Libro marrone: Difference between revisions

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Ricorda l’espressione “due o più”.)
Ricorda l’espressione “due o più”.)


Ci viene naturale considerare gesti come quelli impiegati in 4) o immagini come quelle di 7) alla stregua di elementi o strumenti del linguaggio. (Parliamo talvolta di linguaggio gestuale.) Chiamo schemi le immagini di 7), e altri strumenti linguistici dalla funzione simile. (Questa spiegazione, come altre già fornite qui, è vaga e volutamente tale.) Possiamo dire che parole e schemi hanno tipi diversi di funzioni. Quando facciamo uso di uno schema paragoniamo qualcosa con esso, per esempio una sedia con l’immagine di una sedia. Non abbiamo paragonato una lastra con la parola “lastra”. Nell’introdurre la distinzione “parola, schema”, l’idea non era di istituire una dualità logica definitiva. Abbiamo solo individuato due tipi determinati di strumenti nella varietà di strumenti del nostro linguaggio. Chiamiamo “uno”, “due”, “tre”, ecc. parole. Se invece di questi segni utilizzassimo “–”, ““– –”, ““– –”, ““– – – –”, questi potremmo chiamarli schemi. Immagina un linguaggio in cui i numerali sono “uno”, “uno uno”, “uno uno uno”, ecc.: in tal caso bisognerebbe chiamare “uno” una parola o uno schema? Lo stesso elemento potrebbe essere impiegato in un contesto come parola e in un altro come schema. Un cerchio può essere il nome di un’ellisse, o d’altra parte uno schema a cui l’ellisse dev’essere paragonata mediante uno specifico metodo di proiezione. Considera anche questi due sistemi di espressione:
Ci viene naturale considerare gesti come quelli impiegati in 4) o immagini come quelle di 7) alla stregua di elementi o strumenti del linguaggio. (Parliamo talvolta di linguaggio gestuale.) Chiamo schemi le immagini di 7), e altri strumenti linguistici dalla funzione simile. (Questa spiegazione, come altre già fornite qui, è vaga e volutamente tale.) Possiamo dire che parole e schemi hanno tipi diversi di funzioni. Quando facciamo uso di uno schema paragoniamo qualcosa con esso, per esempio una sedia con l’immagine di una sedia. Non abbiamo paragonato una lastra con la parola “lastra”. Nell’introdurre la distinzione “parola, schema”, l’idea non era di istituire una dualità logica definitiva. Abbiamo solo individuato due tipi determinati di strumenti nella varietà di strumenti del nostro linguaggio. Chiamiamo “uno”, “due”, “tre”, ecc. parole. Se invece di questi segni utilizzassimo “–”, “{{Nowrap|– –}}”, “{{Nowrap|– – }}”, “{{Nowrap|– – – –}}”, questi potremmo chiamarli schemi. Immagina un linguaggio in cui i numerali sono “uno”, “uno uno”, “uno uno uno”, ecc.: in tal caso bisognerebbe chiamare “uno” una parola o uno schema? Lo stesso elemento potrebbe essere impiegato in un contesto come parola e in un altro come schema. Un cerchio può essere il nome di un’ellisse, o d’altra parte uno schema a cui l’ellisse dev’essere paragonata mediante uno specifico metodo di proiezione. Considera anche questi due sistemi di espressione:




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Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “{{Nowrap|– – · · –}}” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o gli spartiti in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, i movimenti fatti seguendo segni come “{{Nowrap|– – · · –}}”, i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.). Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremmo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo usare l’espressione “gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”.)
Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “{{Nowrap|– – · · –}}” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o gli spartiti in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, i movimenti fatti seguendo segni come “{{Nowrap|– – · · –}}”, i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.). Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremmo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo usare l’espressione “gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”.)


Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in questo modo, quest’altra in quest'altro, ecc., e che lui poi ha letto ad alta voce le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene da sé è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà senz'altro più chiaro se modifichiamo l’esempio e
Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in questo modo, quest’altra in quest’altro, ecc., e che lui poi ha letto ad alta voce le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene da sé è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà senz’altro più chiaro se modifichiamo l’esempio e




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Consideriamo adesso la spiegazione seguente: do a qualcuno due scatole contenenti varie cose e dico “l’oggetto in comune tra le due scatole è chiamato forchettone da pane”. La persona a cui do tale spiegazione deve frugare tra gli oggetti dentro le due scatole fino a trovare quello che hanno in comune e così facendo, possiamo dire, giunge alla spiegazione ostensiva. Oppure pensiamo a una spiegazione come questa: “nelle due immagini che ti mostro vedi macchie di molti colori; il solo colore che trovi in entrambe si chiama ‘malva’”. – In questo caso ha chiaramente senso dire “se ha visto (o trovato) ciò che hanno in comune le due immagini, adesso sarà in grado di portarmi un oggetto malva”.
Consideriamo adesso la spiegazione seguente: do a qualcuno due scatole contenenti varie cose e dico “l’oggetto in comune tra le due scatole è chiamato forchettone da pane”. La persona a cui do tale spiegazione deve frugare tra gli oggetti dentro le due scatole fino a trovare quello che hanno in comune e così facendo, possiamo dire, giunge alla spiegazione ostensiva. Oppure pensiamo a una spiegazione come questa: “nelle due immagini che ti mostro vedi macchie di molti colori; il solo colore che trovi in entrambe si chiama ‘malva’”. – In questo caso ha chiaramente senso dire “se ha visto (o trovato) ciò che hanno in comune le due immagini, adesso sarà in grado di portarmi un oggetto malva”.


C’è questo gioco: dico a qualcuno “ti spiegherò la parola ‘w’ mostrandoti vari oggetti. Ciò che hanno tutti in comune è il significato di ‘w.’ Prima gli mostro due libri e lui si chiede “‘w’ vorrà dire ‘libro’?” Io poi indico un mattone e lui si dice “forse ‘w’ significa ‘parallelepipedo’”. Infine gli indico un carbone ardente e lui si dice “ah, è ‘rosso’ che intende, poiché tutti questi oggetti avevano qualcosa di rosso”. Sarebbe interessante considerare una forma alternativa di questo gioco, in cui l’interlocutore di volta in volta deve ''disegnare'' o ''dipingere'' ciò che crede che io intenda. L'interesse di questa versione risiede nel fatto che in certi casi sarebbe assolutamente ovvio che cosa costui debba disegnare, per esempio quando vede che tutti gli oggetti che gli ho mostrato finora esibiscono un certo segno distintivo (disegnerebbe proprio tale segno distintivo). – D’altra parte, se riconosce che in ciascuno degli oggetti c’è qualcosa di rosso, che cosa dovrebbe dipingere? Una macchia rossa? Di quale forma e di che tonalità? Qui bisognerebbe stabilire una convenzione, per esempio che disegnare una macchia rossa dai contorni frastagliati non significa che gli oggetti hanno in comune una macchia rossa dai contorni frastagliati bensì ''qualcosa'' di rosso.
C’è questo gioco: dico a qualcuno “ti spiegherò la parola ‘w’ mostrandoti vari oggetti. Ciò che hanno tutti in comune è il significato di ‘w.’ Prima gli mostro due libri e lui si chiede “‘w’ vorrà dire ‘libro’?” Io poi indico un mattone e lui si dice “forse ‘w’ significa ‘parallelepipedo’”. Infine gli indico un carbone ardente e lui si dice “ah, è ‘rosso’ che intende, poiché tutti questi oggetti avevano qualcosa di rosso”. Sarebbe interessante considerare una forma alternativa di questo gioco, in cui l’interlocutore di volta in volta deve ''disegnare'' o ''dipingere'' ciò che crede che io intenda. L’interesse di questa versione risiede nel fatto che in certi casi sarebbe assolutamente ovvio che cosa costui debba disegnare, per esempio quando vede che tutti gli oggetti che gli ho mostrato finora esibiscono un certo segno distintivo (disegnerebbe proprio tale segno distintivo). – D’altra parte, se riconosce che in ciascuno degli oggetti c’è qualcosa di rosso, che cosa dovrebbe dipingere? Una macchia rossa? Di quale forma e di che tonalità? Qui bisognerebbe stabilire una convenzione, per esempio che disegnare una macchia rossa dai contorni frastagliati non significa che gli oggetti hanno in comune una macchia rossa dai contorni frastagliati bensì ''qualcosa'' di rosso.


Se, indicando macchie di varie sfumature di rosso, tu chiedessi a qualcuno “che cos’hanno in comune che te le fa chiamare rosse?”, costui sarebbe portato a dirti “non vedi?” Naturalmente una tale risposta non equivarrebbe al fatto di indicare un elemento in comune.
Se, indicando macchie di varie sfumature di rosso, tu chiedessi a qualcuno “che cos’hanno in comune che te le fa chiamare rosse?”, costui sarebbe portato a dirti “non vedi?” Naturalmente una tale risposta non equivarrebbe al fatto di indicare un elemento in comune.
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Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B, e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo motivo di dire che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se diciamo di sì, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure non vogliamo asserire niente del genere.
Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B, e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo motivo di dire che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se diciamo di sì, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure non vogliamo asserire niente del genere.


Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero di ''n'' più grande del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “aggiungere ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini –, – –, – – –, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel dare spiegazioni generali e fare esempi. – Questi esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “aggiungi 1”. Dopo un po’ notiamo che, passato 100, lui ha fatto quello che noi chiameremmo aggiungere 2; passato 300, quello che chiameremmo aggiungere 3. Noi lo sgridiamo: “non ti ho detto di aggiungere sempre 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capisci che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi che gli avevamo dato, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) che ci dicono: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”.
Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero di ''n'' più grande del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “aggiungere ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini –, {{Nowrap|– –}}, {{Nowrap|– – –}}, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel dare spiegazioni generali e fare esempi. – Questi esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “aggiungi 1”. Dopo un po’ notiamo che, passato 100, lui ha fatto quello che noi chiameremmo aggiungere 2; passato 300, quello che chiameremmo aggiungere 3. Noi lo sgridiamo: “non ti ho detto di aggiungere sempre 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!” – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capisci che dirgli di nuovo “ma non vedi…?”, indicando le regole e gli esempi che gli avevamo dato, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) che ci dicono: “addiziona 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”.


(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto di indicare, muovendosi nella direzione che va dalla spalla alla mano, bensì in quella contraria. E comprendere qui significa lo stesso che reagire.)
(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto di indicare, muovendosi nella direzione che va dalla spalla alla mano, bensì in quella contraria. E comprendere qui significa lo stesso che reagire.)