uno uno”, “uno uno uno”, etc., in tal caso bisognerebbe chiamare “uno” una parola o uno schema? Lo stesso elemento potrebbe impiegarsi in un contesto come parola e come schema in un altro. Un cerchio può essere il nome di un tipo di ellisse, oppure uno schema a cui paragonare l’ellisse in uno specifico metodo di proiezione. Considera anche questi due sistemi di espressione:
Ci viene naturale considerare gesti come quelli impiegati in 4) o immagini come quelle di 7) alla stregua di elementi o strumenti del linguaggio. (Si parla talvolta di linguaggio gestuale.) Le immagini di 7), e altri strumenti linguistici dalla funzione simile, li chiamo schemi. (Questa spiegazione, come altre già fornite qui, è vaga e volutamente tale.) Quando ci serviamo di uno schema, lo usiamo per paragonarci qualcosa, per esempio una sedia con l’immagine di una sedia. Non abbiamo paragonato una piastra con la parola “piastra”. Nell’introdurre la distinzione “parola, schema”, non miravamo a istituire una dualità logica definitiva. Abbiamo solo individuato due tipi determinati di strumenti nella varietà di strumenti del nostro linguaggio. Chiamiamo “uno”, “due”, “tre”, ecc. parole. Se invece di questi segni utilizzassimo “-”, “--”, “---”, “----” li chiameremmo schemi. Immagina un linguaggio in cui i numerali sono “uno”, “uno uno”, “uno uno uno”, ecc., in tal caso bisognerebbe chiamare “uno” una parola o uno schema? Lo stesso elemento potrebbe impiegarsi in un contesto come parola e come schema in un altro. Un cerchio può essere il nome di un tipo di ellisse, oppure uno schema a cui paragonare l’ellisse in uno specifico metodo di proiezione. Considera anche questi due sistemi di espressione:




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Quando consideriamo i tre casi citati quali casi di confronto a memoria, in un certo senso percepiamo le loro descrizioni come insoddisfacenti o incomplete. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ha ci fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, dovrebbe essere ciò che si potrebbe considerare l’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Curiosamente, se si considerano con attenzione i casi del confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti ''più o meno'' caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia che ci riferiamo al confronto con un campione. Conosciamo un gran numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi causate dal fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e altre esperienze. Più casi simili esaminiamo, e con maggior attenzione li studiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza caratteristica del confrontare. Infatti, se dopo aver investigato ''a fondo'' una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu avresti l’impressione che suddetta esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché è stata posta accanto a una vasto insieme di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo postulato dalla totalità delle esperienze rivelate dalla nostra analisi: non abbiamo mai voluto che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze ''più o meno'' caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno da vicino e per quello che è, l’altro da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera specifica.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro vero impiego della parola “confrontare” è diverso da quello che osservando la questione da lontano eravamo portati a credere. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è uno stuolo di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre.
Quando consideriamo i tre casi citati quali casi di confronto a memoria, in un certo senso percepiamo le loro descrizioni come insoddisfacenti o incomplete. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ha ci fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, dovrebbe essere ciò che si potrebbe considerare l’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Curiosamente, se si considerano con attenzione i casi del confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti ''più o meno'' caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia che ci riferiamo al confronto con un campione. Conosciamo un gran numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi causate dal fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e altre esperienze. Più casi simili esaminiamo, e con maggior attenzione li studiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza caratteristica del confrontare. Infatti, se dopo aver investigato ''a fondo'' una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu avresti l’impressione che suddetta esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché è stata posta accanto a una vasto insieme di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo postulato dalla totalità delle esperienze rivelate dalla nostra analisi: non abbiamo mai voluto che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze ''più o meno'' caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno da vicino e per quello che è, l’altro da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera specifica.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro vero impiego della parola “confrontare” è diverso da quello che osservando la questione da lontano eravamo portati a credere. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è uno stuolo di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre.


“Certamente però nel caso 14c) B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Se ha preso quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non neghiamo che nel caso 14c) B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui scegliere né quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari o tattili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Per esempio: che cosa ''immagino'' che sia?) Mi pare di dover dire che il contrario del confronto automatico, ovverossia il caso ideale del confronto conscio, consiste nell’avere nell’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida oppure nel vedere un vero campione e nello sperimentare la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Mi sembra che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. La sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze, quella di vedere il campione e quella di vedere il materiale. Ma allora che cos’è a legare quest’esperienza particolare a un’altra? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non vogliamo sostenere che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari, per esempio se ci chiedono “questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi siamo giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a spiegare che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''in un caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però si potrebbe distinguere tra modo di apparire automatico o non-automatico di un’immagine mnemonica, etc.
“Certamente però nel caso 14c) B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Se ha preso quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non neghiamo che nel caso 14c) B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui scegliere né quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari o tattili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Per esempio: che cosa ''immagino'' che sia?) Mi pare di dover dire che il contrario del confronto automatico, ovverossia il caso ideale del confronto conscio, consiste nell’avere nell’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida oppure nel vedere un vero campione e nello sperimentare la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Mi sembra che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. La sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze, quella di vedere il campione e quella di vedere il materiale. Ma allora che cos’è a legare quest’esperienza particolare a un’altra? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non vogliamo sostenere che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari, per esempio se ci chiedono “questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi siamo giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a spiegare che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''in un caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però si potrebbe distinguere tra modo di apparire automatico o non-automatico di un’immagine mnemonica, ecc.


Se il nostro caso 14c) ti infastidisce, magari sarai portato a dire: “ma ''perché'' ha portato solo questa striscia di materiale? Com’è che ha riconosciuto quella giusta? In base a che cosa…” Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta in determinate condizioni. Se invece ti preme la ragione, la risposta è “Non ci deve essere una ragione. Una ragione è il passo che precede il passo della scelta. Ma perché mai ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”
Se il nostro caso 14c) ti infastidisce, magari sarai portato a dire: “ma ''perché'' ha portato solo questa striscia di materiale? Com’è che ha riconosciuto quella giusta? In base a che cosa…” Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta in determinate condizioni. Se invece ti preme la ragione, la risposta è “Non ci deve essere una ragione. Una ragione è il passo che precede il passo della scelta. Ma perché mai ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”
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Ciò comporterebbe solo una lieve variazione del meccanismo associativo. Ricorda che l’immagine innescata dalla parola non giunge tramite un processo raziocinante (anche se fosse così, un tale impedimento spingerebbe solo il nostro discorso più indietro), ma che il processo in questione assomiglia molto a quello in cui si schiaccia il pulsante di un meccanismo e compare una targhetta con il nome. A quello associativo, in realtà, si può sostituire un meccanismo simile.
Ciò comporterebbe solo una lieve variazione del meccanismo associativo. Ricorda che l’immagine innescata dalla parola non giunge tramite un processo raziocinante (anche se fosse così, un tale impedimento spingerebbe solo il nostro discorso più indietro), ma che il processo in questione assomiglia molto a quello in cui si schiaccia il pulsante di un meccanismo e compare una targhetta con il nome. A quello associativo, in realtà, si può sostituire un meccanismo simile.


Le immagini mentali di colori, di forme, di suoni, etc. etc., che attraverso il linguaggio rivestono un ruolo nella comunicazione, le mettiamo nella stessa categoria delle superfici colorate effettivamente viste, dei suoni sentiti.
Le immagini mentali di colori, di forme, di suoni, ecc. ecc., che attraverso il linguaggio rivestono un ruolo nella comunicazione, le mettiamo nella stessa categoria delle superfici colorate effettivamente viste, dei suoni sentiti.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=18}} L’addestramento nell’uso delle tabelle (come in 7) non può consistere nell’insegnamento dell’uso di una tabella particolare, bensì deve consentire all’allievo di utilizzare o costruirsi tabelle con coordinazioni nuove di segni scritti e immagini. Ipotizziamo che la prima tabella che una persona sia stata addestrata a utilizzare contenesse le quattro parole “martello”, “pinze”, “sega”, “scalpello” e le immagini corrispondenti. Ora potremmo aggiungere l’immagine di un altro oggetto che l’allievo ha davanti a sé, diciamo di una pialla, e connetterlo alla parola “pialla”. Renderemo la correlazione tra la nuova immagine e la parola il più simile possibile alle correlazioni nella tabella precedente. Potremmo inserire la nuova parola e l’immagine sullo stesso foglio, mettere la parola nuova sotto le parole precedenti e la nuova immagine sotto le immagini precedenti. L’allievo sarà incoraggiato a utilizzare la nuova immagine e la parola senza l’addestramento speciale che gli abbiamo fornito insegnandogli a servirsi della prima tabella.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=18}} L’addestramento nell’uso delle tabelle (come in 7) non può consistere nell’insegnamento dell’uso di una tabella particolare, bensì deve consentire all’allievo di utilizzare o costruirsi tabelle con coordinazioni nuove di segni scritti e immagini. Ipotizziamo che la prima tabella che una persona sia stata addestrata a utilizzare contenesse le quattro parole “martello”, “pinze”, “sega”, “scalpello” e le immagini corrispondenti. Ora potremmo aggiungere l’immagine di un altro oggetto che l’allievo ha davanti a sé, diciamo di una pialla, e connetterlo alla parola “pialla”. Renderemo la correlazione tra la nuova immagine e la parola il più simile possibile alle correlazioni nella tabella precedente. Potremmo inserire la nuova parola e l’immagine sullo stesso foglio, mettere la parola nuova sotto le parole precedenti e la nuova immagine sotto le immagini precedenti. L’allievo sarà incoraggiato a utilizzare la nuova immagine e la parola senza l’addestramento speciale che gli abbiamo fornito insegnandogli a servirsi della prima tabella.


Tali atti di incoraggiamento saranno di vario genere e molti saranno resi possibili solo dalla risposta, anzi da una risposta particolare, dell’allievo. Pensa ai gesti, ai suoni etc. di cui ti servi a mo’ di incoraggiamento per addestrare un cane al riporto. Immagina invece di tentare di addestrare al riporto un gatto. Poiché il gatto non risponderà ai tuoi incoraggiamenti, moltissimi degli atti che hai compiuto nell’addestramento del cane in questo caso non li prenderai nemmeno in considerazione.
Tali atti di incoraggiamento saranno di vario genere e molti saranno resi possibili solo dalla risposta, anzi da una risposta particolare, dell’allievo. Pensa ai gesti, ai suoni ecc. di cui ti servi a mo’ di incoraggiamento per addestrare un cane al riporto. Immagina invece di tentare di addestrare al riporto un gatto. Poiché il gatto non risponderà ai tuoi incoraggiamenti, moltissimi degli atti che hai compiuto nell’addestramento del cane in questo caso non li prenderai nemmeno in considerazione.




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Etc.
ecc.


Poiché si tratta di regole per leggerle, simili schemi possiamo accorparli alle nostre tabelle. Queste regole però non potrebbero venire spiegate da altre regole? Certamente. D’altro canto, se non si è fornita la sua regola d’uso, una regola resta per forza non completamente spiegata?
Poiché si tratta di regole per leggerle, simili schemi possiamo accorparli alle nostre tabelle. Queste regole però non potrebbero venire spiegate da altre regole? Certamente. D’altro canto, se non si è fornita la sua regola d’uso, una regola resta per forza non completamente spiegata?


Introduciamo nei nostri giochi linguistici la serie infinita dei numerali. Come facciamo? Ovviamente l’analogia tra tale processo e l’introduzione di una serie di venti numerali non è identica a quella intercorrente tra l’introduzione di una serie di venti numerali e l’introduzione di una serie di dieci numerali. Immaginiamo un gioco come 2) ma svolto con una serie infinita di numerali. La differenza tra un simile gioco e 2) non consisterebbe solo in un aumento del numero dei numerali. Immaginiamo cioè di esserci serviti per tale gioco di, per esempio, 155 numerali, in tal caso non avremmo potuto descrivere il gioco in questione dicendo che si trattava del gioco 2) soltanto con 155 numerali invece di 10. In che cosa consiste però la differenza? (La differenza sembrerebbe quasi riguardare lo spirito in cui vengono giocati i giochi). La differenza tra dei giochi può anche risiedere nel numero delle pedine impiegate, nel numero dei riquadri sulla superficie di gioco, oppure nel fatto che usiamo quadrati in un caso e in un altro esagoni, etc. Invece la differenza tra gioco finito e gioco infinito non pare consistere negli strumenti materiali del gioco; poiché saremmo portati a dire che l’infinito non può esprimersi tramite essi, cioè che siamo in grado di concepirlo solo nei pensieri ed è dunque in tali pensieri che vanno distinti gioco finito e infinito. (È curioso però che simili pensieri siano esprimibili in segni.) Consideriamo due giochi. Entrambi utilizzano carte numerate e il numero più alto vince.
Introduciamo nei nostri giochi linguistici la serie infinita dei numerali. Come facciamo? Ovviamente l’analogia tra tale processo e l’introduzione di una serie di venti numerali non è identica a quella intercorrente tra l’introduzione di una serie di venti numerali e l’introduzione di una serie di dieci numerali. Immaginiamo un gioco come 2) ma svolto con una serie infinita di numerali. La differenza tra un simile gioco e 2) non consisterebbe solo in un aumento del numero dei numerali. Immaginiamo cioè di esserci serviti per tale gioco di, per esempio, 155 numerali, in tal caso non avremmo potuto descrivere il gioco in questione dicendo che si trattava del gioco 2) soltanto con 155 numerali invece di 10. In che cosa consiste però la differenza? (La differenza sembrerebbe quasi riguardare lo spirito in cui vengono giocati i giochi). La differenza tra dei giochi può anche risiedere nel numero delle pedine impiegate, nel numero dei riquadri sulla superficie di gioco, oppure nel fatto che usiamo quadrati in un caso e in un altro esagoni, ecc. Invece la differenza tra gioco finito e gioco infinito non pare consistere negli strumenti materiali del gioco; poiché saremmo portati a dire che l’infinito non può esprimersi tramite essi, cioè che siamo in grado di concepirlo solo nei pensieri ed è dunque in tali pensieri che vanno distinti gioco finito e infinito. (È curioso però che simili pensieri siano esprimibili in segni.) Consideriamo due giochi. Entrambi utilizzano carte numerate e il numero più alto vince.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=23}} Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1”, “2”, etc…. “9”, ognuno dei quali è scritto su una carta. A dispone di una pila di queste carte e per dare l’ordine a B gliene mostra una e pronuncia una parola quale “lastra”, “colonna”, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=23}} Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1”, “2”, etc…. “9”, ognuno dei quali è scritto su una carta. A dispone di una pila di queste carte e per dare l’ordine a B gliene mostra una e pronuncia una parola quale “lastra”, “colonna”, ecc.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=25}} Si usa un pallottoliere. A sistema il pallottoliere e lo passa a B, che se lo porta dove sono disposte le lastre, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=25}} Si usa un pallottoliere. A sistema il pallottoliere e lo passa a B, che se lo porta dove sono disposte le lastre, ecc.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=42}} A dà ordini a B: tali ordini consistono in segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “-” va espletato facendo prima un passo e poi un saltello; l’ordine “..---” alternando due saltelli e tre passi, etc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini”. – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Qualunque ordine si dia nella pratica di gioco contribuisce a costituire tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire che è limitato sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30)). Cfr. questo gioco con il seguente:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=42}} A dà ordini a B: tali ordini consistono in segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “-” va espletato facendo prima un passo e poi un saltello; l’ordine “..---” alternando due saltelli e tre passi, ecc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini”. – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Qualunque ordine si dia nella pratica di gioco contribuisce a costituire tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire che è limitato sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30)). Cfr. questo gioco con il seguente:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=44}} Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o di un attrezzo, che consiste in una tavola con una fessura per guidare il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, etc. Il linguaggio di colore che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muovere in cerchio, in linea retta, etc. Hanno anche un mezzo specifico per descrivere la tavola impiegata. A riguardo si esprimono così: “questa è una tavola il cui il piolo ''può'' essere mosso circolarmente”. In questo caso si potrebbe chiamare la parola “può” un operatore per mezzo del quale una forma di espressione che descrive un’azione si trasforma nella descrizione di uno strumento.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=44}} Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o di un attrezzo, che consiste in una tavola con una fessura per guidare il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, ecc. Il linguaggio di colore che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muovere in cerchio, in linea retta, ecc. Hanno anche un mezzo specifico per descrivere la tavola impiegata. A riguardo si esprimono così: “questa è una tavola il cui il piolo ''può'' essere mosso circolarmente”. In questo caso si potrebbe chiamare la parola “può” un operatore per mezzo del quale una forma di espressione che descrive un’azione si trasforma nella descrizione di uno strumento.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=46}} Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare suddetti bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma di “questo bastone può essere piegato facilmente” oppure di “questo bastone può essere piegato con difficoltà”. Di tali espressioni si servono nel modo in cui noi affermiamo “questo bastone è elastico” o “questo bastone è duro”. Cioè non utilizzano la frase “questo bastone può essere piegato facilmente” come noi ci serviremo della proposizione “mi riesce facile piegare questo bastone”. Invece la impiegano in maniera tale che noi diremmo che stanno descrivendo uno stato del bastone. Per esempio si servono di frasi come “questa capanna è fatta di bastoni che possono essere piegati facilmente”. (Pensa a come noi formiamo gli aggettivi apponendo ai verbi dei suffissi: “-bile”, per esempio in “deformabile”).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=46}} Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare suddetti bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma di “questo bastone può essere piegato facilmente” oppure di “questo bastone può essere piegato con difficoltà”. Di tali espressioni si servono nel modo in cui noi affermiamo “questo bastone è elastico” o “questo bastone è duro”. Cioè non utilizzano la frase “questo bastone può essere piegato facilmente” come noi ci serviremo della proposizione “mi riesce facile piegare questo bastone”. Invece la impiegano in maniera tale che noi diremmo che stanno descrivendo uno stato del bastone. Per esempio si servono di frasi come “questa capanna è fatta di bastoni che possono essere piegati facilmente”. (Pensa a come noi formiamo gli aggettivi apponendo ai verbi dei suffissi: “-bile”, per esempio in “deformabile”).


Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra suddetti esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Ci siamo accorti che la tavola ha una fessura circolare o lineare, etc. In 45) per certi versi le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, etc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo che corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensoria statica.
Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra suddetti esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Ci siamo accorti che la tavola ha una fessura circolare o lineare, ecc. In 45) per certi versi le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, ecc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo che corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensoria statica.


Per quanto riguarda però lo stato del bastone in 46), nota che a tale “stato” non corrisponde un’esperienza sensoria che si protrae finché dura tale stato. Invece il criterio per stabilire se qualcosa si trova o meno nello stato in questione consiste in  ''delle prove''.
Per quanto riguarda però lo stato del bastone in 46), nota che a tale “stato” non corrisponde un’esperienza sensoria che si protrae finché dura tale stato. Invece il criterio per stabilire se qualcosa si trova o meno nello stato in questione consiste in  ''delle prove''.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=47}} Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio “spara!”, “corri!”, “striscia!”, etc. Costoro dispongono anche di una maniera particolare di descrivere la corporatura di un uomo. Tale descrizione ha la forma di “può correre veloce”, “può scagliare la lancia lontano”. Ciò che mi autorizza a dire che delle frasi siffatte sono descrizioni della corporatura di un uomo è il loro impiego. Quindi, se vedono un uomo con le gambe molto muscolose ma che, per così dire, ha per qualche ragione perso la mobilità degli arti inferiori, dicono che si tratta di un uomo che può correre veloce. L’immagine disegnata di un uomo dai bicipiti robusti la descriverebbero come la rappresentazione di “uno che può scagliare la lancia lontano”.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=47}} Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio “spara!”, “corri!”, “striscia!”, ecc. Costoro dispongono anche di una maniera particolare di descrivere la corporatura di un uomo. Tale descrizione ha la forma di “può correre veloce”, “può scagliare la lancia lontano”. Ciò che mi autorizza a dire che delle frasi siffatte sono descrizioni della corporatura di un uomo è il loro impiego. Quindi, se vedono un uomo con le gambe molto muscolose ma che, per così dire, ha per qualche ragione perso la mobilità degli arti inferiori, dicono che si tratta di un uomo che può correre veloce. L’immagine disegnata di un uomo dai bicipiti robusti la descriverebbero come la rappresentazione di “uno che può scagliare la lancia lontano”.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=48}} Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standard. Li fa sollevare certi pesi, dondolare le braccia, saltellare, etc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali può scagliare la lancia” o “può lanciare il boomerang” o “ha la salute necessaria per inseguire il nemico”, etc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce però solo in quanto prove per certe attività militari.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=48}} Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standard. Li fa sollevare certi pesi, dondolare le braccia, saltellare, ecc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali può scagliare la lancia” o “può lanciare il boomerang” o “ha la salute necessaria per inseguire il nemico”, ecc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce però solo in quanto prove per certe attività militari.


Riguardo al presente esempio e ad altri casi, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli forniti del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole. Dunque se asserisco che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere la prova” e “lanciare il boomerang” per giustificare la sostituzione di queste espressioni italiane al posto di quelle originali. A ciò noi ribatteremmo che abbiamo fornito solo una descrizione meramente abbozzata delle pratiche del nostro linguaggio inventato e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far seguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con “fa’ la prova”. A quest’espressione ne segue un’altra che durante le battaglie si impiega per certe azioni militari. In guerra c’è un comando al sentire il quale i membri della tribù scagliano i boomerang e che io dovrei tradurre con “scaglia il boomerang!” Inoltre se un uomo racconta una battaglia al suo capo, utilizza ancora l’espressione che io ho tradotto con “scagliare il boomerang”, stavolta in una descrizione. Ora ciò che caratterizza un ordine in quanto tale o una descrizione in quanto tale o una domanda in quanto tale, etc. è – come abbiamo spiegato – il ruolo giocato dall’enunciazione di tali segni nella pratica complessiva del linguaggio. Ovverosia se una parola del linguaggio della nostra tribù è tradotta correttamente o meno in italiano dipende dal ruolo che tale termine riveste nell’esistenza complessiva della tribù; le occasioni in cui la si usa, le espressioni emotive con cui di solito la si accompagna, le idee che sentirla pronunciare generalmente ridesta o suggerisce negli astanti, etc. A mo’ di esercizio chiediti: in quali casi affermeresti che una certa parola enunciata dai membri della tribù è un saluto? In quali casi diresti che corrisponde al nostro “arrivederci”, in quali invece a “ciao”? In quali casi diresti che una parola straniera corrisponde al nostro “magari”… alle nostre espressioni di dubbio, fiducia, certezza? Ti accorgerai che le giustificazioni per considerare qualcosa come un’espressione di dubbio, convinzione, etc., in gran parte ma ovviamente non sempre, consistono in descrizioni di gesti, del gioco della mimica facciale e perfino del tono di voce. Rammenta allora che l’esperienza personale delle emozioni deve essere in parte un’esperienza assolutamente localizzata; se faccio una smorfia di rabbia, percepisco la tensione muscolare nella mia fronte aggrottata, se piango le sensazioni che sperimento attorno agli occhi sono naturalmente parte, e parte importante, di ciò che provo. Credo sia a questo che si riferisse William James con l’affermazione secondo la quale un uomo non piange perché è triste ma è triste perché piange. Il motivo per cui tale punto resta spesso incompreso è il nostro pensare all’enunciazione di un’emozione come se si trattasse di un qualche espediente artificioso per far sapere agli altri che ne siamo affetti. Invece non c’è confine netto tra tali “espedienti artificiosi” e ciò che si potrebbe chiamare l’espressione emotiva naturale. Cfr. a riguardo: ''a'') piangere, ''b'') alzare la voce per la rabbia, ''c'') scrivere una lettera furiosa, ''d'') suonare il campanello per sgridare un servitore.
Riguardo al presente esempio e ad altri casi, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli forniti del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole. Dunque se asserisco che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere la prova” e “lanciare il boomerang” per giustificare la sostituzione di queste espressioni italiane al posto di quelle originali. A ciò noi ribatteremmo che abbiamo fornito solo una descrizione meramente abbozzata delle pratiche del nostro linguaggio inventato e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far seguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con “fa’ la prova”. A quest’espressione ne segue un’altra che durante le battaglie si impiega per certe azioni militari. In guerra c’è un comando al sentire il quale i membri della tribù scagliano i boomerang e che io dovrei tradurre con “scaglia il boomerang!” Inoltre se un uomo racconta una battaglia al suo capo, utilizza ancora l’espressione che io ho tradotto con “scagliare il boomerang”, stavolta in una descrizione. Ora ciò che caratterizza un ordine in quanto tale o una descrizione in quanto tale o una domanda in quanto tale, ecc. è – come abbiamo spiegato – il ruolo giocato dall’enunciazione di tali segni nella pratica complessiva del linguaggio. Ovverosia se una parola del linguaggio della nostra tribù è tradotta correttamente o meno in italiano dipende dal ruolo che tale termine riveste nell’esistenza complessiva della tribù; le occasioni in cui la si usa, le espressioni emotive con cui di solito la si accompagna, le idee che sentirla pronunciare generalmente ridesta o suggerisce negli astanti, ecc. A mo’ di esercizio chiediti: in quali casi affermeresti che una certa parola enunciata dai membri della tribù è un saluto? In quali casi diresti che corrisponde al nostro “arrivederci”, in quali invece a “ciao”? In quali casi diresti che una parola straniera corrisponde al nostro “magari”… alle nostre espressioni di dubbio, fiducia, certezza? Ti accorgerai che le giustificazioni per considerare qualcosa come un’espressione di dubbio, convinzione, ecc., in gran parte ma ovviamente non sempre, consistono in descrizioni di gesti, del gioco della mimica facciale e perfino del tono di voce. Rammenta allora che l’esperienza personale delle emozioni deve essere in parte un’esperienza assolutamente localizzata; se faccio una smorfia di rabbia, percepisco la tensione muscolare nella mia fronte aggrottata, se piango le sensazioni che sperimento attorno agli occhi sono naturalmente parte, e parte importante, di ciò che provo. Credo sia a questo che si riferisse William James con l’affermazione secondo la quale un uomo non piange perché è triste ma è triste perché piange. Il motivo per cui tale punto resta spesso incompreso è il nostro pensare all’enunciazione di un’emozione come se si trattasse di un qualche espediente artificioso per far sapere agli altri che ne siamo affetti. Invece non c’è confine netto tra tali “espedienti artificiosi” e ciò che si potrebbe chiamare l’espressione emotiva naturale. Cfr. a riguardo: ''a'') piangere, ''b'') alzare la voce per la rabbia, ''c'') scrivere una lettera furiosa, ''d'') suonare il campanello per sgridare un servitore.


{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “lui ha fatto così-e-così” e un’altra corrispondente a “lui può fare così-e-così” e che tuttavia la seconda la si impieghi solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche l’altra. Che cosa mi può portare ad affermare ciò? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui la si adopera, bisognerebbe chiamare narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “può Tal-dei-tali fare questo?” Si possono descrivere tali circostanze, per esempio dicendo che un capo sceglie degli uomini adatti per certe azioni come attraversare un fiume, scalare una montagna, etc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo che sceglie uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione le parole dette dal capo ma solo gli altri elementi del contesto. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, si tradurrebbe nel nostro “può Tal-dei-tali attraversare il fiume?” A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente guadato il fiume a nuoto. Non si dà la risposta negli stessi termini in cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha guadato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non si risponde invece così nei casi in cui dovrei certamente rispondere “so guadare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese più ardue rispetto al nuoto e non soltanto all’attraversare a nuoto questo particolare fiume.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “lui ha fatto così-e-così” e un’altra corrispondente a “lui può fare così-e-così” e che tuttavia la seconda la si impieghi solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche l’altra. Che cosa mi può portare ad affermare ciò? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui la si adopera, bisognerebbe chiamare narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “può Tal-dei-tali fare questo?” Si possono descrivere tali circostanze, per esempio dicendo che un capo sceglie degli uomini adatti per certe azioni come attraversare un fiume, scalare una montagna, ecc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo che sceglie uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione le parole dette dal capo ma solo gli altri elementi del contesto. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, si tradurrebbe nel nostro “può Tal-dei-tali attraversare il fiume?” A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente guadato il fiume a nuoto. Non si dà la risposta negli stessi termini in cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha guadato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non si risponde invece così nei casi in cui dovrei certamente rispondere “so guadare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese più ardue rispetto al nuoto e non soltanto all’attraversare a nuoto questo particolare fiume.


In suddetto linguaggio però le due espressioni “ha fatto così-e-così” e “può fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, vedrai che qualcosa ti porterà ad affermare la prima ipotesi, qualcos’altro invece la seconda. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato definito chiaramente. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “lui può…” se lui ha fatto… è il tuo criterio per stabilire uno stesso significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a creare il significato delle due espressioni, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego della parola “può” – l’espressione di possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere.
In suddetto linguaggio però le due espressioni “ha fatto così-e-così” e “può fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, vedrai che qualcosa ti porterà ad affermare la prima ipotesi, qualcos’altro invece la seconda. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato definito chiaramente. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “lui può…” se lui ha fatto… è il tuo criterio per stabilire uno stesso significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a creare il significato delle due espressioni, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego della parola “può” – l’espressione di possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere.


Prima di continuare a riflettere sull’uso “dell’espressione di possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima ho fatto questo”, etc. Considera l’esempio seguente:
Prima di continuare a riflettere sull’uso “dell’espressione di possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima ho fatto questo”, ecc. Considera l’esempio seguente:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=51}} Un altro esempio di un tipo primitivo di narrazione di eventi passati: viviamo in un paesaggio con dei punti di riferimento naturali all’orizzonte. È facile quindi ricordare il luogo in cui il sole sorge in una particolare stagione, o quello in cui si libra allo zenit, o quello in cui tramonta. Abbiamo delle immagini caratteristiche del sole in posizioni diverse nel nostro paesaggio. Chiamiamo tale serie di immagini la serie del sole. Disponiamo anche di immagini caratteristiche delle attività di un bambino, sdraiato a letto, intento ad alzarsi, a vestirsi, a pranzare, etc. Questo ''gruppo'' lo chiamerò la serie della vita. Immagino che il bambino, nel corso delle proprie attività quotidiane, sia spesso in grado di notare la posizione del sole. Attiriamo l’attenzione del bambino, intento a fare una certa cosa, sul sole situato in un certo punto. Poi guardiamo sia un’immagine che rappresenta l’attività che sta compiendo sia un’immagine che mostra dove si trova il sole in quel momento. Possiamo quindi abbozzare la storia della giornata del bambino schierando in sequenza sotto le immagini della vita e sopra quella che ho chiamato la serie del sole, le due file nella loro giusta correlazione. Lasceremo poi che sia il bambino a concludere tale storia per immagini, che noi lasceremo incompiuta. A questo punto vorrei dire che tale forma di addestramento (vedi 50) e 30)) è una delle caratteristiche salienti nell’uso del linguaggio o nel pensare.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=51}} Un altro esempio di un tipo primitivo di narrazione di eventi passati: viviamo in un paesaggio con dei punti di riferimento naturali all’orizzonte. È facile quindi ricordare il luogo in cui il sole sorge in una particolare stagione, o quello in cui si libra allo zenit, o quello in cui tramonta. Abbiamo delle immagini caratteristiche del sole in posizioni diverse nel nostro paesaggio. Chiamiamo tale serie di immagini la serie del sole. Disponiamo anche di immagini caratteristiche delle attività di un bambino, sdraiato a letto, intento ad alzarsi, a vestirsi, a pranzare, ecc. Questo ''gruppo'' lo chiamerò la serie della vita. Immagino che il bambino, nel corso delle proprie attività quotidiane, sia spesso in grado di notare la posizione del sole. Attiriamo l’attenzione del bambino, intento a fare una certa cosa, sul sole situato in un certo punto. Poi guardiamo sia un’immagine che rappresenta l’attività che sta compiendo sia un’immagine che mostra dove si trova il sole in quel momento. Possiamo quindi abbozzare la storia della giornata del bambino schierando in sequenza sotto le immagini della vita e sopra quella che ho chiamato la serie del sole, le due file nella loro giusta correlazione. Lasceremo poi che sia il bambino a concludere tale storia per immagini, che noi lasceremo incompiuta. A questo punto vorrei dire che tale forma di addestramento (vedi 50) e 30)) è una delle caratteristiche salienti nell’uso del linguaggio o nel pensare.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=53}} Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile in cui pure, per così dire, c’andrebbe di mezzo il tempo, quello in cui disporremmo solo la serie delle immagini della vita. Potremmo giocare a tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo”. In tal senso si potrebbe affermare che in 53) emergono le idee di prima e di dopo ma non l’idea della misurazione del tempo. Non c’è bisogno di stigmatizzare che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=53}} Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile in cui pure, per così dire, c’andrebbe di mezzo il tempo, quello in cui disporremmo solo la serie delle immagini della vita. Potremmo giocare a tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo”. In tal senso si potrebbe affermare che in 53) emergono le idee di prima e di dopo ma non l’idea della misurazione del tempo. Non c’è bisogno di stigmatizzare che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve.


Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che la vera idea del tempo non c’entri ancora nulla, ma solo un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non contenga in sé un orologio, che l’orologio sia solo lo strumento volgare indicante quando sono le cinque o che esista un’idea di ora che in sé non includa uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto”, “un’ora”. E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai si serve del termine “cinque in punto”, “un’ora”, “tanto tempo”, “poco tempo”, etc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, adesso però abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno di loro è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò diventerà più chiaro considerando l’esempio seguente:
Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che la vera idea del tempo non c’entri ancora nulla, ma solo un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non contenga in sé un orologio, che l’orologio sia solo lo strumento volgare indicante quando sono le cinque o che esista un’idea di ora che in sé non includa uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto”, “un’ora”. E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai si serve del termine “cinque in punto”, “un’ora”, “tanto tempo”, “poco tempo”, ecc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, adesso però abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno di loro è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò diventerà più chiaro considerando l’esempio seguente:




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=54}} Se a qualcuno diamo l’ordine “di’ un numero, qualunque numero ti venga in mente”, di solito l’interlocutore è in grado di eseguirlo subito. Immagina che si scopra che i numeri pronunciati in seguito a tale richiesta aumentano – in ogni persona normale – con il passare del giorno; un uomo comincia al mattino con un numero basso e la sera, prima di addormentarsi, arriva al più alto. Considera ciò che potrebbe portare qualcuno a chiamare le reazioni così descritte “un mezzo di misurazione del tempo” o perfino a dire che, mentre le meridiane, etc. sarebbero solo segnali indiretti, tali reazioni sono gli elementi distintivi ''reali'' del passaggio del tempo. (Rifletti sull’affermazione secondo cui il cuore umano è il vero orologio dietro tutti gli altri).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=54}} Se a qualcuno diamo l’ordine “di’ un numero, qualunque numero ti venga in mente”, di solito l’interlocutore è in grado di eseguirlo subito. Immagina che si scopra che i numeri pronunciati in seguito a tale richiesta aumentano – in ogni persona normale – con il passare del giorno; un uomo comincia al mattino con un numero basso e la sera, prima di addormentarsi, arriva al più alto. Considera ciò che potrebbe portare qualcuno a chiamare le reazioni così descritte “un mezzo di misurazione del tempo” o perfino a dire che, mentre le meridiane, ecc. sarebbero solo segnali indiretti, tali reazioni sono gli elementi distintivi ''reali'' del passaggio del tempo. (Rifletti sull’affermazione secondo cui il cuore umano è il vero orologio dietro tutti gli altri).


Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali.
Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=55}} Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come “lastra!”, “colonna!”, etc., B è addestrato a eseguirlo immediatamente. In questo gioco introduciamo un orologio, un ordine viene pronunciato e noi addestriamo il bambino a non eseguirlo finché la lancetta del nostro orologio raggiunge il punto che prima abbiamo indicato con un dito. (Si potrebbe fare per esempio così: tu prima hai addestrato il bambino a eseguire l’ordine immediatamente. Poi dai l’ordine, ma trattieni il bambino e, solo quando la lancetta dell’orologio ha raggiunto un punto specifico del quadrante che indichi con il dito, lo lasci andare).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=55}} Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come “lastra!”, “colonna!”, ecc., B è addestrato a eseguirlo immediatamente. In questo gioco introduciamo un orologio, un ordine viene pronunciato e noi addestriamo il bambino a non eseguirlo finché la lancetta del nostro orologio raggiunge il punto che prima abbiamo indicato con un dito. (Si potrebbe fare per esempio così: tu prima hai addestrato il bambino a eseguire l’ordine immediatamente. Poi dai l’ordine, ma trattieni il bambino e, solo quando la lancetta dell’orologio ha raggiunto un punto specifico del quadrante che indichi con il dito, lo lasci andare).


Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso”. Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti dai primi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo genere e dire, per esempio “piastra, adesso!”
Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso”. Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti dai primi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo genere e dire, per esempio “piastra, adesso!”
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Diciamo “la tal cosa accadrà” e anche “la tal cosa mi viene incontro”; con “la tal cosa” ci riferiamo al tronco, ma anche al fatto che mi viene incontro.
Diciamo “la tal cosa accadrà” e anche “la tal cosa mi viene incontro”; con “la tal cosa” ci riferiamo al tronco, ma anche al fatto che mi viene incontro.


Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come “dove va la fiamma della candela spenta con un soffio?”, “dove va la luce?”, “dove va il passato?” Ci siamo lasciati ossessionare dal nostro simbolismo. Si può dire che a condurci nella perplessità è un’analogia che ci trascina inesorabilmente. – Questo accade anche quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. Nel nostro esempio 55) sembra che la funzione di “adesso” non sia affatto paragonabile alla funzione di un’espressione come “le cinque in punto”, “mezzogiorno”, “il momento in cui il sole tramonta”, etc. Le espressioni appartenenti a quest’ultimo gruppo le chiamerei “determinazioni di tempo” o “specificazioni di tempo”. Il nostro linguaggio ordinario però si serve della parola “adesso” e delle determinazioni di tempo in contesti simili. Diciamo infatti “il sole tramonta adesso”, “il sole tramonta alle sei”. Siamo propensi a dire che sia “adesso” sia “alle sei” “si riferiscono a punti del tempo”. Tale impiego delle parole produce una perplessità esprimibile con la domanda “che cos’è tale ‘adesso’… perché è un momento del tempo, eppure non si può dire che sia né ‘il momento in cui parlo’ né ‘il momento in cui batte l’orologio’, etc. etc.”. - - La nostra risposta è: la funzione della parola “adesso” è completamente diversa da quella di una specificazione di tempo. – Ce ne si accorge facilmente se si osserva il ruolo svolto da suddetta parola nel nostro uso linguistico, eppure tale aspetto resta oscuro quando, invece di guardare ''al gioco linguistico nel suo'' ''complesso'', ci concentriamo sui contesti e le combinazioni linguistiche in cui si impiega tale parola. (La parola “oggi” non è una data, ma non è nemmeno alcunché di paragonabile a una data. Non differisce da una data come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo; sicuramente potremmo dire che c’è una qualche connessione sia tra un martello e un mazzuolo sia tra un martello e un chiodo).
Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come “dove va la fiamma della candela spenta con un soffio?”, “dove va la luce?”, “dove va il passato?” Ci siamo lasciati ossessionare dal nostro simbolismo. Si può dire che a condurci nella perplessità è un’analogia che ci trascina inesorabilmente. – Questo accade anche quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. Nel nostro esempio 55) sembra che la funzione di “adesso” non sia affatto paragonabile alla funzione di un’espressione come “le cinque in punto”, “mezzogiorno”, “il momento in cui il sole tramonta”, ecc. Le espressioni appartenenti a quest’ultimo gruppo le chiamerei “determinazioni di tempo” o “specificazioni di tempo”. Il nostro linguaggio ordinario però si serve della parola “adesso” e delle determinazioni di tempo in contesti simili. Diciamo infatti “il sole tramonta adesso”, “il sole tramonta alle sei”. Siamo propensi a dire che sia “adesso” sia “alle sei” “si riferiscono a punti del tempo”. Tale impiego delle parole produce una perplessità esprimibile con la domanda “che cos’è tale ‘adesso’… perché è un momento del tempo, eppure non si può dire che sia né ‘il momento in cui parlo’ né ‘il momento in cui batte l’orologio’, ecc. ecc.”. - - La nostra risposta è: la funzione della parola “adesso” è completamente diversa da quella di una specificazione di tempo. – Ce ne si accorge facilmente se si osserva il ruolo svolto da suddetta parola nel nostro uso linguistico, eppure tale aspetto resta oscuro quando, invece di guardare ''al gioco linguistico nel suo'' ''complesso'', ci concentriamo sui contesti e le combinazioni linguistiche in cui si impiega tale parola. (La parola “oggi” non è una data, ma non è nemmeno alcunché di paragonabile a una data. Non differisce da una data come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo; sicuramente potremmo dire che c’è una qualche connessione sia tra un martello e un mazzuolo sia tra un martello e un chiodo).


Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di una località, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio… mi riferisco ai ''giochi'' svolti con tali parole, non alle espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo “questo è piccolo” e “Jack è piccolo”; ricorda però che, senza il gesto d’indicare e la cosa che stiamo indicando, “questo è piccolo” non significherebbe niente. – Ciò che si può paragonare a un nome non è la parola “questo” ma, per così dire, il simbolo in cui tale parola consiste, il gesto, il campione. Diremmo: niente è più tipico di un nome proprio A del nostro poterlo utilizzare in espressioni quali: “questo è A”; invece non ha senso dire “questo è questo” o “adesso è adesso” o “qui è qui”.
Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di una località, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio… mi riferisco ai ''giochi'' svolti con tali parole, non alle espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo “questo è piccolo” e “Jack è piccolo”; ricorda però che, senza il gesto d’indicare e la cosa che stiamo indicando, “questo è piccolo” non significherebbe niente. – Ciò che si può paragonare a un nome non è la parola “questo” ma, per così dire, il simbolo in cui tale parola consiste, il gesto, il campione. Diremmo: niente è più tipico di un nome proprio A del nostro poterlo utilizzare in espressioni quali: “questo è A”; invece non ha senso dire “questo è questo” o “adesso è adesso” o “qui è qui”.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=58}} In una certa tribù si tengono gare di corsa, di sollevamento pesi, etc. e gli spettatori puntano soldi o possedimenti materiali sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono poste in fila e quelli che ho chiamato ‘spettatori’ puntano posando i propri averi (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha posto il proprio oro sull’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto ha messo giù. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica, anche se la si osserva in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità”, “chances”, etc., la chiameremo indubbiamente scommessa. Presuppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo la scoperta del risultato della scommessa. Immagino inoltre che nell’esaminare la disposizione delle scommesse sarei in grado di capire il “''perché''” di tali posizionamenti. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che quello più massiccio sia convalescente o abbia trascurato gli allenamenti, etc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per la disposizione delle scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro “scommetto su di lui perché si è tenuto in forma, l’avversario si è allenato male”, e simili. Potrei descrivere tale situazione dicendo che la mia osservazione mi ha insegnato certe ''cause'' della disposizione delle loro scommesse, ma che, per agire come hanno agito, gli scommettitori avevano invece delle ''ragioni''.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=58}} In una certa tribù si tengono gare di corsa, di sollevamento pesi, ecc. e gli spettatori puntano soldi o possedimenti materiali sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono poste in fila e quelli che ho chiamato ‘spettatori’ puntano posando i propri averi (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha posto il proprio oro sull’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto ha messo giù. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica, anche se la si osserva in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità”, “chances”, ecc., la chiameremo indubbiamente scommessa. Presuppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo la scoperta del risultato della scommessa. Immagino inoltre che nell’esaminare la disposizione delle scommesse sarei in grado di capire il “''perché''” di tali posizionamenti. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che quello più massiccio sia convalescente o abbia trascurato gli allenamenti, ecc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per la disposizione delle scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro “scommetto su di lui perché si è tenuto in forma, l’avversario si è allenato male”, e simili. Potrei descrivere tale situazione dicendo che la mia osservazione mi ha insegnato certe ''cause'' della disposizione delle loro scommesse, ma che, per agire come hanno agito, gli scommettitori avevano invece delle ''ragioni''.


Ma la tribù potrebbe disporre di un linguaggio che include il “fornire ragioni”. Tale gioco di fornire la ragione del perché si agisce in un tal modo non comporta però lo scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente:
Ma la tribù potrebbe disporre di un linguaggio che include il “fornire ragioni”. Tale gioco di fornire la ragione del perché si agisce in un tal modo non comporta però lo scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente:
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=59}} Se un uomo della tribù viene deriso o sgridato per aver perso la scommessa, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=59}} Se un uomo della tribù viene deriso o sgridato per aver perso la scommessa, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta.


Si potrebbe affermare che fornire ragioni in questo modo presuppone che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei rispettivi regimi di allenamento dei suddetti. Questo però è un assunto che, ragionevole o meno, certamente non ho esplicitato nella descrizione del caso. (E non ho nemmeno stabilito che gli scommettitori debbano fornire ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) - È facile immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con “credo che Tal-dei-tali ''possa'' battere Tal-dei-tali in un combattimento”, etc.
Si potrebbe affermare che fornire ragioni in questo modo presuppone che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei rispettivi regimi di allenamento dei suddetti. Questo però è un assunto che, ragionevole o meno, certamente non ho esplicitato nella descrizione del caso. (E non ho nemmeno stabilito che gli scommettitori debbano fornire ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) - È facile immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con “credo che Tal-dei-tali ''possa'' battere Tal-dei-tali in un combattimento”, ecc.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo’, stringendo questo peso la mia mano salirà”. Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io riuscirò a sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarlo’, stringendo questo peso la mia mano salirà”. Negli ultimi due casi la parola “può” caratterizzava ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente la parola “può”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “può” una parola utilizzata dalla tribù se “può” è il termine che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte). È evidente che l’uso di “può” in 59), 60), 61) è strettamente correlato con l’uso di “può” nei casi da 46) a 49); i due impieghi però differiscono in questo, che negli esempi da 46) a 49) le frasi che dicono che qualcosa potrebbe accadere non erano espressioni di congetture. A ciò si potrebbe obiettare affermando così: di certo negli esempi da 46) a 49) siamo disposti a servirci della parola “può” perché è ragionevole congetturare in questi casi cosa farà un uomo in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui versa.


È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), etc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… etc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare plausibile una congettura di questo tipo. Li ho appositamente creati in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai forme di espressione come quelle impiegate in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… ecc. Questo assunto però, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che posso continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 stilata da A, ha provato una qualche sensazione, o delle sensazioni che spesso accompagnano parole quali “facile!” Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che posso continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 stilata da A, ha provato una qualche sensazione, o delle sensazioni che spesso accompagnano parole quali “facile!” Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento.


Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula aₙ = n² + n – 1 sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti agli occhi della mente, o l’esperienza di scrivere o recitare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule annotate in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi propendiamo per l’affermazione secondo cui “poter…” deve significare qualcosa in più del mero atto di recitare la formula… e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “poter continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi ci porta fuori strada. Quando diciamo “di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché non potremmo chiamare soltanto questo ‘potere…’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B può continuare…” non equivale esattamente a dire “B recita la formula…” ma da ciò non consegue che l’espressione “B può continuare” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B recita la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata e lui allora perlustra con lo sguardo la stanza alla ricerca dell’oggetto denotato dalla parola “sedia”. (L’esempio sarebbe ancora più calzante se costui frugasse dentro la sedia alla ricerca del vero significato della parola “sedia”). È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula etc., ci serviamo della frase “costui può continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però rischia di suggerirci che la frase “B può continuare…” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie”. Ma davvero affermando “adesso posso continuare” B intende qualcosa come “adesso faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, etc., etc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato preparato a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B può continuare…” è utilizzata correttamente in occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B può continuare…” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva costituente lo sfondo del nostro gioco.
Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula aₙ = n² + n – 1 sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti agli occhi della mente, o l’esperienza di scrivere o recitare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule annotate in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi propendiamo per l’affermazione secondo cui “poter…” deve significare qualcosa in più del mero atto di recitare la formula… e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “poter continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi ci porta fuori strada. Quando diciamo “di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché non potremmo chiamare soltanto questo ‘potere…’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B può continuare…” non equivale esattamente a dire “B recita la formula…” ma da ciò non consegue che l’espressione “B può continuare” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B recita la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata e lui allora perlustra con lo sguardo la stanza alla ricerca dell’oggetto denotato dalla parola “sedia”. (L’esempio sarebbe ancora più calzante se costui frugasse dentro la sedia alla ricerca del vero significato della parola “sedia”). È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula ecc., ci serviamo della frase “costui può continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però rischia di suggerirci che la frase “B può continuare…” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie”. Ma davvero affermando “adesso posso continuare” B intende qualcosa come “adesso faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, ecc., ecc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato preparato a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B può continuare…” è utilizzata correttamente in occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B può continuare…” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva costituente lo sfondo del nostro gioco.


E invece ''in alcune circostanze'' dovremmo essere pronti a sostituire “B può continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha recitato la formula”. Come nel chiedere al medico “il paziente può camminare?”, dobbiamo essere pronti a sostituire la frase con “gli è guarita la gamba?” – “Può parlare” in certe circostanze significa “la sua gola sta bene?”, in altre invece (per esempio se si tratta di un bambino piccolo) significa “ha imparato a parlare?” – Alla domanda “il paziente può camminare?” il dottore può rispondere “la gamba è a posto”. – Ci serviamo dell’espressione “per quanto riguarda le condizioni della gamba, può camminare”, soprattutto quando vogliamo distinguere, in merito all’atto di camminare, tale condizione da un’altra dello stesso soggetto, per esempio quella della sua spina dorsale. Qui dobbiamo fare attenzione a non credere che nella natura del caso ci sia ciò che potremmo chiamare un insieme completo di condizioni, per esempio per quanto riguarda il fatto di camminare; in modo che se tutte queste condizioni fossero assolte, il paziente, per così dire, non potrebbe fare a meno di camminare.
E invece ''in alcune circostanze'' dovremmo essere pronti a sostituire “B può continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha recitato la formula”. Come nel chiedere al medico “il paziente può camminare?”, dobbiamo essere pronti a sostituire la frase con “gli è guarita la gamba?” – “Può parlare” in certe circostanze significa “la sua gola sta bene?”, in altre invece (per esempio se si tratta di un bambino piccolo) significa “ha imparato a parlare?” – Alla domanda “il paziente può camminare?” il dottore può rispondere “la gamba è a posto”. – Ci serviamo dell’espressione “per quanto riguarda le condizioni della gamba, può camminare”, soprattutto quando vogliamo distinguere, in merito all’atto di camminare, tale condizione da un’altra dello stesso soggetto, per esempio quella della sua spina dorsale. Qui dobbiamo fare attenzione a non credere che nella natura del caso ci sia ciò che potremmo chiamare un insieme completo di condizioni, per esempio per quanto riguarda il fatto di camminare; in modo che se tutte queste condizioni fossero assolte, il paziente, per così dire, non potrebbe fare a meno di camminare.
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Alla domanda se “può continuare…” ha lo stesso significato di “conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi, come per esempio le espressioni ‘sto bene’ e ‘godo di buona salute;’” oppure possiamo dire “''in alcune circostanze'' ‘il soggetto può continuare’ significa che conosce la formula”. Immagina il caso di un linguaggio (per certi versi analogo a 49)) in cui due forme di espressione, due frasi diverse, sono impiegate per affermare che le gambe di una persona funzionano bene. Una delle due forme enunciative la si utilizza solo nelle circostanze in cui si sta preparando una spedizione, un viaggio a piedi o qualcosa di simile; dell’altra ci si serve in casi in cui preparativi del genere non sono contemplati. Qui non sapremo se dire che le due frasi hanno lo stesso significato o significati diversi. In ogni caso è solo osservando nel dettaglio l’utilizzo di suddette espressioni che riusciamo a scorgere lo stato reale delle cose. – Ed è evidente che se nel caso presente decideremo di dire che le due espressioni hanno diversi significati, di sicuro non saremo in grado di dire che la differenza è che il fatto che rende vera la seconda frase è diverso da quello che rende vera la prima.
Alla domanda se “può continuare…” ha lo stesso significato di “conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi, come per esempio le espressioni ‘sto bene’ e ‘godo di buona salute;’” oppure possiamo dire “''in alcune circostanze'' ‘il soggetto può continuare’ significa che conosce la formula”. Immagina il caso di un linguaggio (per certi versi analogo a 49)) in cui due forme di espressione, due frasi diverse, sono impiegate per affermare che le gambe di una persona funzionano bene. Una delle due forme enunciative la si utilizza solo nelle circostanze in cui si sta preparando una spedizione, un viaggio a piedi o qualcosa di simile; dell’altra ci si serve in casi in cui preparativi del genere non sono contemplati. Qui non sapremo se dire che le due frasi hanno lo stesso significato o significati diversi. In ogni caso è solo osservando nel dettaglio l’utilizzo di suddette espressioni che riusciamo a scorgere lo stato reale delle cose. – Ed è evidente che se nel caso presente decideremo di dire che le due espressioni hanno diversi significati, di sicuro non saremo in grado di dire che la differenza è che il fatto che rende vera la seconda frase è diverso da quello che rende vera la prima.


Siamo giustificati a dire che la frase “lui può continuare…” ha un significato diverso da quello di “lui sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui si riferisce la prima frase”, come se tale stato risiedesse in un piano superiore a quello in cui hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, etc.)
Siamo giustificati a dire che la frase “lui può continuare…” ha un significato diverso da quello di “lui sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui si riferisce la prima frase”, come se tale stato risiedesse in un piano superiore a quello in cui hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, ecc.)


Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto “posso continuare la serie” ma che una volta invitato a proseguire la sequenza se ne sia mostrato incapace… diremo che ciò ha dimostrato che la sua asserzione, secondo la quale era in grado di continuare, era sbagliata o sosterremo che, mentre affermava di esserne capace, era davvero in grado di continuare? Sarebbe B stesso a dire “mi rendo conto di essermi sbagliato”, oppure “ciò che ho detto era vero, in quel momento ne ero capace, ma adesso non più”? – Ci sono casi in cui sarebbe giusto dire la prima frase e casi in cui sarebbe giusto dire la seconda. Immagina ''a'') quando ha detto di poter continuare, vedeva la formula nella propria mente, ma una volta che gli hanno chiesto di proseguire ha scoperto di essersela scordata; - oppure ''b'') quando ha detto di poter continuare stava pronunciando tra sé e sé i cinque termini successivi della serie, ma adesso scopre di non rammentarseli più; - oppure ''c'') prima ha continuato la serie calcolando altri cinque numeri, adesso ricorda solo le cifre ma non come ha fatto a calcolarle; - oppure ''d'') dice “prima avevo l’impressione di poter continuare, adesso no”; oppure ''e'') “quando ho detto di essere in grado sollevare il peso, il braccio non mi faceva male, adesso invece sì”; etc.
Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto “posso continuare la serie” ma che una volta invitato a proseguire la sequenza se ne sia mostrato incapace… diremo che ciò ha dimostrato che la sua asserzione, secondo la quale era in grado di continuare, era sbagliata o sosterremo che, mentre affermava di esserne capace, era davvero in grado di continuare? Sarebbe B stesso a dire “mi rendo conto di essermi sbagliato”, oppure “ciò che ho detto era vero, in quel momento ne ero capace, ma adesso non più”? – Ci sono casi in cui sarebbe giusto dire la prima frase e casi in cui sarebbe giusto dire la seconda. Immagina ''a'') quando ha detto di poter continuare, vedeva la formula nella propria mente, ma una volta che gli hanno chiesto di proseguire ha scoperto di essersela scordata; - oppure ''b'') quando ha detto di poter continuare stava pronunciando tra sé e sé i cinque termini successivi della serie, ma adesso scopre di non rammentarseli più; - oppure ''c'') prima ha continuato la serie calcolando altri cinque numeri, adesso ricorda solo le cifre ma non come ha fatto a calcolarle; - oppure ''d'') dice “prima avevo l’impressione di poter continuare, adesso no”; oppure ''e'') “quando ho detto di essere in grado sollevare il peso, il braccio non mi faceva male, adesso invece sì”; ecc.


D’altro canto diciamo “pensavo di poter sollevare questo carico, adesso mi accorgo che non ci riesco”, “pensavo di essere in grado di ricordarmi questa parte a memoria, ora mi rendo conto che mi sbagliavo”.
D’altro canto diciamo “pensavo di poter sollevare questo carico, adesso mi accorgo che non ci riesco”, “pensavo di essere in grado di ricordarmi questa parte a memoria, ora mi rendo conto che mi sbagliavo”.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti kili”; una delle due la si utilizza ogni volta che l’azione eseguita è una prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione eseguita non è una prova.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti kili”; una delle due la si utilizza ogni volta che l’azione eseguita è una prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione eseguita non è una prova.


Vediamo che una vasta rete di parentele familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, etc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa andrà in futuro in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che in futuro andrà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. - -
Vediamo che una vasta rete di parentele familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa andrà in futuro in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che in futuro andrà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. - -


Ci sono comunque ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, etc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. In parole povere, ciò ci fa dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente propensi ad adottare, oppure, per esprimerci in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora di qualcosa che è in un particolare stato per dire che qualcosa può andare in un particolare modo. Tale maniera di rappresentazione, o metafora, si estrinseca in espressioni quali “lui è capace di…”, “lui è in grado di moltiplicare grosse cifre a mente”, “lui sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo ''al tempo presente'' indica che si tratta di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla.
Ci sono comunque ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. In parole povere, ciò ci fa dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente propensi ad adottare, oppure, per esprimerci in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora di qualcosa che è in un particolare stato per dire che qualcosa può andare in un particolare modo. Tale maniera di rappresentazione, o metafora, si estrinseca in espressioni quali “lui è capace di…”, “lui è in grado di moltiplicare grosse cifre a mente”, “lui sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo ''al tempo presente'' indica che si tratta di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla.


La stessa tendenza emerge nella nostra abitudine di chiamare l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, etc., certi stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. In questo senso uno stato mentale è invece lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello mentale concepito per spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' mentale.) In questo modo siamo quasi costretti a considerare la memoria una specie di magazzino. Nota anche con quanta sicurezza le persone, pur non sapendo nulla di tali corrispondenze fisiopsicologiche, credono che alla capacità di compiere addizioni, o moltiplicazioni, o di recitare una poesia a memoria, etc. ''debba per forza'' corrispondere un particolare stato del cervello del soggetto in questione. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo le cui manifestazioni sono tali fenomeni; consideriamo suddetti fenomeni le manifestazioni di tale meccanismo. La loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.
La stessa tendenza emerge nella nostra abitudine di chiamare l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., certi stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. In questo senso uno stato mentale è invece lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello mentale concepito per spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' mentale.) In questo modo siamo quasi costretti a considerare la memoria una specie di magazzino. Nota anche con quanta sicurezza le persone, pur non sapendo nulla di tali corrispondenze fisiopsicologiche, credono che alla capacità di compiere addizioni, o moltiplicazioni, o di recitare una poesia a memoria, ecc. ''debba per forza'' corrispondere un particolare stato del cervello del soggetto in questione. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo le cui manifestazioni sono tali fenomeni; consideriamo suddetti fenomeni le manifestazioni di tale meccanismo. La loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.


Tornando ora alla nostra discussione di 43), notiamo che, l’affermazione per la quale, se B ''avrebbe potuto'' anche espletare ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quella scritta in 43), allora era guidato, in realtà non era una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni. Infatti nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui avremmo potuto stabilirlo con certezza solo se fossimo stati in grado di guardare nel meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo dovremmo chiamare il fatto che certe parti sono guidate da altre. In realtà il meccanismo che, quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “meccanismo guidato dai segni”, ci si suggerisce subito è un meccanismo del tipo della pianola. Nell’ingranaggio della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, guidate dagli schemi dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe dire “la pianola legge la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi chiameremmo gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola dalla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il bullone di una serratura, ma non bisognerebbe dire che il movimento del bullone è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e nocche, cioè non bisognerebbe dire che il bullone si muoveva ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Osserva qui la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: perché diremo che la pianola ''può'' leggere ''qualunque'' schema di perforazioni, a patto che siano sempre dello stesso tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme specifico di melodie (come un carillon)… mentre il bullone della serratura reagisce solo allo schema della chiave, predeterminato dalla costruzione del meccanismo. Diremmo che le nocche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che costituiscono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.
Tornando ora alla nostra discussione di 43), notiamo che, l’affermazione per la quale, se B ''avrebbe potuto'' anche espletare ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quella scritta in 43), allora era guidato, in realtà non era una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni. Infatti nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui avremmo potuto stabilirlo con certezza solo se fossimo stati in grado di guardare nel meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo dovremmo chiamare il fatto che certe parti sono guidate da altre. In realtà il meccanismo che, quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “meccanismo guidato dai segni”, ci si suggerisce subito è un meccanismo del tipo della pianola. Nell’ingranaggio della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, guidate dagli schemi dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe dire “la pianola legge la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi chiameremmo gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola dalla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il bullone di una serratura, ma non bisognerebbe dire che il movimento del bullone è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e nocche, cioè non bisognerebbe dire che il bullone si muoveva ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Osserva qui la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: perché diremo che la pianola ''può'' leggere ''qualunque'' schema di perforazioni, a patto che siano sempre dello stesso tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme specifico di melodie (come un carillon)… mentre il bullone della serratura reagisce solo allo schema della chiave, predeterminato dalla costruzione del meccanismo. Diremmo che le nocche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che costituiscono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.
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È evidente che seppure se ne serviamo a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), meccanismi del genere non sono effettivamente coinvolti in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto di espressioni quali “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura - che pure possono fungere da metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi - è solo un impiego in una famiglia di impieghi.
È evidente che seppure se ne serviamo a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), meccanismi del genere non sono effettivamente coinvolti in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto di espressioni quali “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura - che pure possono fungere da metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi - è solo un impiego in una famiglia di impieghi.


Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” concentrandoci sull’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica nulla di analogo alla comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere il proprio linguaggio, poi a leggere libri, riviste, lettere, etc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono lungo i termini stampati li pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremo anche che ha letto una frase, se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come una mera macchina da lettura, ovvero non riporre alcuna attenzione in ciò che ha detto, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, se ha agito con la stessa assenza di errori di una macchina da lettura, diremo che ha letto. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se riflettendo su quest’esempio ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo “solo lui sa se sta leggendo; nessun altro può saperlo davvero”. Eppure bisogna ammettere che, per quanto riguarda la lettura di una parola determinata, nella mente del principiante che “fingeva” di leggere potrebbe essere accaduta la stessa identica cosa verificatasi nella mente della persona istruita, intenta a leggere la parola in questione. Quando parliamo del lettore esperto, utilizziamo la parola “leggere” in modo diverso rispetto a quando parliamo del principiante. Ciò che in un caso chiamiamo un esempio di lettura, nell’altro caso non lo consideriamo tale. – Ovviamente siamo portati a dire che ciò che è accaduto nel lettore esperto e nel principiante, quando hanno pronunciato la parola, non avrebbe potuto essere la stessa cosa. Se non nel loro stato cosciente, la differenza deve risiedere nelle regioni inconsce delle rispettive menti, o cervelli. Immaginiamo qui due meccanismi, di cui possiamo vedere il lavorio interno, che è il vero criterio per stabilire se una persona sta leggendo o no. In realtà però in simili casi nessuno di questi meccanismi ci è noto. Consideriamo la questione così:
Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” concentrandoci sull’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica nulla di analogo alla comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere il proprio linguaggio, poi a leggere libri, riviste, lettere, ecc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono lungo i termini stampati li pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremo anche che ha letto una frase, se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come una mera macchina da lettura, ovvero non riporre alcuna attenzione in ciò che ha detto, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, se ha agito con la stessa assenza di errori di una macchina da lettura, diremo che ha letto. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se riflettendo su quest’esempio ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo “solo lui sa se sta leggendo; nessun altro può saperlo davvero”. Eppure bisogna ammettere che, per quanto riguarda la lettura di una parola determinata, nella mente del principiante che “fingeva” di leggere potrebbe essere accaduta la stessa identica cosa verificatasi nella mente della persona istruita, intenta a leggere la parola in questione. Quando parliamo del lettore esperto, utilizziamo la parola “leggere” in modo diverso rispetto a quando parliamo del principiante. Ciò che in un caso chiamiamo un esempio di lettura, nell’altro caso non lo consideriamo tale. – Ovviamente siamo portati a dire che ciò che è accaduto nel lettore esperto e nel principiante, quando hanno pronunciato la parola, non avrebbe potuto essere la stessa cosa. Se non nel loro stato cosciente, la differenza deve risiedere nelle regioni inconsce delle rispettive menti, o cervelli. Immaginiamo qui due meccanismi, di cui possiamo vedere il lavorio interno, che è il vero criterio per stabilire se una persona sta leggendo o no. In realtà però in simili casi nessuno di questi meccanismi ci è noto. Consideriamo la questione così:




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Fa’ questo: recita a memoria la serie dei numeri cardinali da uno a dodici. – Adesso guarda il quadrante dell’orologio e leggi la sequenza dei numeri. Chiediti in questo caso cosa hai chiamato leggere, cioè che ha cosa hai fatto per far sì che fosse un atto di lettura.
Fa’ questo: recita a memoria la serie dei numeri cardinali da uno a dodici. – Adesso guarda il quadrante dell’orologio e leggi la sequenza dei numeri. Chiediti in questo caso cosa hai chiamato leggere, cioè che ha cosa hai fatto per far sì che fosse un atto di lettura.


Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere che ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “- - . . -” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o lo spartito in base ai quali suona un pianista, etc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, gli spostamenti fatti seguendo segni come “”--..-” e i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, etc.) Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo dire “gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”).
Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere che ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “- - . . -” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o lo spartito in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, gli spostamenti fatti seguendo segni come “”--..-” e i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.) Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo dire “gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”).


Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo in dono non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in un modo, quest’altra in un altro, etc., e che lui poi ha letto le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene automaticamente è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà più chiaro se modifichiamo l’esempio e
Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo in dono non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in un modo, quest’altra in un altro, ecc., e che lui poi ha letto le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene automaticamente è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà più chiaro se modifichiamo l’esempio e




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{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=1}} Immaginiamo di mostrare a B una serie di strumenti: una bilancia, un termometro, uno spettroscopio, etc.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=1}} Immaginiamo di mostrare a B una serie di strumenti: una bilancia, un termometro, uno spettroscopio, ecc.




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{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=7}} Paragona: Vedi una parola e non riesci a leggerla. Qualcuno lo modifica leggermente aggiungendo un trattino, allungando una lineetta, etc. Adesso sei in grado di leggerla. Paragona tale alterazione con il ribaltamento di 5) e osserva come in un certo senso si può dire che, mentre la parola era capovolta, tu hai visto che ''non'' era alterata. Cioè esiste un caso in cui dici “ho guardato la parola mentre era girata e so che adesso è sempre la stessa di quando non l’ho riconosciuta”.
{{ParBBit|color=brown |part=2 |paragraph=7}} Paragona: Vedi una parola e non riesci a leggerla. Qualcuno lo modifica leggermente aggiungendo un trattino, allungando una lineetta, ecc. Adesso sei in grado di leggerla. Paragona tale alterazione con il ribaltamento di 5) e osserva come in un certo senso si può dire che, mentre la parola era capovolta, tu hai visto che ''non'' era alterata. Cioè esiste un caso in cui dici “ho guardato la parola mentre era girata e so che adesso è sempre la stessa di quando non l’ho riconosciuta”.




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Un certo tipo di risposta comporterebbe certamente la descrizione di una serie di casi intermedi. Diremmo che il caso a cui più assomiglia il cercare qualcosa nella memoria non è il cercare un amico nel parco, bensì per esempio quello di cercare in un dizionario come si scrive una parola. Si potrebbe proseguire elencando altri casi. Un altro modo di ''indicare'' la somiglianza consisterebbe nell’affermare, per esempio, “in entrambi i casi all’inizio non possiamo scrivere la parola, poi invece sì”. Questo è ciò che chiamiamo indicare un elemento comune.
Un certo tipo di risposta comporterebbe certamente la descrizione di una serie di casi intermedi. Diremmo che il caso a cui più assomiglia il cercare qualcosa nella memoria non è il cercare un amico nel parco, bensì per esempio quello di cercare in un dizionario come si scrive una parola. Si potrebbe proseguire elencando altri casi. Un altro modo di ''indicare'' la somiglianza consisterebbe nell’affermare, per esempio, “in entrambi i casi all’inizio non possiamo scrivere la parola, poi invece sì”. Questo è ciò che chiamiamo indicare un elemento comune.


È importante osservare che, quando nel caso del tentare di ricordare siamo indotti a servirci di parole quali “cercare”, “rintracciare”, etc., non dobbiamo per forza essere consapevoli delle affinità così indicate.
È importante osservare che, quando nel caso del tentare di ricordare siamo indotti a servirci di parole quali “cercare”, “rintracciare”, ecc., non dobbiamo per forza essere consapevoli delle affinità così indicate.


Si potrebbe pensare di affermare che “di certo una qualche somiglianza ci colpisce, altrimenti non saremmo propensi a impiegare la stessa parola”. Paragona quest’affermazione con “una somiglianza tra questi due casi deve colpirci in modo tale che saremo portati a utilizzare la stessa immagine per rappresentare entrambi”. Questo ci dice che un qualche atto deve precedere quello di impiegare l’immagine. Ma perché quella che chiamiamo “la somiglianza che ci colpisce” non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che usiamo la stessa immagine? E perché non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che siamo indotti a servirci della stessa espressione?
Si potrebbe pensare di affermare che “di certo una qualche somiglianza ci colpisce, altrimenti non saremmo propensi a impiegare la stessa parola”. Paragona quest’affermazione con “una somiglianza tra questi due casi deve colpirci in modo tale che saremo portati a utilizzare la stessa immagine per rappresentare entrambi”. Questo ci dice che un qualche atto deve precedere quello di impiegare l’immagine. Ma perché quella che chiamiamo “la somiglianza che ci colpisce” non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che usiamo la stessa immagine? E perché non dovrebbe consistere in parte o interamente nel fatto che siamo indotti a servirci della stessa espressione?
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“Ma non ci sono sensazioni di somiglianza?” Io credo che ci siano sensazioni che si potrebbero chiamare sensazioni di somiglianza. Se però tu “ti accorgi della somiglianza”, non percepisci costantemente una simile sensazione. Considera alcune delle varie esperienze che provi nel percepirla.
“Ma non ci sono sensazioni di somiglianza?” Io credo che ci siano sensazioni che si potrebbero chiamare sensazioni di somiglianza. Se però tu “ti accorgi della somiglianza”, non percepisci costantemente una simile sensazione. Considera alcune delle varie esperienze che provi nel percepirla.


''a'') C’è un tipo di esperienza che potremmo chiamare non essere quasi in grado di distinguere. Vedi per esempio due lunghezze, due colori, quasi esattamente identici. Ma se mi chiedessi “questa esperienza consiste in una sensazione specifica?”, dovrei dire che certamente non è caratterizzata da nessuna sensazione simile da sola, che la parte più importante dell’esperienza consiste nel lasciar oscillare lo sguardo tra i due oggetti, fissando attentamente ora l’uno ora l’altro, magari pronunciando parole che esprimono dubbio, scuotendo la testa, etc., etc. Si direbbe che tra queste molteplici esperienze non rimane quasi nessuno spazio per una sensazione di somiglianza.
''a'') C’è un tipo di esperienza che potremmo chiamare non essere quasi in grado di distinguere. Vedi per esempio due lunghezze, due colori, quasi esattamente identici. Ma se mi chiedessi “questa esperienza consiste in una sensazione specifica?”, dovrei dire che certamente non è caratterizzata da nessuna sensazione simile da sola, che la parte più importante dell’esperienza consiste nel lasciar oscillare lo sguardo tra i due oggetti, fissando attentamente ora l’uno ora l’altro, magari pronunciando parole che esprimono dubbio, scuotendo la testa, ecc., ecc. Si direbbe che tra queste molteplici esperienze non rimane quasi nessuno spazio per una sensazione di somiglianza.


''b'') Confronta questo caso con quello in cui è impossibile fare fatica a distinguere i due oggetti. Supponiamo che io dica “in questa aiuola, per evitare un contrasto stridente, preferisco avere due tipi di fiori di colori simili”. L’esperienza qui la si può descrivere come uno spostare agevolmente lo sguardo dall’uno all’altro.
''b'') Confronta questo caso con quello in cui è impossibile fare fatica a distinguere i due oggetti. Supponiamo che io dica “in questa aiuola, per evitare un contrasto stridente, preferisco avere due tipi di fiori di colori simili”. L’esperienza qui la si può descrivere come uno spostare agevolmente lo sguardo dall’uno all’altro.


''c'') Ascolto la variazione di un tema e dico “per il momento non vedo come possa trattarsi di una variazione dello stesso tema, ma noto una certa somiglianza”. Ciò che è accaduto è che in certi punti della variazione, in certi cambi di tonalità, ho avuto l’esperienza di “sapere dove mi trovavo nel tema”. Tale esperienza sarebbe potuta consistere anche nell’immaginare certe figure del tema o nel vederle scritte nella mente o nell’indicarle effettivamente sullo spartito, etc.
''c'') Ascolto la variazione di un tema e dico “per il momento non vedo come possa trattarsi di una variazione dello stesso tema, ma noto una certa somiglianza”. Ciò che è accaduto è che in certi punti della variazione, in certi cambi di tonalità, ho avuto l’esperienza di “sapere dove mi trovavo nel tema”. Tale esperienza sarebbe potuta consistere anche nell’immaginare certe figure del tema o nel vederle scritte nella mente o nell’indicarle effettivamente sullo spartito, ecc.


“Quando però due colori sono simili, l’esperienza della somiglianza dovrebbe certamente consistere nel fatto di accorgersi della somiglianza ''esistente'' tra i due”. – Ma un verde bluastro è simile oppure no a un verde giallino? In certi casi diremmo che sono simili e in altri diremmo che sono del tutto dissimili. Sarebbe corretto dire che nei due casi abbiamo considerato relazioni diverse tra i due colori? Immagina che io abbia osservato un processo in cui un verde bluastro lentamente si trasforma in verde puro, in verde giallino, poi in giallo, infine in arancione. Dico “ci vuole poco a passare dal verde bluastro al verde giallino, perché questi due colori sono simili”. - Ma per affermare una cosa simile, non devi per forza aver avuto una qualche esperienza di somiglianza? – L’esperienza può ridursi a questo, cioè al fatto di scorgere i due colori e di dire che sono entrambi verdi. Oppure può consistere nel vedere un nastro il cui colore cambia da un estremo all’altro e nell’avere alcune delle esperienze che si potrebbero chiamare accorgersi di quanto siano vicini, rispetto al verde bluastro e all’arancione, il verde bluastro e il verde giallino.
“Quando però due colori sono simili, l’esperienza della somiglianza dovrebbe certamente consistere nel fatto di accorgersi della somiglianza ''esistente'' tra i due”. – Ma un verde bluastro è simile oppure no a un verde giallino? In certi casi diremmo che sono simili e in altri diremmo che sono del tutto dissimili. Sarebbe corretto dire che nei due casi abbiamo considerato relazioni diverse tra i due colori? Immagina che io abbia osservato un processo in cui un verde bluastro lentamente si trasforma in verde puro, in verde giallino, poi in giallo, infine in arancione. Dico “ci vuole poco a passare dal verde bluastro al verde giallino, perché questi due colori sono simili”. - Ma per affermare una cosa simile, non devi per forza aver avuto una qualche esperienza di somiglianza? – L’esperienza può ridursi a questo, cioè al fatto di scorgere i due colori e di dire che sono entrambi verdi. Oppure può consistere nel vedere un nastro il cui colore cambia da un estremo all’altro e nell’avere alcune delle esperienze che si potrebbero chiamare accorgersi di quanto siano vicini, rispetto al verde bluastro e all’arancione, il verde bluastro e il verde giallino.
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Allora cosa dovremmo rispondere alla domanda “cos’hanno in comune il blu chiaro e il blu scuro?” Di primo acchito la risposta pare ovvia: “sono due sfumature di blu”. Questa però è una tautologia. Chiediamoci quindi “cos’hanno in comune questi due colori che sto indicando?” (Immagina che uno sia blu chiaro, l’altro blu scuro). Qui bisognerebbe rispondere “non so a quale gioco tu stia giocando”. Se devo dire oppure no che hanno qualcosa in comune, e che cosa nello specifico hanno in comune, dipende dal tipo di gioco in corso.
Allora cosa dovremmo rispondere alla domanda “cos’hanno in comune il blu chiaro e il blu scuro?” Di primo acchito la risposta pare ovvia: “sono due sfumature di blu”. Questa però è una tautologia. Chiediamoci quindi “cos’hanno in comune questi due colori che sto indicando?” (Immagina che uno sia blu chiaro, l’altro blu scuro). Qui bisognerebbe rispondere “non so a quale gioco tu stia giocando”. Se devo dire oppure no che hanno qualcosa in comune, e che cosa nello specifico hanno in comune, dipende dal tipo di gioco in corso.


Immagina il gioco seguente: A mostra a B varie macchie di colore e gli chiede che cos’hanno in comune. B deve rispondere indicando un particolare colore primario. Quindi se A indica rosa e arancio, B deve indicare il rosso magenta. Se A indica due sfumature di blu verdognolo, B deve indicare il verde puro e il cobalto, etc. Se in gioco simile A mostrasse a B un blu chiaro e un blu scuro e gli chiedesse che cos’hanno in comune, la risposta sarebbe ovvia. Se gli indicasse il rosso magenta e il verde puro, la risposta sarebbe che non hanno nulla in comune. Potrei però immaginare facilmente delle circostanze in cui dovremmo dire che hanno qualcosa in comune e asserire senza esitare di che cosa si tratta: immagina un uso linguistico (una cultura) in cui il verde e il rosso hanno lo stesso nome, e anche giallo e il blu. Poniamo per esempio che ci siano due caste, quella nobile che indossa abiti rossi e verdi, quella plebea vestita sempre in blu e in giallo. Al giallo e al blu ci si riferirebbe solo in quanto colori plebei, al verde e al rosso solo in quanto colori nobili. Se gli si chiedesse cos’hanno in comune una macchia rossa e una macchia verde, senza esitare un membro della tribù risponderebbe che si tratta di colori nobili.
Immagina il gioco seguente: A mostra a B varie macchie di colore e gli chiede che cos’hanno in comune. B deve rispondere indicando un particolare colore primario. Quindi se A indica rosa e arancio, B deve indicare il rosso magenta. Se A indica due sfumature di blu verdognolo, B deve indicare il verde puro e il cobalto, ecc. Se in gioco simile A mostrasse a B un blu chiaro e un blu scuro e gli chiedesse che cos’hanno in comune, la risposta sarebbe ovvia. Se gli indicasse il rosso magenta e il verde puro, la risposta sarebbe che non hanno nulla in comune. Potrei però immaginare facilmente delle circostanze in cui dovremmo dire che hanno qualcosa in comune e asserire senza esitare di che cosa si tratta: immagina un uso linguistico (una cultura) in cui il verde e il rosso hanno lo stesso nome, e anche giallo e il blu. Poniamo per esempio che ci siano due caste, quella nobile che indossa abiti rossi e verdi, quella plebea vestita sempre in blu e in giallo. Al giallo e al blu ci si riferirebbe solo in quanto colori plebei, al verde e al rosso solo in quanto colori nobili. Se gli si chiedesse cos’hanno in comune una macchia rossa e una macchia verde, senza esitare un membro della tribù risponderebbe che si tratta di colori nobili.


Si potrebbe anche immaginare facilmente un linguaggio (quindi, come già detto, una cultura) sprovvisto di un’espressione comune per il blu chiaro e il blu scuro e nel quale per esempio il primo lo si chiama “Cambridge” e il secondo “Oxford”. Se chiedi a un membro della tribù cos’hanno in comune Cambridge e Oxford, lui sarebbe portato a risponderti “niente”.
Si potrebbe anche immaginare facilmente un linguaggio (quindi, come già detto, una cultura) sprovvisto di un’espressione comune per il blu chiaro e il blu scuro e nel quale per esempio il primo lo si chiama “Cambridge” e il secondo “Oxford”. Se chiedi a un membro della tribù cos’hanno in comune Cambridge e Oxford, lui sarebbe portato a risponderti “niente”.


Paragona questo gioco con il seguente. Si mostrano a B certe immagini, combinazioni di macchie colorate. Quando gli si chiede cos’hanno in comune tali immagini, se per esempio in entrambe è presente una macchia rossa, lui deve indicare un campione di rosso, oppure indicare il verde se in entrambe c’è una macchia verde, etc. Ciò mostra in quali modi diversi può venir impiegata questa stessa risposta.
Paragona questo gioco con il seguente. Si mostrano a B certe immagini, combinazioni di macchie colorate. Quando gli si chiede cos’hanno in comune tali immagini, se per esempio in entrambe è presente una macchia rossa, lui deve indicare un campione di rosso, oppure indicare il verde se in entrambe c’è una macchia verde, ecc. Ciò mostra in quali modi diversi può venir impiegata questa stessa risposta.


Considera una spiegazione come “con ‘blu’ intendo ciò che hanno in comune questi due colori”. – Non è possibile che qualcuno una spiegazione del genere la capisca? Per esempio gli si chiederebbe di portare un altro oggetto blu e lui eseguirebbe l’ordine nella maniera corretta. Magari però porterà un oggetto rosso e noi allora diremo “sembra notare una qualche somiglianza tra i campioni che gli abbiamo mostrato e questa cosa rossa”.
Considera una spiegazione come “con ‘blu’ intendo ciò che hanno in comune questi due colori”. – Non è possibile che qualcuno una spiegazione del genere la capisca? Per esempio gli si chiederebbe di portare un altro oggetto blu e lui eseguirebbe l’ordine nella maniera corretta. Magari però porterà un oggetto rosso e noi allora diremo “sembra notare una qualche somiglianza tra i campioni che gli abbiamo mostrato e questa cosa rossa”.
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Dire che ci serviamo della parola “blu” per indicare “ciò che hanno in comune tutte queste tinte” in sé equivale semplicemente a dire che utilizziamo il termine “blu” in tutti i suddetti casi.
Dire che ci serviamo della parola “blu” per indicare “ciò che hanno in comune tutte queste tinte” in sé equivale semplicemente a dire che utilizziamo il termine “blu” in tutti i suddetti casi.


L’espressione “lui vede cos’hanno in comune tutte queste tinte” può riferirsi a un vasto insieme di fenomeni diversi, ovverosia fenomeni di vario genere sono impiegati come criteri per “lui vede che…” O tutto quel che accade può essere che, quando gli si chiede di portare un’altra tinta di blu, il soggetto esegue l’ordine in maniera soddisfacente. Oppure, quando gli mostriamo diversi campioni di blu, una macchia blu cobalto gli appare nell’occhio della mente: oppure costui volta istintivamente la testa verso qualche altra sfumatura di blu che non gli abbiamo mostrato, servendosene a mo’ di campione, etc. etc.
L’espressione “lui vede cos’hanno in comune tutte queste tinte” può riferirsi a un vasto insieme di fenomeni diversi, ovverosia fenomeni di vario genere sono impiegati come criteri per “lui vede che…” O tutto quel che accade può essere che, quando gli si chiede di portare un’altra tinta di blu, il soggetto esegue l’ordine in maniera soddisfacente. Oppure, quando gli mostriamo diversi campioni di blu, una macchia blu cobalto gli appare nell’occhio della mente: oppure costui volta istintivamente la testa verso qualche altra sfumatura di blu che non gli abbiamo mostrato, servendosene a mo’ di campione, ecc. ecc.


Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono esempi di questo tipo in cui non dovremmo avere dubbi sulla risposta.
Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono esempi di questo tipo in cui non dovremmo avere dubbi sulla risposta.
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Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e solo in seguito possono esprimere tale concezione con parole e gesti.
Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e solo in seguito possono esprimere tale concezione con parole e gesti.


Come mai però impieghi l’espressione “devono?” In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, etc.”? Altrimenti, non potrebbe essere stato ciò che chiameremmo un pregiudizio linguistico a farti dire “prima di tutto doveva concepire che…”?
Come mai però impieghi l’espressione “devono?” In questo caso sei a conoscenza di un’esperienza che chiami “il concepire, ecc.”? Altrimenti, non potrebbe essere stato ciò che chiameremmo un pregiudizio linguistico a farti dire “prima di tutto doveva concepire che…”?


Invece da questo esempio e da altri apprendiamo che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui per parlare di una qualche esperienza legata al concepire bisogna applicare tale parola all’esperienza dell’impiego di certe parole, certi gesti, etc.
Invece da questo esempio e da altri apprendiamo che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui per parlare di una qualche esperienza legata al concepire bisogna applicare tale parola all’esperienza dell’impiego di certe parole, certi gesti, ecc.


Quando il nostro soggetto ha detto “la ''u'' non è davvero più scura della ''e''…”, era essenziale che intendesse affermare che, quando si parlava di una vocale in quanto più scura di un’altra, rispetto a quando invece si definiva un colore più scuro di un altro, l’espressione “più scura” fosse impiegata ''in un senso diverso''.
Quando il nostro soggetto ha detto “la ''u'' non è davvero più scura della ''e''…”, era essenziale che intendesse affermare che, quando si parlava di una vocale in quanto più scura di un’altra, rispetto a quando invece si definiva un colore più scuro di un altro, l’espressione “più scura” fosse impiegata ''in un senso diverso''.


Considera questo esempio: immagina che abbiamo insegnato a un uomo a servirsi delle parole “verde”, “rosso”, “blu” indicandogli macchie dei suddetti colori. Gli abbiamo insegnato a riportare oggetti di un certo colore in risposta all’ordine “dammi qualcosa di rosso!”, a riordinare oggetti impilati di vari colori, etc. Immagina che gli mostriamo una pila di foglie, alcune di un marrone lievemente rossiccio, altre di un giallo venato di verde, e che gli ordiniamo “dividi in due pile le foglie rosse e quelle verdi”. È molto probabile che lui eseguirebbe scostando le foglie giallo verdognole da quelle marrone rossicce. Diremo qui di aver impiegato le parole “rosso” e “verde” nello stesso senso dei casi precedenti oppure in un senso simile ma diverso? Che ragioni si potrebbero fornire per adottare il secondo punto di vista? Si potrebbe osservare che, se ci avessero chiesto di dipingere una macchia rossa, di certo non l’avremmo dipinta di un marroncino lievemente rossiccio e perciò si potrebbe dire che “rosso” nei due casi abbia significati diversi. Perché però non dovrei sostenere che in realtà aveva un solo significato, ma ovviamente lo si è utilizzato in base alle circostanze?
Considera questo esempio: immagina che abbiamo insegnato a un uomo a servirsi delle parole “verde”, “rosso”, “blu” indicandogli macchie dei suddetti colori. Gli abbiamo insegnato a riportare oggetti di un certo colore in risposta all’ordine “dammi qualcosa di rosso!”, a riordinare oggetti impilati di vari colori, ecc. Immagina che gli mostriamo una pila di foglie, alcune di un marrone lievemente rossiccio, altre di un giallo venato di verde, e che gli ordiniamo “dividi in due pile le foglie rosse e quelle verdi”. È molto probabile che lui eseguirebbe scostando le foglie giallo verdognole da quelle marrone rossicce. Diremo qui di aver impiegato le parole “rosso” e “verde” nello stesso senso dei casi precedenti oppure in un senso simile ma diverso? Che ragioni si potrebbero fornire per adottare il secondo punto di vista? Si potrebbe osservare che, se ci avessero chiesto di dipingere una macchia rossa, di certo non l’avremmo dipinta di un marroncino lievemente rossiccio e perciò si potrebbe dire che “rosso” nei due casi abbia significati diversi. Perché però non dovrei sostenere che in realtà aveva un solo significato, ma ovviamente lo si è utilizzato in base alle circostanze?


La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui una parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che un termine ha due significati, potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono i paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “il termine ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se fornire entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una, dipenderebbe dalle reazioni naturali delle persone che adottano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo, a cui diamo la spiegazione ostensiva “questo è chiamato rosso” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece ci riporta oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso, commisurata a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Diremmo che costui “non scorge cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.
La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui una parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che un termine ha due significati, potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono i paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “il termine ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se fornire entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una, dipenderebbe dalle reazioni naturali delle persone che adottano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo, a cui diamo la spiegazione ostensiva “questo è chiamato rosso” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece ci riporta oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso, commisurata a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Diremmo che costui “non scorge cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.


Considera il caso seguente: a B hanno insegnato l’impiego delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno sppiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a eseguire l’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” riportando un oggetto determinato e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, etc., etc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine di scurezza. Lui esegue disponendo dei libri in fila, trascrivendo i nomi di certi animali e annotando le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?” Saremmo portati a considerare un simile caso come una specie di eccezione e di affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale dispone sia gli oggetti colorati sia le vocali”. Se volessimo rendere tale idea (la nostra) più palese, faremmo così: in un senso analogo a quello in cui si potrebbe dire che registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura, una persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visivi con uno strumento e con un altro strumento registra invece ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali). B allora, vorremmo dire, organizza suoni e colori con uno strumento (senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica registrerebbe raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).
Considera il caso seguente: a B hanno insegnato l’impiego delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno sppiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a eseguire l’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” riportando un oggetto determinato e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, ecc., ecc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine di scurezza. Lui esegue disponendo dei libri in fila, trascrivendo i nomi di certi animali e annotando le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?” Saremmo portati a considerare un simile caso come una specie di eccezione e di affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale dispone sia gli oggetti colorati sia le vocali”. Se volessimo rendere tale idea (la nostra) più palese, faremmo così: in un senso analogo a quello in cui si potrebbe dire che registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura, una persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visivi con uno strumento e con un altro strumento registra invece ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali). B allora, vorremmo dire, organizza suoni e colori con uno strumento (senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica registrerebbe raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).


Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa da una persona normale. Adesso invece poniamo accanto a tale raffigurazione il fatto che in questo caso non ci sono prove per “un altro senso”. – E in realtà quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare al fenomeno in questione dopo aver osservato l’immagine tratteggiata nella frase.
Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa da una persona normale. Adesso invece poniamo accanto a tale raffigurazione il fatto che in questo caso non ci sono prove per “un altro senso”. – E in realtà quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare al fenomeno in questione dopo aver osservato l’immagine tratteggiata nella frase.
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E se, accennando alle due macchie che ho chiamato rosse, qualcuno dicesse “di certo stai usando la parola ‘rosso’ in due modi diversi”. Io direi “questo è rosso chiaro e quest’altro è rosso scuro… ma perché dovrei parlare di due usi diversi?” - -
E se, accennando alle due macchie che ho chiamato rosse, qualcuno dicesse “di certo stai usando la parola ‘rosso’ in due modi diversi”. Io direi “questo è rosso chiaro e quest’altro è rosso scuro… ma perché dovrei parlare di due usi diversi?” - -


È sicuramente facile indicare le differenze tra la parte del gioco in cui abbiamo applicato “più chiaro” e “più scuro” agli oggetti colorati e quella in cui abbiamo applicato le stesse espressioni alle vocali. Nella prima parte si trattava di confrontare due oggetti avvicinandoli e spostando lo sguardo dall’uno all’altro, si trattava di dipingere una tinta più scura o più chiara del campione dato; nella seconda parte non c’erano paragoni a occhio, nulla di dipinto, etc. Ma nell’indicare tali differenze siamo ancora liberi di parlare di due parti dello stesso gioco (come abbiamo appena fatto) oppure di due giochi diversi.
È sicuramente facile indicare le differenze tra la parte del gioco in cui abbiamo applicato “più chiaro” e “più scuro” agli oggetti colorati e quella in cui abbiamo applicato le stesse espressioni alle vocali. Nella prima parte si trattava di confrontare due oggetti avvicinandoli e spostando lo sguardo dall’uno all’altro, si trattava di dipingere una tinta più scura o più chiara del campione dato; nella seconda parte non c’erano paragoni a occhio, nulla di dipinto, ecc. Ma nell’indicare tali differenze siamo ancora liberi di parlare di due parti dello stesso gioco (come abbiamo appena fatto) oppure di due giochi diversi.


“Non percepisco però come la relazione tra un pezzo di materiale più chiaro e uno più scuro sia diversa da quella tra le vocali ''e'' e ''u''… mentre vedo che la relazione tra ''u'' ed ''e'' è la stessa di quella tra ''e'' e ''i''.” In certe circostanze saremo portati a parlare in questi casi di relazioni diverse, in altre circostanze di relazioni analoghe. “Dipende da come le confronti” si potrebbe dire.
“Non percepisco però come la relazione tra un pezzo di materiale più chiaro e uno più scuro sia diversa da quella tra le vocali ''e'' e ''u''… mentre vedo che la relazione tra ''u'' ed ''e'' è la stessa di quella tra ''e'' e ''i''.” In certe circostanze saremo portati a parlare in questi casi di relazioni diverse, in altre circostanze di relazioni analoghe. “Dipende da come le confronti” si potrebbe dire.
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Chiediamoci “diremo che le frecce → e ← indicano nella stessa direzione o in due direzioni diverse?” - Inizialmente saresti forse propenso a dire “in direzioni diverse, è ovvio”. Considera però il seguente punto di vista: se guardandomi allo specchio osservo il riflesso del mio volto, lo posso considerare un criterio per il fatto di vedere la mia testa. Se invece scorgessi una nuca potrei dire “ciò che vedo non può essere la mia testa, ma una testa che guarda nella direzione opposta”. Ciò dunque potrebbe indurmi a dire che una freccia e il suo riflesso in un vetro, quando si indicano l’un l’altra, vanno nella stessa direzione e, quando invece la testa di una delle due punta verso la coda dell’altra, in due direzioni opposte. Immagina il caso di un uomo a cui abbiano impartito l’uso ordinario dell’espressione “lo stesso” nei casi di “lo stesso colore”, “la stessa forma”, “la stessa lunghezza”. Gli hanno anche insegnato l’impiego dell’espressione “indicare verso” in contesti quali “la freccia indica verso l’albero”. Ora gli mostriamo due frecce puntate l’una verso l’altra, poi due frecce che si inseguono e gli chiediamo in quale dei due casi applicherebbe l’espressione “le frecce indicano nella stessa direzione”. Non è facile immaginare che se nella sua mente certi impieghi fossero predominanti, lui sarebbe propenso a rispondere che le frecce → ← indicano “nella stessa direzione”?
Chiediamoci “diremo che le frecce → e ← indicano nella stessa direzione o in due direzioni diverse?” - Inizialmente saresti forse propenso a dire “in direzioni diverse, è ovvio”. Considera però il seguente punto di vista: se guardandomi allo specchio osservo il riflesso del mio volto, lo posso considerare un criterio per il fatto di vedere la mia testa. Se invece scorgessi una nuca potrei dire “ciò che vedo non può essere la mia testa, ma una testa che guarda nella direzione opposta”. Ciò dunque potrebbe indurmi a dire che una freccia e il suo riflesso in un vetro, quando si indicano l’un l’altra, vanno nella stessa direzione e, quando invece la testa di una delle due punta verso la coda dell’altra, in due direzioni opposte. Immagina il caso di un uomo a cui abbiano impartito l’uso ordinario dell’espressione “lo stesso” nei casi di “lo stesso colore”, “la stessa forma”, “la stessa lunghezza”. Gli hanno anche insegnato l’impiego dell’espressione “indicare verso” in contesti quali “la freccia indica verso l’albero”. Ora gli mostriamo due frecce puntate l’una verso l’altra, poi due frecce che si inseguono e gli chiediamo in quale dei due casi applicherebbe l’espressione “le frecce indicano nella stessa direzione”. Non è facile immaginare che se nella sua mente certi impieghi fossero predominanti, lui sarebbe propenso a rispondere che le frecce → ← indicano “nella stessa direzione”?


Nel sentire la scala diatonica siamo portati a dire che, dopo ogni sette note, ritorna la stessa nota e se ci chiedessero come mai la chiamiamo la stessa nota si potrebbe rispondere “be’, è di nuovo un do”. Non è questa però la spiegazione che volevo, poiché allora dovrei domandare “che cosa ti porta a chiamarlo di nuovo do?” A questo punto mi pare che la risposta sarebbe “be’, non senti che è la stessa tonalità, solo di un’ottava più alta?” – Anche in tal caso si potrebbe immaginare che a un uomo abbiano insegnato il nostro utilizzo dell’espressione “lo stesso” quando applicata a colori, lunghezze, direzioni etc. e che adesso gli suoniamo la scala diatonica e gli chiediamo se direbbe di aver sentito le stesse note riproporsi continuamente a certi intervalli; sarebbe facile ipotizzare varie risposte, in particolare, per esempio, quella secondo la quale costui ha sentito la stessa nota alternativamente dopo ogni quartetto o terzetto di note (il nostro soggetto chiama la tonica, la dominante e l’ottava la stessa nota).
Nel sentire la scala diatonica siamo portati a dire che, dopo ogni sette note, ritorna la stessa nota e se ci chiedessero come mai la chiamiamo la stessa nota si potrebbe rispondere “be’, è di nuovo un do”. Non è questa però la spiegazione che volevo, poiché allora dovrei domandare “che cosa ti porta a chiamarlo di nuovo do?” A questo punto mi pare che la risposta sarebbe “be’, non senti che è la stessa tonalità, solo di un’ottava più alta?” – Anche in tal caso si potrebbe immaginare che a un uomo abbiano insegnato il nostro utilizzo dell’espressione “lo stesso” quando applicata a colori, lunghezze, direzioni ecc. e che adesso gli suoniamo la scala diatonica e gli chiediamo se direbbe di aver sentito le stesse note riproporsi continuamente a certi intervalli; sarebbe facile ipotizzare varie risposte, in particolare, per esempio, quella secondo la quale costui ha sentito la stessa nota alternativamente dopo ogni quartetto o terzetto di note (il nostro soggetto chiama la tonica, la dominante e l’ottava la stessa nota).


Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo un qualche motivo per affermare che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se propendiamo per una risposta affermativa, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure se non è questo che vogliamo asserire.
Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo un qualche motivo per affermare che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se propendiamo per una risposta affermativa, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure se non è questo che vogliamo asserire.


Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero ''n'' maggior del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “addizionare ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini -, --, ---, etc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel fornire spiegazioni generiche ed esempi. – Suddetti esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “addiziona 1”. Dopo un po’ notiamo che passato 100 lui ha fatto quello che noi chiameremo addizionare 2; passato 300 quello che chiameremo addizionare 3. Noi lo sgridiamo “non ti ho detto di addizionare 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, etc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capite che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi forniti, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) così: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, etc.”.
Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero ''n'' maggior del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “addizionare ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini -, --, ---, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel fornire spiegazioni generiche ed esempi. – Suddetti esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “addiziona 1”. Dopo un po’ notiamo che passato 100 lui ha fatto quello che noi chiameremo addizionare 2; passato 300 quello che chiameremo addizionare 3. Noi lo sgridiamo “non ti ho detto di addizionare 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capite che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi forniti, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) così: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”.


(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto che indica in una direzione, muovendosi nella direzione accennata, bensì in quella contraria. Comprendere qui significa lo stesso di reagire).
(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto che indica in una direzione, muovendosi nella direzione accennata, bensì in quella contraria. Comprendere qui significa lo stesso di reagire).
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Non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo in un punto determinato della serie. Ci confonderebbe di meno chiamarla un atto di decisione, anche qui però si tratterebbe di una definizione equivocante, perché non deve avere luogo nulla di simile a una decisione, bensì ipoteticamente solo l’atto di scrivere o di parlare. L’errore che in questo e in migliaia di altri casi siamo propensi a commettere si estrinseca nella parola “fare” per come ce ne siamo serviti nella frase “non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo”, perché sottintende l’idea che “qualcosa debba farci fare” quello che dobbiamo fare. E questo aumenta ulteriormente la confusione tra causa e ragione. ''Non dobbiamo avere una ragione per seguire la regola nel modo in cui la seguiamo.'' La catena di ragioni ha un termine.
Non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo in un punto determinato della serie. Ci confonderebbe di meno chiamarla un atto di decisione, anche qui però si tratterebbe di una definizione equivocante, perché non deve avere luogo nulla di simile a una decisione, bensì ipoteticamente solo l’atto di scrivere o di parlare. L’errore che in questo e in migliaia di altri casi siamo propensi a commettere si estrinseca nella parola “fare” per come ce ne siamo serviti nella frase “non è un atto di comprensione, un’intuizione, che ci fa utilizzare la regola nel modo in cui la adoperiamo”, perché sottintende l’idea che “qualcosa debba farci fare” quello che dobbiamo fare. E questo aumenta ulteriormente la confusione tra causa e ragione. ''Non dobbiamo avere una ragione per seguire la regola nel modo in cui la seguiamo.'' La catena di ragioni ha un termine.


Adesso confronta le frasi “se dopo 100 scrivi 102, 104, etc., di sicuro si tratta di un uso diverso della regola ‘addiziona 1’” e “certamente si tratta di un uso diverso dell’espressione ‘più scura’, se dopo averla applicata alle macchie di colore la adoperiamo per le vocali”. – Dovrei replicare: “dipende da che cosa intendi con ‘un uso diverso’”. –
Adesso confronta le frasi “se dopo 100 scrivi 102, 104, ecc., di sicuro si tratta di un uso diverso della regola ‘addiziona 1’” e “certamente si tratta di un uso diverso dell’espressione ‘più scura’, se dopo averla applicata alle macchie di colore la adoperiamo per le vocali”. – Dovrei replicare: “dipende da che cosa intendi con ‘un uso diverso’”. –


Certamente affermerò di dover chiamare l’applicazione di “più chiara” e “più scura” alle vocali “un altro uso delle parole”; e dovrei continuare la serie “addiziona 1” nella maniera 101, 102, etc., ma non – o non necessariamente – a causa di qualche altro atto mentale che lo giustifichi.
Certamente affermerò di dover chiamare l’applicazione di “più chiara” e “più scura” alle vocali “un altro uso delle parole”; e dovrei continuare la serie “addiziona 1” nella maniera 101, 102, ecc., ma non – o non necessariamente – a causa di qualche altro atto mentale che lo giustifichi.


C’è una sorta di malattia del pensiero che cerca sempre (e lo trova) ciò che chiameremmo uno stato mentale, da cui tutti i nostri atti sprizzano come da un serbatoio. Perciò si dice “la moda cambia perché cambia il gusto della gente”. Il gusto è il serbatoio mentale. Ma se oggi un sarto disegna un abito di taglio diverso da quello che ha disegnato l’anno scorso, ciò che chiamiamo il suo cambio di gusto non può essere consistito, in parte o integralmente, nel limitarsi a disegnare un abito diverso?
C’è una sorta di malattia del pensiero che cerca sempre (e lo trova) ciò che chiameremmo uno stato mentale, da cui tutti i nostri atti sprizzano come da un serbatoio. Perciò si dice “la moda cambia perché cambia il gusto della gente”. Il gusto è il serbatoio mentale. Ma se oggi un sarto disegna un abito di taglio diverso da quello che ha disegnato l’anno scorso, ciò che chiamiamo il suo cambio di gusto non può essere consistito, in parte o integralmente, nel limitarsi a disegnare un abito diverso?


A questo punto ribattiamo “ma di certo disegnare una nuova forma in sé non equivale cambiare il proprio gusto – e dire una parola non è lo stesso di intenderla – e dire che credo non equivale a credere; devono esserci sentimenti, atti mentali, ad accompagnare queste frasi e queste parole”. – La ragione che forniamo per tali asserzioni è che sicuramente un uomo sarebbe in grado di disegnare una forma nuova senza cambiare il proprio gusto, dire che crede qualcosa senza crederlo, etc. Questo ovviamente è vero. Ma non ne consegue che ciò che distingue il caso in cui il mio gusto è cambiato dal caso in cui non è cambiato non possa ridursi in certe circostanze a disegnare ciò che non avevo mai disegnato prima. Non ne consegue nemmeno che nei casi in cui disegnare una nuova forma non è un criterio per stabilire un cambio di gusto, tale criterio debba essere invece un cambiamento in qualche regione particolare della mente.
A questo punto ribattiamo “ma di certo disegnare una nuova forma in sé non equivale cambiare il proprio gusto – e dire una parola non è lo stesso di intenderla – e dire che credo non equivale a credere; devono esserci sentimenti, atti mentali, ad accompagnare queste frasi e queste parole”. – La ragione che forniamo per tali asserzioni è che sicuramente un uomo sarebbe in grado di disegnare una forma nuova senza cambiare il proprio gusto, dire che crede qualcosa senza crederlo, ecc. Questo ovviamente è vero. Ma non ne consegue che ciò che distingue il caso in cui il mio gusto è cambiato dal caso in cui non è cambiato non possa ridursi in certe circostanze a disegnare ciò che non avevo mai disegnato prima. Non ne consegue nemmeno che nei casi in cui disegnare una nuova forma non è un criterio per stabilire un cambio di gusto, tale criterio debba essere invece un cambiamento in qualche regione particolare della mente.


Ovverosia, non ci serviamo della parola “gusto” come del nome di un sentimento. Pensare invece che sia così significa rappresentare la pratica del nostro linguaggio con una semplificazione indebita. Questo naturalmente è il modo in cui di solito sorgono le perplessità filosofiche; il nostro caso è del tutto analogo all’idea che ogniqualvolta facciamo un’affermazione predicativa asseriamo che il soggetto contiene un certo ingrediente (come accade davvero nel caso di “la birra è alcolica”).
Ovverosia, non ci serviamo della parola “gusto” come del nome di un sentimento. Pensare invece che sia così significa rappresentare la pratica del nostro linguaggio con una semplificazione indebita. Questo naturalmente è il modo in cui di solito sorgono le perplessità filosofiche; il nostro caso è del tutto analogo all’idea che ogniqualvolta facciamo un’affermazione predicativa asseriamo che il soggetto contiene un certo ingrediente (come accade davvero nel caso di “la birra è alcolica”).


Per esaminare il nostro problema è utile considerare in parallelo con il sentimento o i sentimenti che accompagnano il fatto di avere un certo gusto, o di cambiarlo, o di intendere ciò che si dice, etc. etc. le espressioni facciali (mimica o tono di voce) caratterizzanti gli stessi stati di cose. Se qualcuno dovesse obiettare che sentimenti ed espressioni facciali non si possono paragonare, poiché i primi sono esperienze e le seconde no, lo si faccia riflettere sulle esperienze muscolari, cinestetiche e tattili legate ai gesti e alle espressioni facciali.
Per esaminare il nostro problema è utile considerare in parallelo con il sentimento o i sentimenti che accompagnano il fatto di avere un certo gusto, o di cambiarlo, o di intendere ciò che si dice, ecc. ecc. le espressioni facciali (mimica o tono di voce) caratterizzanti gli stessi stati di cose. Se qualcuno dovesse obiettare che sentimenti ed espressioni facciali non si possono paragonare, poiché i primi sono esperienze e le seconde no, lo si faccia riflettere sulle esperienze muscolari, cinestetiche e tattili legate ai gesti e alle espressioni facciali.


Pensiamo alla proposizione “credere in qualcosa non può consistere soltanto nel dire che ci credi, lo devi dire con una particolare espressione facciale, gestualità, tono di voce”. È indubbio che consideriamo certe espressioni, gesti, etc. come caratteristici dell’espressione di credenza. Diciamo “in tono convinto”. Eppure è evidente che suddetto tono convinto non è presente ogniqualvolta si parla giustamente di convinzione. “Infatti” potresti rispondermi tu “ciò mostra che c’è qualcos’altro, qualcosa dietro a questi gesti, etc. che è la vera credenza, distinta dalle mere espressioni di credenza”. “Niente affatto” ti risponderei, “molti criteri diversi distinguono, in diverse circostanze, casi in cui si crede a ciò che si dice da casi in cui non si crede a ciò che si dice”. Possono esserci casi in cui la presenza di una sensazione diversa da quelle connesse a gesti, al tono di voce, etc. distingue il fatto di intendere ciò che si dice dal fatto di non intenderlo. Qualche volta però a operare tale distinzione non è qualcosa che succede mentre si parla, ma uno stuolo di azioni ed esperienze di vario genere che accadono sia prima sia dopo.
Pensiamo alla proposizione “credere in qualcosa non può consistere soltanto nel dire che ci credi, lo devi dire con una particolare espressione facciale, gestualità, tono di voce”. È indubbio che consideriamo certe espressioni, gesti, ecc. come caratteristici dell’espressione di credenza. Diciamo “in tono convinto”. Eppure è evidente che suddetto tono convinto non è presente ogniqualvolta si parla giustamente di convinzione. “Infatti” potresti rispondermi tu “ciò mostra che c’è qualcos’altro, qualcosa dietro a questi gesti, ecc. che è la vera credenza, distinta dalle mere espressioni di credenza”. “Niente affatto” ti risponderei, “molti criteri diversi distinguono, in diverse circostanze, casi in cui si crede a ciò che si dice da casi in cui non si crede a ciò che si dice”. Possono esserci casi in cui la presenza di una sensazione diversa da quelle connesse a gesti, al tono di voce, ecc. distingue il fatto di intendere ciò che si dice dal fatto di non intenderlo. Qualche volta però a operare tale distinzione non è qualcosa che succede mentre si parla, ma uno stuolo di azioni ed esperienze di vario genere che accadono sia prima sia dopo.


Per comprendere questa famiglia di casi ci sarà nuovamente d’aiuto considerare un caso analogo preso dall’ambito delle espressioni facciali. Esiste una famiglia di espressioni facciali amichevoli. Immagina che avessimo chiesto “qual è l’elemento che caratterizza un viso amichevole?” All’inizio si potrebbe pensare che ci siano certi tratti che si potrebbero chiamare tratti amichevoli, ognuno dei quali conferisce al volto un certo grado di amichevolezza e che quando presenti in gran quantità rendono un viso amichevole. Tale idea sembra confermata dal nostro linguaggio comune, in cui si parla di “sguardo amichevole”, “sorriso amichevole”, etc. È facile però vedere che lo stesso sguardo di cui diciamo che rende un volto amichevole, se accompagnato da certe rughe sulla fronte, o da certe linee attorno alla bocca, etc. non sembra più amichevole né ostile. Perché allora ci viene da dire che è questo sguardo a parerci amichevole? Visto che, se sosteniamo che lo sguardo opera così “in alcune circostanze” (tali circostanze essendo gli altri elementi del viso) è solo perché abbiamo individuato un unico tratto a scapito degli altri, non è quindi sbagliato dire che è tale sguardo a determinare l’amichevolezza del volto? La risposta è che nella grande famiglia delle facce amichevoli c’è quello che potremmo chiamare un ramo principale, caratterizzato da un certo tipo di sguardo, un altro da un certo tipo di sorriso, etc.; anche se nell’ampia famiglia di facce ostili ci imbattiamo in quello stesso sguardo, quest’ultimo non mitiga l’ostilità dell’espressione. – Bisogna inoltre considerare che, quando si nota l’espressione amichevole di un volto, la nostra attenzione, i nostri occhi, si soffermano su un suo elemento specifico, cioè “lo sguardo amichevole” o “il sorriso amichevole”, etc. e non invece su altri tratti, che pure sono a loro volta responsabili dell’espressione amichevole.
Per comprendere questa famiglia di casi ci sarà nuovamente d’aiuto considerare un caso analogo preso dall’ambito delle espressioni facciali. Esiste una famiglia di espressioni facciali amichevoli. Immagina che avessimo chiesto “qual è l’elemento che caratterizza un viso amichevole?” All’inizio si potrebbe pensare che ci siano certi tratti che si potrebbero chiamare tratti amichevoli, ognuno dei quali conferisce al volto un certo grado di amichevolezza e che quando presenti in gran quantità rendono un viso amichevole. Tale idea sembra confermata dal nostro linguaggio comune, in cui si parla di “sguardo amichevole”, “sorriso amichevole”, ecc. È facile però vedere che lo stesso sguardo di cui diciamo che rende un volto amichevole, se accompagnato da certe rughe sulla fronte, o da certe linee attorno alla bocca, ecc. non sembra più amichevole né ostile. Perché allora ci viene da dire che è questo sguardo a parerci amichevole? Visto che, se sosteniamo che lo sguardo opera così “in alcune circostanze” (tali circostanze essendo gli altri elementi del viso) è solo perché abbiamo individuato un unico tratto a scapito degli altri, non è quindi sbagliato dire che è tale sguardo a determinare l’amichevolezza del volto? La risposta è che nella grande famiglia delle facce amichevoli c’è quello che potremmo chiamare un ramo principale, caratterizzato da un certo tipo di sguardo, un altro da un certo tipo di sorriso, ecc.; anche se nell’ampia famiglia di facce ostili ci imbattiamo in quello stesso sguardo, quest’ultimo non mitiga l’ostilità dell’espressione. – Bisogna inoltre considerare che, quando si nota l’espressione amichevole di un volto, la nostra attenzione, i nostri occhi, si soffermano su un suo elemento specifico, cioè “lo sguardo amichevole” o “il sorriso amichevole”, ecc. e non invece su altri tratti, che pure sono a loro volta responsabili dell’espressione amichevole.


“Non c’è quindi differenza tra dire qualche cosa e intenderla davvero e dirla senza intenderla?” Non deve esserci per forza una differenza mentre lo si dice, e se esiste, tale differenza potrebbe essere sempre diversa a seconda delle circostanze. Dal fatto che c’è ciò che chiamiamo un’espressione amichevole e un’espressione ostile dello sguardo non ne consegue che debba esserci una differenza tra lo sguardo di una faccia amichevole e lo sguardo di una faccia ostile.
“Non c’è quindi differenza tra dire qualche cosa e intenderla davvero e dirla senza intenderla?” Non deve esserci per forza una differenza mentre lo si dice, e se esiste, tale differenza potrebbe essere sempre diversa a seconda delle circostanze. Dal fatto che c’è ciò che chiamiamo un’espressione amichevole e un’espressione ostile dello sguardo non ne consegue che debba esserci una differenza tra lo sguardo di una faccia amichevole e lo sguardo di una faccia ostile.
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Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non ci fosse la coppia di verbi “parlare”: :“pensare”  e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.
Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non ci fosse la coppia di verbi “parlare”: :“pensare”  e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.


Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, etc., tutti fattori che chiameremmo mezzi di espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mezzi di espressività come il gioco della mimica facciale o dei gesti, e che possono essere considerati accompagnamenti del discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.
Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, ecc., tutti fattori che chiameremmo mezzi di espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mezzi di espressività come il gioco della mimica facciale o dei gesti, e che possono essere considerati accompagnamenti del discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.


Torniamo all’esempio sull’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due impieghi diversi è la seguente: “non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una vaga somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari o più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine di oscurità”. Nel pronunciare tale frase, dovrei di certo adoperare un tono diverso rispetto a quello che impiegherei nel dire “disponi questi libri dal più chiaro al più scuro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero tu riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
Torniamo all’esempio sull’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due impieghi diversi è la seguente: “non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una vaga somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari o più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine di oscurità”. Nel pronunciare tale frase, dovrei di certo adoperare un tono diverso rispetto a quello che impiegherei nel dire “disponi questi libri dal più chiaro al più scuro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero tu riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
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Quando filosofiamo su simili argomenti finiamo quasi sempre per compiere operazioni di questo genere: ripetiamo a noi stessi una certa esperienza, per esempio fissiamo un certo oggetto e tentiamo di “leggervi scritto”, per così dire, il nome del suo colore. Ed è del tutto naturale che a forza di fare e rifare la stessa prova saremo portati a dire “quando pronuncio la parola ‘blu’, accade qualcosa di specifico”. Perché siamo sempre consapevoli di stare ripetendo continuamente lo stesso processo. Chiediti però: si tratta dello stesso processo che, quando in varie occasioni – non mentre siamo intenti a filosofare – nominiamo il colore di un oggetto, compiamo normalmente?
Quando filosofiamo su simili argomenti finiamo quasi sempre per compiere operazioni di questo genere: ripetiamo a noi stessi una certa esperienza, per esempio fissiamo un certo oggetto e tentiamo di “leggervi scritto”, per così dire, il nome del suo colore. Ed è del tutto naturale che a forza di fare e rifare la stessa prova saremo portati a dire “quando pronuncio la parola ‘blu’, accade qualcosa di specifico”. Perché siamo sempre consapevoli di stare ripetendo continuamente lo stesso processo. Chiediti però: si tratta dello stesso processo che, quando in varie occasioni – non mentre siamo intenti a filosofare – nominiamo il colore di un oggetto, compiamo normalmente?


In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, si direbbe, abbiamo un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confrontalo con l’esempio in cui passo a un uomo, che ho intento a cercare di accendersi la sigaretta, un fiammifero acceso con la mia sigaretta; oppure ancora il caso di muovere la mano per scrivere una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, etc. per parlare. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, mi sono servito apposta di un’espressione equivocabile. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere dell’intenzionalità. Da questo tipo di esempi sulla volontà si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio e si crede di poterli applicare – magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si potrebbero chiamare casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, etc. etc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso inequivocabile di lettura. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione di cui è l’intenzione e nel primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere il caso in questione da quello in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del fatto di ponderare e del fatto di decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli esempi restanti e in infiniti altri che avremmo potuto fare?
In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, si direbbe, abbiamo un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confrontalo con l’esempio in cui passo a un uomo, che ho intento a cercare di accendersi la sigaretta, un fiammifero acceso con la mia sigaretta; oppure ancora il caso di muovere la mano per scrivere una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, ecc. per parlare. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, mi sono servito apposta di un’espressione equivocabile. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere dell’intenzionalità. Da questo tipo di esempi sulla volontà si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio e si crede di poterli applicare – magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si potrebbero chiamare casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, ecc. ecc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso inequivocabile di lettura. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione di cui è l’intenzione e nel primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere il caso in questione da quello in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del fatto di ponderare e del fatto di decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli esempi restanti e in infiniti altri che avremmo potuto fare?


D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: costui rimugina “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto intenzionale. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto siffatto? Penso che il paradigma dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a confutarla; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di un qualche azione riflessa. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso del palmo che sfiora l’intonaco, se mantenendo l’arto rigido premo le nocche contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano di fretta dalla parete lasciando il braccio molle, tale braccio, senza da parte mia alcuna azione, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di casi in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.
D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: costui rimugina “è ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto intenzionale. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto siffatto? Penso che il paradigma dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a confutarla; diremo “non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di un qualche azione riflessa. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso del palmo che sfiora l’intonaco, se mantenendo l’arto rigido premo le nocche contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano di fretta dalla parete lasciando il braccio molle, tale braccio, senza da parte mia alcuna azione, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di casi in cui sarebbe corretto dire “''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi”.
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(Qui è interessante pensare al caso in cui succhia un liquido da un tubo; se ti chiedessero con quale parte del corpo hai succhiato, tu saresti propenso a dire la bocca, ma in realtà si è trattato degli stessi muscoli che impieghi per respirare).
(Qui è interessante pensare al caso in cui succhia un liquido da un tubo; se ti chiedessero con quale parte del corpo hai succhiato, tu saresti propenso a dire la bocca, ma in realtà si è trattato degli stessi muscoli che impieghi per respirare).


Chiediamoci ora cosa dovremmo chiamare “parlare in maniera involontaria”. Innanzitutto osserva che di norma quando ti esprimi volontariamente poi faticheresti molto a descrivere l’accaduto dicendo che con un atto di volizione hai mosso la bocca, la lingua, la laringe, etc. in quanto mezzi per produrre certi suoni. Qualunque cosa accada nella tua bocca, laringe, etc. e qualunque sensazione tu parlando sperimenti in tali zone, sembrerebbe trattarsi quasi di un fenomeno secondario che accompagna la produzione dei suoni e la volizione, vorremmo dire, opera sui suoni stessi senza meccanismi intermedi. Ciò mostra la vaghezza della nostra idea di tale “volizione” attiva.
Chiediamoci ora cosa dovremmo chiamare “parlare in maniera involontaria”. Innanzitutto osserva che di norma quando ti esprimi volontariamente poi faticheresti molto a descrivere l’accaduto dicendo che con un atto di volizione hai mosso la bocca, la lingua, la laringe, ecc. in quanto mezzi per produrre certi suoni. Qualunque cosa accada nella tua bocca, laringe, ecc. e qualunque sensazione tu parlando sperimenti in tali zone, sembrerebbe trattarsi quasi di un fenomeno secondario che accompagna la produzione dei suoni e la volizione, vorremmo dire, opera sui suoni stessi senza meccanismi intermedi. Ciò mostra la vaghezza della nostra idea di tale “volizione” attiva.


Passiamo al parlare in modo involontario. Immagina di dover descrivere un esempio del genere… come faresti? C’è ovviamente il caso del parlare nel sonno; qui la caratteristica saliente è che, mentre accade, non ne sai nulla e in seguito non ti ricordi niente. Di certo però questa non la chiameresti la caratterizzazione di un’azione involontaria.
Passiamo al parlare in modo involontario. Immagina di dover descrivere un esempio del genere… come faresti? C’è ovviamente il caso del parlare nel sonno; qui la caratteristica saliente è che, mentre accade, non ne sai nulla e in seguito non ti ricordi niente. Di certo però questa non la chiameresti la caratterizzazione di un’azione involontaria.
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Urlare di dolore contro la propria volontà lo si potrebbe paragonare a sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno, pungolandoci con una pistola tra le costole e ordinando “mani in alto!”, ci costringesse a sollevare le braccia.
Urlare di dolore contro la propria volontà lo si potrebbe paragonare a sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno, pungolandoci con una pistola tra le costole e ordinando “mani in alto!”, ci costringesse a sollevare le braccia.


Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, in parte appartenenti al tuo idioma natio, in parte a lingue straniere a te più o meno familiari, in parte a linguaggi che ti sono completamente sconosciuti (oppure –in fondo qui è lo stesso – termini senza senso inventati apposta.) Alcune delle parole della mia madrelingua sono ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo” sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime imparate da un bambino, e alcune di queste, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici quali “carburatore”, “dinamo”, “fuso”; etc. etc. Tutte queste parole mi vengono lette e dopo ognuna io, a seconda del fatto che la capisco oppure no, devo dire “sì” o “no”. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso i termini che ho compreso e quando non ho capito le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostra una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non porterà alla luce nessuna esperienza che saremo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze simili a queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo”. Oppure sento “corroborazione”… dico a me stesso “vediamo un po’”, mi sovviene il vago ricordo di un caso inerente e dico “sì”. Sento “aggeggio”, immagino l’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo… “sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di rintracciarne il significato per etimologia, ma non ci riesco e affermo “no”. In un altro caso dire a me stesso “sembra cinese… no”. Etc. D’altra parte ci sarà una grande varietà di casi in cui, oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta, non sarò consapevole di altro. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non avevano assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci sarà una classe che potremmo chiamare esperienze tipiche del capire ed esperienze tipiche del non capire. In contrasto con tale classe di casi ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrò dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.
Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, in parte appartenenti al tuo idioma natio, in parte a lingue straniere a te più o meno familiari, in parte a linguaggi che ti sono completamente sconosciuti (oppure –in fondo qui è lo stesso – termini senza senso inventati apposta.) Alcune delle parole della mia madrelingua sono ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo” sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime imparate da un bambino, e alcune di queste, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici quali “carburatore”, “dinamo”, “fuso”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette e dopo ognuna io, a seconda del fatto che la capisco oppure no, devo dire “sì” o “no”. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso i termini che ho compreso e quando non ho capito le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostra una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non porterà alla luce nessuna esperienza che saremo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze simili a queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo”. Oppure sento “corroborazione”… dico a me stesso “vediamo un po’”, mi sovviene il vago ricordo di un caso inerente e dico “sì”. Sento “aggeggio”, immagino l’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo… “sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di rintracciarne il significato per etimologia, ma non ci riesco e affermo “no”. In un altro caso dire a me stesso “sembra cinese… no”. ecc. D’altra parte ci sarà una grande varietà di casi in cui, oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta, non sarò consapevole di altro. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non avevano assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci sarà una classe che potremmo chiamare esperienze tipiche del capire ed esperienze tipiche del non capire. In contrasto con tale classe di casi ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrò dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.


Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo “sì” tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’, qualcosa è accaduto”, sarei portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento grezzo?” Tuttavia, quando sento o impiego tale parola, provo sempre il sentimento a cui mi riferivo, rammento di averlo sempre provato, mi ricordo addirittura una serie di, poniamo, cinque sensazioni, alcune delle quali ho sperimentato in ciascuna delle occasioni in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento grezzo” appena menzionato non è un’esperienza caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero dell’atto di filosofare sul “capire?”
Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo “sì” tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’, qualcosa è accaduto”, sarei portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento grezzo?” Tuttavia, quando sento o impiego tale parola, provo sempre il sentimento a cui mi riferivo, rammento di averlo sempre provato, mi ricordo addirittura una serie di, poniamo, cinque sensazioni, alcune delle quali ho sperimentato in ciascuna delle occasioni in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento grezzo” appena menzionato non è un’esperienza caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero dell’atto di filosofare sul “capire?”
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L’impiego della parola “particolare” è atta a produrre una specie di delusione e in termini approssimativi tale delusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, affermeremmo, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare enfasi. Il primo impiego lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato asserisco “questo viso mi procura un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “il tale volto mi dà una forte impressione”. Questi esempi riuscirebbero più notevoli se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché a quest’ultima possiamo applicare le stesse osservazioni. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere impiegata semplicemente alla stregua di un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ti dirò di cosa sa questo sapone…”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''” oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” significa un’espressione come “fuori dal comune”, “straordinario”, “degno di nota”.
L’impiego della parola “particolare” è atta a produrre una specie di delusione e in termini approssimativi tale delusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, affermeremmo, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare enfasi. Il primo impiego lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato asserisco “questo viso mi procura un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “il tale volto mi dà una forte impressione”. Questi esempi riuscirebbero più notevoli se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché a quest’ultima possiamo applicare le stesse osservazioni. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere impiegata semplicemente alla stregua di un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ti dirò di cosa sa questo sapone…”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''” oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” significa un’espressione come “fuori dal comune”, “straordinario”, “degno di nota”.


Potremmo domandare “intendevi che ha un odore peculiare per distinguerlo da un sapone neutro, oppure che aveva questo odore, diverso da qualche altro odore, oppure intendevi entrambe le cose?” – Ora di cosa si è trattato quando filosofando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso e ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare? Stavo per descrivere il modo in cui mi è sovvenuta la parola “rosso”, come per affermare “quando conto degli oggetti colorati, mi viene sempre più in fretta della parola due” oppure “arriva sempre con un trasalimento”, etc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi giunge in una maniera notevole? No, non è esattamente nemmeno questo. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati durante un’attività qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, etc. etc.) e, nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”, di’ a te stesso “ora mi trovo in un atteggiamento particolare”. Scoprirai di poterlo asserire in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in un atteggiamento particolare? E di certo non intendevi affermare che proprio allora ti trovavi in atteggiamento particolarmente degno di nota. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato, come è stato osservato, sulle tue sensazioni. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.
Potremmo domandare “intendevi che ha un odore peculiare per distinguerlo da un sapone neutro, oppure che aveva questo odore, diverso da qualche altro odore, oppure intendevi entrambe le cose?” – Ora di cosa si è trattato quando filosofando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso e ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare? Stavo per descrivere il modo in cui mi è sovvenuta la parola “rosso”, come per affermare “quando conto degli oggetti colorati, mi viene sempre più in fretta della parola due” oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi giunge in una maniera notevole? No, non è esattamente nemmeno questo. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati durante un’attività qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e, nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”, di’ a te stesso “ora mi trovo in un atteggiamento particolare”. Scoprirai di poterlo asserire in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in un atteggiamento particolare? E di certo non intendevi affermare che proprio allora ti trovavi in atteggiamento particolarmente degno di nota. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato, come è stato osservato, sulle tue sensazioni. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.


“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” Tu magari intendevi così, ma l’espressione “mi giungono in modi diversi” è in sé passibile di malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così le loro maniere di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in maniere diverse e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari affermeresti “certo che arrivano in modi diversi; ''sono'' semplicemente diversi”. – Si potrebbe descrivere il problema dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo decidere quale utilizzo farne, anzi senza avere alcuna intenzione di impiegarla in alcun modo. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho la sensazione di poter dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome come “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco in tale modo quello in cui in simili occasioni “rosso” mi si è sempre presentato alla mente, nemmeno per sostenere che ci sono, poniamo, quattro modi, per esempio A, B, C, D, in uno dei quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui giungono “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” quale nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il tuo sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui giungono tali parole” indipendentemente dai rispettivi modi di impiego… ovvero dai modi appena descritti. Volevi dire che nell’esperienza, quando utilizzata in ''questo'' modo, la parola viene sempre nel modo A, ma la prossima volta può giungere invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi affermare nulla del genere.
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” Tu magari intendevi così, ma l’espressione “mi giungono in modi diversi” è in sé passibile di malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così le loro maniere di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in maniere diverse e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari affermeresti “certo che arrivano in modi diversi; ''sono'' semplicemente diversi”. – Si potrebbe descrivere il problema dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo decidere quale utilizzo farne, anzi senza avere alcuna intenzione di impiegarla in alcun modo. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho la sensazione di poter dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome come “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco in tale modo quello in cui in simili occasioni “rosso” mi si è sempre presentato alla mente, nemmeno per sostenere che ci sono, poniamo, quattro modi, per esempio A, B, C, D, in uno dei quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui giungono “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” quale nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il tuo sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui giungono tali parole” indipendentemente dai rispettivi modi di impiego… ovvero dai modi appena descritti. Volevi dire che nell’esperienza, quando utilizzata in ''questo'' modo, la parola viene sempre nel modo A, ma la prossima volta può giungere invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi affermare nulla del genere.


Ciò che è particolare nel modo in cui “rosso” ti si presenta è che arriva mentre tu stai filosofando su di esso, proprio come, quanto ti sei concentrato, quel che era particolare nella posizione del tuo corpo era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun’altra modalità. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se l’enfasi fosse davvero un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza” e se mi si chiede “che modo è?” risponderei “prima di entrare, sporge sempre la testa nella porta”. Qui mi riferisco a un elemento definito e potrei dire che B adotta la stessa maniera o che A invece non la adotta più. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire descrizioni di un qualche elemento specifico del suo atteggiamento e la mia frase potrebbe significare solo “sto osservando A che è seduto e fuma”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo dovrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, ''questo'' modo” e magari la si potrebbe accompagnare con un abbozzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. Invece la mia espressione “ha un modo particolare…” la si potrebbe tradurre semplicemente in “sto studiando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la proposizione; nella forma originaria sembrava descrivere un circolo vizioso, ovvero la parola “particolare” qui pare essere impiegata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, ovverosia guardiamo al suo utilizzo come a un caso specifico dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in ''questo'' modo” piuttosto che “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione ha fatto sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui è arrivata la parola “rosso”, mentre invece ciò che mi porta a impiegare la parola “particolare” qui è il fatto che il mio atteggiamento nei confronti del fenomeno che sto enfatizzando è: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, etc.
Ciò che è particolare nel modo in cui “rosso” ti si presenta è che arriva mentre tu stai filosofando su di esso, proprio come, quanto ti sei concentrato, quel che era particolare nella posizione del tuo corpo era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun’altra modalità. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se l’enfasi fosse davvero un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza” e se mi si chiede “che modo è?” risponderei “prima di entrare, sporge sempre la testa nella porta”. Qui mi riferisco a un elemento definito e potrei dire che B adotta la stessa maniera o che A invece non la adotta più. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire descrizioni di un qualche elemento specifico del suo atteggiamento e la mia frase potrebbe significare solo “sto osservando A che è seduto e fuma”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo dovrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, ''questo'' modo” e magari la si potrebbe accompagnare con un abbozzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. Invece la mia espressione “ha un modo particolare…” la si potrebbe tradurre semplicemente in “sto studiando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la proposizione; nella forma originaria sembrava descrivere un circolo vizioso, ovvero la parola “particolare” qui pare essere impiegata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, ovverosia guardiamo al suo utilizzo come a un caso specifico dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in ''questo'' modo” piuttosto che “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione ha fatto sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui è arrivata la parola “rosso”, mentre invece ciò che mi porta a impiegare la parola “particolare” qui è il fatto che il mio atteggiamento nei confronti del fenomeno che sto enfatizzando è: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc.


Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa riflettendo su problemi filosofici. Molti intoppi sorgono in tale modo, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo per poi spiegarlo, quando il termine è impiegato intransitivamente, ricorrendo a una costruzione riflessiva.
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa riflettendo su problemi filosofici. Molti intoppi sorgono in tale modo, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo per poi spiegarlo, quando il termine è impiegato intransitivamente, ricorrendo a una costruzione riflessiva.
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Ciò che è in corso qui è l’atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è il volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori dalla faccia che vediamo, bensì che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che la faccia eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse un prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del viso fosse trovare il prototipo a cui corrisponde… come se nella nostra mente ci fosse un calco e l’immagine che scorgiamo fosse caduta in tale calco, combaciandoci. Invece abbiamo fatto sprofondare l’immagine nella mente, in cui ha lsciato un calco.
Ciò che è in corso qui è l’atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è il volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori dalla faccia che vediamo, bensì che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che la faccia eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse un prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del viso fosse trovare il prototipo a cui corrisponde… come se nella nostra mente ci fosse un calco e l’immagine che scorgiamo fosse caduta in tale calco, combaciandoci. Invece abbiamo fatto sprofondare l’immagine nella mente, in cui ha lsciato un calco.


Ovviamente, quando diciamo “questa è una ''faccia'', non solo dei tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, etc. Se invece gli chiedi: “questo che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee a casaccio”. Ora pensa a cercare un uomo in un mosaico di immagini; in tal caso accade spesso che quello che a prima vista sembra “solo linee a casaccio” poi ci appaia come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è una faccia”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che riconosciamo il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come una faccia''” va paragonato invece al fatto di scorgere il disegno seguente
Ovviamente, quando diciamo “questa è una ''faccia'', non solo dei tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, ecc. Se invece gli chiedi: “questo che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee a casaccio”. Ora pensa a cercare un uomo in un mosaico di immagini; in tal caso accade spesso che quello che a prima vista sembra “solo linee a casaccio” poi ci appaia come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è una faccia”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che riconosciamo il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come una faccia''” va paragonato invece al fatto di scorgere il disegno seguente




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oppure ancora con il fatto di vedere i quattro puntini …. come due paia di punti uno accanto all’altro o due paia alternate, o un paio circoscritto dall’altro paio, etc.
oppure ancora con il fatto di vedere i quattro puntini …. come due paia di punti uno accanto all’altro o due paia alternate, o un paio circoscritto dall’altro paio, ecc.


Il caso di “vedere
Il caso di “vedere
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come una svastica” è di speciale interesse perché tale espressione potrebbe significare che noi siamo, in qualche modo, affetti dall’illusione ottica secondo la quale il quadrato non sarebbe del tutto chiuso e si scorgerebbero i pertugi che distinguono la svastica dal nostro disegno. D’altronde è evidente che non è questo che intendevamo affermando “vedere il disegno come una svastica”. L’abbiamo osservata in un modo che suggeriva la descrizione “la vedo come una svastica”. Forse sarebbe stato meglio dire “la vedo come una svastica chiusa”… ma allora qual è la differenza tra una svastica chiusa è un quadrato con le diagonali? Penso che in questo caso sia facile riconoscere “ciò che accade quando vediamo la figura come una svastica”. Credo che si tratti del fatto che ripercorriamo la figura con gli occhi in un modo particolare, cioè del fatto di fissarne il centro, di seguirne un raggio con il suo lato adiacente, di tornare verso il centro, di prendere il raggio successivo con il suo lato connesso operando dunque una rotazione verso destra, etc. Ma questa ''spiegazione'' del fenomeno di vedere la figura come una svastica non è per noi di rilevanza fondamentale. Ci interessa solo nella misura in cui contribuisce a mostrarci che l’espressione “scorgere la figura come una svastica” non significa vedere ''questo'' per ''quello'', vedere una cosa come un’altra cosa quando cioè, in sostanza, ''due'' oggetti visivi sono entrati nel processo in corso. – Quindi anche vedere la prima figura come un cubo non significava “prenderla per un cubo”. (Poiché potremmo non aver mai visto un cubo e comunque avere l’esperienza di “vederlo come un cubo”).
come una svastica” è di speciale interesse perché tale espressione potrebbe significare che noi siamo, in qualche modo, affetti dall’illusione ottica secondo la quale il quadrato non sarebbe del tutto chiuso e si scorgerebbero i pertugi che distinguono la svastica dal nostro disegno. D’altronde è evidente che non è questo che intendevamo affermando “vedere il disegno come una svastica”. L’abbiamo osservata in un modo che suggeriva la descrizione “la vedo come una svastica”. Forse sarebbe stato meglio dire “la vedo come una svastica chiusa”… ma allora qual è la differenza tra una svastica chiusa è un quadrato con le diagonali? Penso che in questo caso sia facile riconoscere “ciò che accade quando vediamo la figura come una svastica”. Credo che si tratti del fatto che ripercorriamo la figura con gli occhi in un modo particolare, cioè del fatto di fissarne il centro, di seguirne un raggio con il suo lato adiacente, di tornare verso il centro, di prendere il raggio successivo con il suo lato connesso operando dunque una rotazione verso destra, ecc. Ma questa ''spiegazione'' del fenomeno di vedere la figura come una svastica non è per noi di rilevanza fondamentale. Ci interessa solo nella misura in cui contribuisce a mostrarci che l’espressione “scorgere la figura come una svastica” non significa vedere ''questo'' per ''quello'', vedere una cosa come un’altra cosa quando cioè, in sostanza, ''due'' oggetti visivi sono entrati nel processo in corso. – Quindi anche vedere la prima figura come un cubo non significava “prenderla per un cubo”. (Poiché potremmo non aver mai visto un cubo e comunque avere l’esperienza di “vederlo come un cubo”).


In tal modo “vedere dei trattini come un volto” non comporta un confronto tra un gruppo di trattini e un vero volto umano; tuttavia tale forma di espressione suggerisce nella maniera più stringente che si si stia alludendo a un qualche confronto.
In tal modo “vedere dei trattini come un volto” non comporta un confronto tra un gruppo di trattini e un vero volto umano; tuttavia tale forma di espressione suggerisce nella maniera più stringente che si si stia alludendo a un qualche confronto.
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Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni paragonando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali… confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a fare degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, ovverosia dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che combaciano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si individua un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di affermare che, in molti dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente ciò che ci induce a fornire una tale descrizione è il fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo nella posizione in cui l’avevo visto per l’ultima volta dieci anni fa.
Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni paragonando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali… confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a fare degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, ovverosia dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che combaciano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si individua un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di affermare che, in molti dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente ciò che ci induce a fornire una tale descrizione è il fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo nella posizione in cui l’avevo visto per l’ultima volta dieci anni fa.


Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo in atto nella mente e fuori quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' mentre lo riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!” Quindi affermeremmo che una delle tipologie del fatto di riconoscere qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, etc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e vediamo un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma con cui poi concorda, oppure combacia con un calco pronto per il suo ingresso nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non si staglia alcun calco né paragone, c’è solo questa forma, non altre a cui paragonarla e, per così dire, apostrofarla con un “ma certo!” Come quando mentre fai un puzzle da qualche parte resta un foro, poi vedi un pezzo palesemente combaciante e lo metti nello spazio vuoto dicendoti “ma certo!” Qui però esclamiamo “ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con il calco, nel caso invece in cui scorgiamo il disegno come una faccia ci troviamo in un atteggiamento analogo ma ''senza'' ragione.
Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo in atto nella mente e fuori quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' mentre lo riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!” Quindi affermeremmo che una delle tipologie del fatto di riconoscere qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e vediamo un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma con cui poi concorda, oppure combacia con un calco pronto per il suo ingresso nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non si staglia alcun calco né paragone, c’è solo questa forma, non altre a cui paragonarla e, per così dire, apostrofarla con un “ma certo!” Come quando mentre fai un puzzle da qualche parte resta un foro, poi vedi un pezzo palesemente combaciante e lo metti nello spazio vuoto dicendoti “ma certo!” Qui però esclamiamo “ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con il calco, nel caso invece in cui scorgiamo il disegno come una faccia ci troviamo in un atteggiamento analogo ma ''senza'' ragione.


La stessa strana illusione che ci affligge quando sembra che cerchiamo il qualcosa che una faccia esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai tratti posti di fronte a noi… questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci un motivo e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, affermiamo “questo motivo dice ''qualcosa''” ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla in cui potrei esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendolo, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, sarebbe grossomodo come affermare “esprime solo se stesso”. – “Di certo però, quando lo suoni, non lo suoni ''in un modo qualunque'' bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, etc.”.
La stessa strana illusione che ci affligge quando sembra che cerchiamo il qualcosa che una faccia esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai tratti posti di fronte a noi… questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci un motivo e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, affermiamo “questo motivo dice ''qualcosa''” ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla in cui potrei esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendolo, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, sarebbe grossomodo come affermare “esprime solo se stesso”. – “Di certo però, quando lo suoni, non lo suoni ''in un modo qualunque'' bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”.


- Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando affermo “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, etc. (Ciò peraltro mostra che cos’è “una giustificazione” o “una spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare un motivo e dire “non è che così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?” L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che è per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiedesse “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettare in un modo particolare e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che il motivo ''effettivamente fischiettato'' (e non una ''sua'' immagine).
- Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando affermo “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò peraltro mostra che cos’è “una giustificazione” o “una spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare un motivo e dire “non è che così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?” L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che è per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiedesse “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettare in un modo particolare e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che il motivo ''effettivamente fischiettato'' (e non una ''sua'' immagine).


Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale concepita quale contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo viso” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale concepita quale contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo viso” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
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Il fenomeno di vedere e pronunciare le parole sembra avvolto da un’atmosfera particolare. Non riconosco però tale atmosfera come quella che caratterizza sempre la lettura. La avverto invece se leggo un rigo cercando di capire che cosa sia leggere.
Il fenomeno di vedere e pronunciare le parole sembra avvolto da un’atmosfera particolare. Non riconosco però tale atmosfera come quella che caratterizza sempre la lettura. La avverto invece se leggo un rigo cercando di capire che cosa sia leggere.


Quando percepisco tale atmosfera, mi trovo nella stessa situazione di un uomo che lavora nella propria stanza, legge, scrive, parla etc. e tutt’a un tratto concentra la propria attenzione su un leggero rumore ovattato, uno di quei brusii di fondo che si sentono quasi sempre, soprattutto nelle città (la lieve cacofonia generata da tutti i vari rumori della strada, il fruscio del vento, della pioggia, delle botteghe, etc.). Potremmo immaginare che quest’uomo pensi che un rumore particolare sia un elemento comune di tutte le esperienze da lui avute nella camera in questione. Allora noi gli segnaleremmo che per la maggior parte del tempo non si è accorto di nessun rumore esterno e che il brusio che sentiva non era sempre lo stesso (a volte tirava vento, a volte no, etc.).
Quando percepisco tale atmosfera, mi trovo nella stessa situazione di un uomo che lavora nella propria stanza, legge, scrive, parla ecc. e tutt’a un tratto concentra la propria attenzione su un leggero rumore ovattato, uno di quei brusii di fondo che si sentono quasi sempre, soprattutto nelle città (la lieve cacofonia generata da tutti i vari rumori della strada, il fruscio del vento, della pioggia, delle botteghe, ecc.). Potremmo immaginare che quest’uomo pensi che un rumore particolare sia un elemento comune di tutte le esperienze da lui avute nella camera in questione. Allora noi gli segnaleremmo che per la maggior parte del tempo non si è accorto di nessun rumore esterno e che il brusio che sentiva non era sempre lo stesso (a volte tirava vento, a volte no, ecc.).


Quando abbiamo detto che oltre alle esperienze di vedere e parlare c’era un’altra esperienza etc. ci siamo espressi in maniera equivocabile. Ciò equivale ad affermare che a certe esperienze se ne aggiunge un’altra. – Prendiamo ora l’esperienza di vedere una faccia triste, poniamo, in un disegno… possiamo dire che il fatto di vedere il disegno come un volto triste non equivale “solo” a vedere un qualche insieme di tratti (pensa all’immagine di un puzzle). Ma la parola “solo” qui pare sottendere che, nell’atto di vedere il disegno della viso, all’esperienza di scorgere dei meri tratti di penna si aggiunge una qualche esperienza; come se dovessi dire che vedere il disegno come faccia consiste di due esperienze, di due elementi.
Quando abbiamo detto che oltre alle esperienze di vedere e parlare c’era un’altra esperienza ecc. ci siamo espressi in maniera equivocabile. Ciò equivale ad affermare che a certe esperienze se ne aggiunge un’altra. – Prendiamo ora l’esperienza di vedere una faccia triste, poniamo, in un disegno… possiamo dire che il fatto di vedere il disegno come un volto triste non equivale “solo” a vedere un qualche insieme di tratti (pensa all’immagine di un puzzle). Ma la parola “solo” qui pare sottendere che, nell’atto di vedere il disegno della viso, all’esperienza di scorgere dei meri tratti di penna si aggiunge una qualche esperienza; come se dovessi dire che vedere il disegno come faccia consiste di due esperienze, di due elementi.


Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diversi elementi o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Paragona questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera l’affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza di gusto è composta dal sapore dello zucchero e dal sapore del tè”. Oppure: “se sento un accordo in do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire do, poi mi, poi sol”. D’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate in corrispondenza di certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire una vocale cantata insieme alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di individuare nell’esperienza composita le sue varie esperienze costituenti?
Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diversi elementi o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Paragona questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera l’affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza di gusto è composta dal sapore dello zucchero e dal sapore del tè”. Oppure: “se sento un accordo in do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire do, poi mi, poi sol”. D’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate in corrispondenza di certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire una vocale cantata insieme alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di individuare nell’esperienza composita le sue varie esperienze costituenti?
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Qual è quindi la relazione tra un nome e l’oggetto nominato, per esempio la casa e il suo nome? Immagino che si potrebbero dare due risposte. La prima è che la relazione consiste nel fatto che certi tratti sono stati dipinti sulla porta della casa. La seconda risposta è che il rapporto in questione non viene stabilito solo con l’atto di dipingere tali tratti sulla porta, ma in base al ruolo particolare che questi fregi esercitano nella pratica del nostro linguaggio per come l’abbiamo abbozzata. – Ripeto, in ) la relazione del nome di un individuo con tale individuo consiste nel fatto che la persona è stata addestrata a correre incontro a chi pronuncia tale nome; oppure potremmo ripetere che consiste in questo e nell’uso complessivo del nome nel gioco linguistico.
Qual è quindi la relazione tra un nome e l’oggetto nominato, per esempio la casa e il suo nome? Immagino che si potrebbero dare due risposte. La prima è che la relazione consiste nel fatto che certi tratti sono stati dipinti sulla porta della casa. La seconda risposta è che il rapporto in questione non viene stabilito solo con l’atto di dipingere tali tratti sulla porta, ma in base al ruolo particolare che questi fregi esercitano nella pratica del nostro linguaggio per come l’abbiamo abbozzata. – Ripeto, in ) la relazione del nome di un individuo con tale individuo consiste nel fatto che la persona è stata addestrata a correre incontro a chi pronuncia tale nome; oppure potremmo ripetere che consiste in questo e nell’uso complessivo del nome nel gioco linguistico.


Osserva questo gioco linguistico e vedi se riesci a trovare la relazione misteriosa tra l’oggetto e il suo nome. – La relazione di nome e oggetto, diremmo, consiste nel fatto che uno scarabocchio è scritto sopra un oggetto (o qualche altra relazione altrettanto banale) e nient’altro. Questo però non ci soddisfa, perché abbiamo l’impressione che in sé uno scarabocchio vergato su un oggetto non rivesta per noi alcuna importanza e non ci interessi affatto. Ed è vero; tutta l’importanza risiede nell’impiego particolare che facciamo dello scarabocchio scritto sull’oggetto e noi, in un certo senso, semplifichiamo la questione dicendo che il nome ha una relazione particolare con il suo oggetto, una relazione diversa dal fatto, diciamo, di essere scritto sopra suddetto oggetto, o di essere pronunciato da una persona che con un dito indica l’oggetto. Una filosofia primitiva condensa l’uso complessivo del nome nell’idea di una relazione, che dunque diviene misteriosa. (Confronta le idee di attività mentali quali desiderare, credere, pensare, etc. che per la stessa ragione hanno in sé un che di misterioso e inesplicabile).
Osserva questo gioco linguistico e vedi se riesci a trovare la relazione misteriosa tra l’oggetto e il suo nome. – La relazione di nome e oggetto, diremmo, consiste nel fatto che uno scarabocchio è scritto sopra un oggetto (o qualche altra relazione altrettanto banale) e nient’altro. Questo però non ci soddisfa, perché abbiamo l’impressione che in sé uno scarabocchio vergato su un oggetto non rivesta per noi alcuna importanza e non ci interessi affatto. Ed è vero; tutta l’importanza risiede nell’impiego particolare che facciamo dello scarabocchio scritto sull’oggetto e noi, in un certo senso, semplifichiamo la questione dicendo che il nome ha una relazione particolare con il suo oggetto, una relazione diversa dal fatto, diciamo, di essere scritto sopra suddetto oggetto, o di essere pronunciato da una persona che con un dito indica l’oggetto. Una filosofia primitiva condensa l’uso complessivo del nome nell’idea di una relazione, che dunque diviene misteriosa. (Confronta le idee di attività mentali quali desiderare, credere, pensare, ecc. che per la stessa ragione hanno in sé un che di misterioso e inesplicabile).


Ora potremmo impiegare l’espressione “la relazione tra nome e oggetto non consiste solo in questa connessione banale, ‘meramente esteriore’”, intendendo quindi che ciò che chiamiamo il rapporto tra nome e oggetto si caratterizza per l’impiego complessivo del nome, ma allora è chiaro che tra nome e oggetto non c’è una sola relazione ma tante quanti sono gli impieghi dei suoni o dei fregi che chiamiamo nomi.
Ora potremmo impiegare l’espressione “la relazione tra nome e oggetto non consiste solo in questa connessione banale, ‘meramente esteriore’”, intendendo quindi che ciò che chiamiamo il rapporto tra nome e oggetto si caratterizza per l’impiego complessivo del nome, ma allora è chiaro che tra nome e oggetto non c’è una sola relazione ma tante quanti sono gli impieghi dei suoni o dei fregi che chiamiamo nomi.
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Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…” ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il considerare, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.
Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…” ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il considerare, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.


Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza…” Una tale frase parrebbe affermare che il soggetto può indicarci di che luce si tratti. Cioè può sembrare che l’ordine dica di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'', invece delle dimensioni, delle forme, etc.
Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza…” Una tale frase parrebbe affermare che il soggetto può indicarci di che luce si tratti. Cioè può sembrare che l’ordine dica di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'', invece delle dimensioni, delle forme, ecc.


(Paragona “afferra il colore di questo campione” con “afferra questa penna”, ovvero eccola qui, afferrala).
(Paragona “afferra il colore di questo campione” con “afferra questa penna”, ovvero eccola qui, afferrala).
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Se ci avessero chiesto cosa diceva lo schema di colore della viola, mi pare che la risposta giusta sarebbe stata che diceva se stesso. Quindi avremmo potuto impiegare una forma intransitiva di espressione come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”.
Se ci avessero chiesto cosa diceva lo schema di colore della viola, mi pare che la risposta giusta sarebbe stata che diceva se stesso. Quindi avremmo potuto impiegare una forma intransitiva di espressione come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”.


Talvolta si è detto che ciò che la musica comunica consiste in sensazioni di gioia, malinconia, trionfo, etc. etc. e ciò che ci urta in tale tesi è che così sembra che la musica sia uno strumento per produrre in noi una successione di sentimenti. Se ne potrebbe desumere che qualunque altro modo di generare suddetti sentimenti sarebbe in grado per noi di fare le veci della musica. A questo saremmo tentati di ribattere “la musica ci comunica ''se stessa''!”
Talvolta si è detto che ciò che la musica comunica consiste in sensazioni di gioia, malinconia, trionfo, ecc. ecc. e ciò che ci urta in tale tesi è che così sembra che la musica sia uno strumento per produrre in noi una successione di sentimenti. Se ne potrebbe desumere che qualunque altro modo di generare suddetti sentimenti sarebbe in grado per noi di fare le veci della musica. A questo saremmo tentati di ribattere “la musica ci comunica ''se stessa''!”


Vale un discorso simile per espressioni come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”. Abbiamo la sensazione di volerci proteggere dall’idea che un modello di colore sia un modo di produrre in noi una certa impressione… come se il modello di colore fosse una droga e noi fossimo interessati solo all’effetto prodotto da tale droga. (Qui lambiamo il problema dell’idealismo e del realismo e quello dell’oggettività o soggettività delle affermazioni estetiche). Dire “io vedo questo e sono colpito” tende a far sembrare che l’impressione fosse una qualche sensazione che accompagnava l’atto di vedere e che la frase dicesse qualcosa come “lo vedo e sento la pressione”.
Vale un discorso simile per espressioni come “ognuno di questi schemi di colore ci colpisce”. Abbiamo la sensazione di volerci proteggere dall’idea che un modello di colore sia un modo di produrre in noi una certa impressione… come se il modello di colore fosse una droga e noi fossimo interessati solo all’effetto prodotto da tale droga. (Qui lambiamo il problema dell’idealismo e del realismo e quello dell’oggettività o soggettività delle affermazioni estetiche). Dire “io vedo questo e sono colpito” tende a far sembrare che l’impressione fosse una qualche sensazione che accompagnava l’atto di vedere e che la frase dicesse qualcosa come “lo vedo e sento la pressione”.
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Diverse esperienze di familiarità: ''a'') qualcuno entra nella mia stanza, non lo vedevo da molto tempo, non lo aspettavo. Lo guardo, dico o provo “ah, sei tu”. – (Perché nel fare l’esempio ho detto che non lo vedevo da tanto? Non mi sono accinto a descrivere ''esperienze di'' familiarità? E qualunque fosse l’esperienza a cui alludevo, non avrei potuto averla anche se avessi visto la persona mezz’ora prima? In realtà ho fornito le circostanze del riconoscere l’amico alla stregua di un mezzo per descrivere la situazione specifica del riconoscimento. A questo modo di descrivere ''l’esperienza'' si potrebbe obiettare che esplicitava aspetti irrilevanti e in fondo non era affatto una ''descrizione'' della sensazione. Per affermare ciò si assume, come prototipo di una descrizione, poniamo, la descrizione di un tavolo che ti dice la forma esatta, le dimensioni, il materiale impiegato, il colore. Si potrebbe dire che una tale descrizione assembla il tavolo. C’è però un altro tipo di descrizione del tavolo, simile a quelle che potresti trovare in un romanzo, per esempio “era un piccolo tavolo traballante decorato in stile moresco, concepito per soddisfare ogni requisito dei fumatori”. Tale descrizione la si potrebbe definire indiretta; se il suo scopo però è di evocare con rapidità nella mente un’immagine vivida del tavolo, è in grado assolverlo incomparabilmente meglio di una descrizione dettagliata “diretta”. – Ora, se devo fare una descrizione di un senso di familiarità o riconoscimento… che cosa vi aspettate che faccia? Posso assemblare il sentimento? In un certo senso ovviamente potrei, elencando molti stati diversi e il modo in cui le mie sensazioni sono cambiate. Tali descrizioni particolareggiate le trovate in alcuni grandi romanzi. Se si pensa alle descrizioni rintracciabili nei romanzi, si vede che a questo tipo di descrizione se ne può opporre un altro che si serve di disegni e misure come quelle che potremmo fornire al costruttore di un armadio. Quest’ultimo tipo si è propensi a chiamarlo l’unica descrizione diretta e completa (anche se tale modo di esprimerci mostra la nostra dimenticanza del fatto che ci sono certi scopi che la descrizione “vera” non assolve). Queste considerazioni dovrebbero mettervi in guardi dal pensare che ci sia una descrizione vera e diretta, poniamo, del senso del riconoscimento, distinta da quella “indiretta” che ho fornito).
Diverse esperienze di familiarità: ''a'') qualcuno entra nella mia stanza, non lo vedevo da molto tempo, non lo aspettavo. Lo guardo, dico o provo “ah, sei tu”. – (Perché nel fare l’esempio ho detto che non lo vedevo da tanto? Non mi sono accinto a descrivere ''esperienze di'' familiarità? E qualunque fosse l’esperienza a cui alludevo, non avrei potuto averla anche se avessi visto la persona mezz’ora prima? In realtà ho fornito le circostanze del riconoscere l’amico alla stregua di un mezzo per descrivere la situazione specifica del riconoscimento. A questo modo di descrivere ''l’esperienza'' si potrebbe obiettare che esplicitava aspetti irrilevanti e in fondo non era affatto una ''descrizione'' della sensazione. Per affermare ciò si assume, come prototipo di una descrizione, poniamo, la descrizione di un tavolo che ti dice la forma esatta, le dimensioni, il materiale impiegato, il colore. Si potrebbe dire che una tale descrizione assembla il tavolo. C’è però un altro tipo di descrizione del tavolo, simile a quelle che potresti trovare in un romanzo, per esempio “era un piccolo tavolo traballante decorato in stile moresco, concepito per soddisfare ogni requisito dei fumatori”. Tale descrizione la si potrebbe definire indiretta; se il suo scopo però è di evocare con rapidità nella mente un’immagine vivida del tavolo, è in grado assolverlo incomparabilmente meglio di una descrizione dettagliata “diretta”. – Ora, se devo fare una descrizione di un senso di familiarità o riconoscimento… che cosa vi aspettate che faccia? Posso assemblare il sentimento? In un certo senso ovviamente potrei, elencando molti stati diversi e il modo in cui le mie sensazioni sono cambiate. Tali descrizioni particolareggiate le trovate in alcuni grandi romanzi. Se si pensa alle descrizioni rintracciabili nei romanzi, si vede che a questo tipo di descrizione se ne può opporre un altro che si serve di disegni e misure come quelle che potremmo fornire al costruttore di un armadio. Quest’ultimo tipo si è propensi a chiamarlo l’unica descrizione diretta e completa (anche se tale modo di esprimerci mostra la nostra dimenticanza del fatto che ci sono certi scopi che la descrizione “vera” non assolve). Queste considerazioni dovrebbero mettervi in guardi dal pensare che ci sia una descrizione vera e diretta, poniamo, del senso del riconoscimento, distinta da quella “indiretta” che ho fornito).


''b'') stesso caso di ''a''), ma la faccia non mi è immediatamente familiare. Dopo un po’, “sorge in me” il riconoscimento. “Ah, sei tu”, ma detto con un’intonazione completamente diversa da ''a''). (Considera il tono di voce, l’intonazione, i gesti come parte essenziale della nostra esperienza, non come accompagnamenti inessenziali o meri espedienti comunicativi. (Confronta p. 104-5)). ''c'') Quando all’improvviso sentiamo che sono “vecchie conoscenze” o “amici di vecchia data”, sorge una qualche un’esperienza protesa verso persone o cose che vediamo ogni giorno; un tale sentimento lo si potrebbe anche descrivere come un calore o un sentirsi a casa in loro presenza. ''d'') La mia stanza con tutti i suoi oggetti mi è assolutamente familiare. Quando ci entro al mattino saluto le sedie familiari, i tavoli, etc. con una sensazione di “ah, ciao!”? O provo una sensazione come quella descritta in ''c'')? Ma il modo in cui mi ci muovo, in cui prendo qualcosa da un cassetto, mi siedo etc. non è diverso dal comportamento che adotterei in una stanza che mi è estranea? E perché dunque non dovrei dire che ogniqualvolta ho vissuto tra questi oggetti familiari ho avuto esperienze di familiarità? ''e'') Quando ci chiedono “chi è quell’uomo” non si tratta di un’esperienza di familiarità? Rispondo subito (o dopo un po’ di riflessione) “è Tal-dei-tali”? Confronta con l’esperienza seguente ''f'') del fatto di guardare la parola scritta “sentimento” e di dire “questa è la grafia di A” oppure con ''g'') l’esperienza di leggere la parola, che è pure un’esperienza di familiarità.
''b'') stesso caso di ''a''), ma la faccia non mi è immediatamente familiare. Dopo un po’, “sorge in me” il riconoscimento. “Ah, sei tu”, ma detto con un’intonazione completamente diversa da ''a''). (Considera il tono di voce, l’intonazione, i gesti come parte essenziale della nostra esperienza, non come accompagnamenti inessenziali o meri espedienti comunicativi. (Confronta p. 104-5)). ''c'') Quando all’improvviso sentiamo che sono “vecchie conoscenze” o “amici di vecchia data”, sorge una qualche un’esperienza protesa verso persone o cose che vediamo ogni giorno; un tale sentimento lo si potrebbe anche descrivere come un calore o un sentirsi a casa in loro presenza. ''d'') La mia stanza con tutti i suoi oggetti mi è assolutamente familiare. Quando ci entro al mattino saluto le sedie familiari, i tavoli, ecc. con una sensazione di “ah, ciao!”? O provo una sensazione come quella descritta in ''c'')? Ma il modo in cui mi ci muovo, in cui prendo qualcosa da un cassetto, mi siedo ecc. non è diverso dal comportamento che adotterei in una stanza che mi è estranea? E perché dunque non dovrei dire che ogniqualvolta ho vissuto tra questi oggetti familiari ho avuto esperienze di familiarità? ''e'') Quando ci chiedono “chi è quell’uomo” non si tratta di un’esperienza di familiarità? Rispondo subito (o dopo un po’ di riflessione) “è Tal-dei-tali”? Confronta con l’esperienza seguente ''f'') del fatto di guardare la parola scritta “sentimento” e di dire “questa è la grafia di A” oppure con ''g'') l’esperienza di leggere la parola, che è pure un’esperienza di familiarità.


Al caso ''e'') si potrebbe obiettare che l’esperienza di dire il nome di un uomo non era l’esperienza di familiarità, che perché noi potessimo sapere il suo nome lui doveva già esserci familiare e che per poterlo pronunciare dovevamo ''sapere'' tale nome. Oppure, affermeremmo, “dire il suo nome non è sufficiente, perché di certo potremmo dire il suo nome senza sapere che è il suo nome”. Tale osservazione è indubbiamente vera, se solo comprendiamo che non implica che la conoscenza del nome sia un processo che accompagna o precede l’atto di pronunciarlo.
Al caso ''e'') si potrebbe obiettare che l’esperienza di dire il nome di un uomo non era l’esperienza di familiarità, che perché noi potessimo sapere il suo nome lui doveva già esserci familiare e che per poterlo pronunciare dovevamo ''sapere'' tale nome. Oppure, affermeremmo, “dire il suo nome non è sufficiente, perché di certo potremmo dire il suo nome senza sapere che è il suo nome”. Tale osservazione è indubbiamente vera, se solo comprendiamo che non implica che la conoscenza del nome sia un processo che accompagna o precede l’atto di pronunciarlo.
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Considera questo esempio: quale è la differenza tra un’immagine mnemonica, un’immagine che viene con un’aspettativa e, poniamo, l’immagine di una fantasticheria? Potresti sentirti portato a rispondere “tra suddette immagini c’è una differenza intrinseca”. – Hai percepito tale differenza o hai affermato che esiste solo perché hai pensato che dovesse esserci?
Considera questo esempio: quale è la differenza tra un’immagine mnemonica, un’immagine che viene con un’aspettativa e, poniamo, l’immagine di una fantasticheria? Potresti sentirti portato a rispondere “tra suddette immagini c’è una differenza intrinseca”. – Hai percepito tale differenza o hai affermato che esiste solo perché hai pensato che dovesse esserci?


“Di certo però riconosco un’immagine mnemonica in quanto immagine mnemonica, l’immagine di una fantasticheria in quanto immagine di una fantasticheria, etc.” – Rammenta che a volte non sei sicuro se un certo evento l’hai visto accadere, o l’hai sognato, o ne hai soltanto sentito parlare e l’hai immaginato in maniera vivida. Detto ciò, cosa intendi con “riconoscere un’immagine in quanto immagine mnemonica?” Concordo che (perlomeno nella maggioranza dei casi), mentre un’immagine si trova davanti all’occhio della tua mente, tu non dubiti che si tratti di un’immagine mnemonica, etc. Inoltre alla domanda se l’immagine in questione è un’immagine mnemonica, tu (nella maggioranza dei casi) risponderesti senza esitare. E se invece ti chiedessi “quand’è che sai di che tipo di immagine si tratta?” Sapere di che tipo di immagine si tratta lo chiami non essere in uno stato di dubbio, non chiederti che cos’è? L’introspezione ti mostra uno stato o un atto mentale che chiameresti sapere che l’immagine era un’immagine mnemonica e che, quando l’immagine ti è presente nella mente, ha luogo? – E poi, se hai risposto alla domanda in merito a che tipo di immagine fosse, l’hai fatto, per così dire, guardando l’immagine e scoprendo una sua qualche caratteristica? (Come se ti avessero chiesto chi ha dipinto un certo quadro e tu guardandolo e riconoscendone lo stile dicessi che è un Rembrandt).
“Di certo però riconosco un’immagine mnemonica in quanto immagine mnemonica, l’immagine di una fantasticheria in quanto immagine di una fantasticheria, ecc.” – Rammenta che a volte non sei sicuro se un certo evento l’hai visto accadere, o l’hai sognato, o ne hai soltanto sentito parlare e l’hai immaginato in maniera vivida. Detto ciò, cosa intendi con “riconoscere un’immagine in quanto immagine mnemonica?” Concordo che (perlomeno nella maggioranza dei casi), mentre un’immagine si trova davanti all’occhio della tua mente, tu non dubiti che si tratti di un’immagine mnemonica, ecc. Inoltre alla domanda se l’immagine in questione è un’immagine mnemonica, tu (nella maggioranza dei casi) risponderesti senza esitare. E se invece ti chiedessi “quand’è che sai di che tipo di immagine si tratta?” Sapere di che tipo di immagine si tratta lo chiami non essere in uno stato di dubbio, non chiederti che cos’è? L’introspezione ti mostra uno stato o un atto mentale che chiameresti sapere che l’immagine era un’immagine mnemonica e che, quando l’immagine ti è presente nella mente, ha luogo? – E poi, se hai risposto alla domanda in merito a che tipo di immagine fosse, l’hai fatto, per così dire, guardando l’immagine e scoprendo una sua qualche caratteristica? (Come se ti avessero chiesto chi ha dipinto un certo quadro e tu guardandolo e riconoscendone lo stile dicessi che è un Rembrandt).


È facile d’altro canto indicare le esperienze caratteristiche del ricordare, aspettarsi, etc. che accompagnano le immagini e varie altre differenze nei dintorni o alla periferia di tali esperienze. Dunque noi certamente ''diciamo'' cose diverse in casi diversi, per esempio “mi ricordo che è passato nella mia stanza”, “mi aspetto che arrivi presto”, “immagino che arrivi qui in camera”. – “Di sicuro però la differenza non può essere tutta qui!” Non è tutta qui: a circondare tali affermazioni ci sono tre diversi giochi svolti con queste tre parole.
È facile d’altro canto indicare le esperienze caratteristiche del ricordare, aspettarsi, ecc. che accompagnano le immagini e varie altre differenze nei dintorni o alla periferia di tali esperienze. Dunque noi certamente ''diciamo'' cose diverse in casi diversi, per esempio “mi ricordo che è passato nella mia stanza”, “mi aspetto che arrivi presto”, “immagino che arrivi qui in camera”. – “Di sicuro però la differenza non può essere tutta qui!” Non è tutta qui: a circondare tali affermazioni ci sono tre diversi giochi svolti con queste tre parole.


Se messi alle strette, ''capiamo'' la parola “ricordare”, etc.? Tra questi casi c’è davvero una differenza oltre a quella meramente verbale, al fatto che i nostri pensieri si muovono nei dintorni dell’immagine di cui disponiamo o all’espressione che impieghiamo? Ho un’immagine di una cena in Sala con T. Se mi si chiede se è un’immagine mnemonica, dico “ma certo” e i miei pensieri cominciano a muoversi su sentieri che da tale immagine si dipartono. Ricordo chi era seduto accanto a noi, su cosa verteva la conversazione, ciò che pensavo io in merito, quel è successo in seguito con T, etc. etc.
Se messi alle strette, ''capiamo'' la parola “ricordare”, ecc.? Tra questi casi c’è davvero una differenza oltre a quella meramente verbale, al fatto che i nostri pensieri si muovono nei dintorni dell’immagine di cui disponiamo o all’espressione che impieghiamo? Ho un’immagine di una cena in Sala con T. Se mi si chiede se è un’immagine mnemonica, dico “ma certo” e i miei pensieri cominciano a muoversi su sentieri che da tale immagine si dipartono. Ricordo chi era seduto accanto a noi, su cosa verteva la conversazione, ciò che pensavo io in merito, quel è successo in seguito con T, ecc. ecc.


Immagina due giochi diversi, entrambi giocati con i pezzi degli scacchi su una scacchiera. Nei due giochi le posizioni iniziali sono identiche. Uno dei giochi si gioca sempre con pezzi rossi e verdi, l’altro con pezzi bianchi e neri. Due persone cominciano a giocare, divisi dalla scacchiera con i pezzi rossi e verdi schierati. Si chiede loro “sapete quale gioco intendete giocare?” Uno risponde “ma certo, giochiamo al gioco numero 2”. “Qual è allora la differenza tra giocare il numero 2 e il numero 1?” – “Be’, sulla scacchiera ci sono i pezzi rossi e verdi, non quelli neri e bianchi, inoltre affermiamo di giocare al numero 2”. – “Questa però non può essere l’unica differenza; non lo ''capisci'' cosa significa ‘numero 2’ e a quale gioco corrispondono le pedine rosse e verdi?” Qui siamo propensi a rispondere “certo che lo capisco” e per provarlo a noi stessi cominciamo proprio a muovere i pezzi secondo le regole del gioco numero 2. Questo è ciò che chiamerò muoversi nei dintorni della nostra posizione iniziale.
Immagina due giochi diversi, entrambi giocati con i pezzi degli scacchi su una scacchiera. Nei due giochi le posizioni iniziali sono identiche. Uno dei giochi si gioca sempre con pezzi rossi e verdi, l’altro con pezzi bianchi e neri. Due persone cominciano a giocare, divisi dalla scacchiera con i pezzi rossi e verdi schierati. Si chiede loro “sapete quale gioco intendete giocare?” Uno risponde “ma certo, giochiamo al gioco numero 2”. “Qual è allora la differenza tra giocare il numero 2 e il numero 1?” – “Be’, sulla scacchiera ci sono i pezzi rossi e verdi, non quelli neri e bianchi, inoltre affermiamo di giocare al numero 2”. – “Questa però non può essere l’unica differenza; non lo ''capisci'' cosa significa ‘numero 2’ e a quale gioco corrispondono le pedine rosse e verdi?” Qui siamo propensi a rispondere “certo che lo capisco” e per provarlo a noi stessi cominciamo proprio a muovere i pezzi secondo le regole del gioco numero 2. Questo è ciò che chiamerò muoversi nei dintorni della nostra posizione iniziale.