Libro marrone: Difference between revisions

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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro.


(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.)
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.)




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=3}} Introduciamo ora un nuovo strumento di comunicazione: un nome proprio. Quest’ultimo viene dato a un oggetto specifico (una pietra da costruzione specifica) indicandolo e pronunciando il nome. Se A pronuncia il nome, B gli porta l’oggetto. L’insegnamento deittico di un nome proprio è diverso dall’insegnamento deittico dei casi 1) e 2).
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=3}} Introduciamo ora un nuovo strumento di comunicazione: un nome proprio. Quest’ultimo viene dato a un oggetto specifico (una pietra da costruzione specifica) indicandolo e pronunciando il nome. Se A pronuncia il nome, B gli porta l’oggetto. L’insegnamento deittico di un nome proprio è diverso dall’insegnamento deittico dei casi 1) e 2).


(Osservazione: la differenza non risiede tuttavia nell’atto di indicare e pronunciare la parola né in qualsivoglia atto mentale (significato)? che lo accompagni, bensì nel ruolo che la deissi (l’indicare e il pronunciare) riveste nell’intero addestramento e nell’uso che se ne fa nella pratica comunicativa tramite questo linguaggio. Si potrebbe pensare di poter descrivere la differenza dicendo che negli altri casi si indicano tipi diversi di oggetti. Immagina però che io indichi con la mano una maglia blu. In che modo indicarne il colore è diverso dall’indicarne la forma? – Siamo portati a dire che la differenza è che nei due casi ''intendiamo'' cose diverse. E questo “intendere” deve essere una sorta di processo che avviene mentre indichiamo. Ciò che ci tenta, in una simile prospettiva, è soprattutto il fatto che, se chiediamo a qualcuno se ha indicato il colore o la forma, costui è quasi sempre in grado di risponderci e di essere certo che la sua risposta è giusta. Se però cerchiamo due atti mentali caratteristici, l’intendere il colore e l’intendere la forma, ecc., non ne troviamo alcuno, o perlomeno non ne troviamo alcuno che debba accompagnare l’indicare sempre rispettivamente il colore oppure la forma. Abbiamo solo un’idea ''grossolana'' di cosa significhi concentrare l’attenzione sul colore piuttosto che sulla forma o viceversa. Si potrebbe dire che la differenza non risiede nell’atto deittico, bensì in ciò che circonda tale atto nell’uso del linguaggio.)
(Osservazione: la differenza non risiede tuttavia nell’atto di indicare e pronunciare la parola né in qualsivoglia atto mentale (significato)? che lo accompagni, bensì nel ruolo che la deissi (l’indicare e il pronunciare) riveste nell’intero addestramento e nell’uso che se ne fa nella pratica comunicativa tramite questo linguaggio. Si potrebbe pensare di poter descrivere la differenza dicendo che negli altri casi si indicano tipi diversi di oggetti. Immagina però che io indichi con la mano una maglia blu. In che modo indicarne il colore è diverso dall’indicarne la forma? – Siamo portati a dire che la differenza è che nei due casi ''intendiamo'' cose diverse. E questo “intendere” deve essere una sorta di processo che avviene mentre indichiamo. Ciò che ci tenta, in una simile prospettiva, è soprattutto il fatto che, se chiediamo a qualcuno se ha indicato il colore o la forma, costui è quasi sempre in grado di risponderci e di essere certo che la sua risposta è giusta. Se però cerchiamo due atti mentali caratteristici, l’intendere il colore e l’intendere la forma, ecc., non ne troviamo alcuno, o perlomeno non ne troviamo alcuno che debba accompagnare l’indicare sempre rispettivamente il colore oppure la forma. Abbiamo solo un’idea ''grossolana'' di cosa significhi concentrare l’attenzione sul colore piuttosto che sulla forma o viceversa. Si potrebbe dire che la differenza non risiede nell’atto deittico, bensì in ciò che circonda tale atto nell’uso del linguaggio.)




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=12}} A dà a B un ordine costituito da due simboli scritti, il primo una macchia irregolare di un certo colore, diciamo verde, il secondo il disegno del contorno di una figura geometrica, diciamo un cerchio. B gli porta un oggetto con questo contorno e quel colore, diciamo un oggetto verde circolare.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=12}} A dà a B un ordine costituito da due simboli scritti, il primo una macchia irregolare di un certo colore, diciamo verde, il secondo il disegno del contorno di una figura geometrica, diciamo un cerchio. B gli porta un oggetto con questo contorno e quel colore, diciamo un oggetto verde circolare.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=20}} il gioco può consistere nel fatto che B costruisce una tabella e obbedisce a ordini dati nei termini di questa tabella. Durante l’insegnamento dell’uso di una tabella, che per esempio è composta di due colonne verticali, di cui quella a sinistra contiene i nomi e quella a destra le immagini, un nome e un’immagine essendo correlati se situati nella stessa riga orizzontale, una caratteristica importante dell’addestramento potrebbe essere quella che porta l’allievo a far scivolare il dito da sinistra a destra, come se si trattasse di addestrarlo a tracciare una serie di linee orizzontali una sotto l’altra. Tale addestramento faciliterebbe la transizione dalla prima tabella al nuovo elemento.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=20}} il gioco può consistere nel fatto che B costruisce una tabella e obbedisce a ordini dati nei termini di questa tabella. Durante l’insegnamento dell’uso di una tabella, che per esempio è composta di due colonne verticali, di cui quella a sinistra contiene i nomi e quella a destra le immagini, un nome e un’immagine essendo correlati se situati nella stessa riga orizzontale, una caratteristica importante dell’addestramento potrebbe essere quella che porta l’allievo a far scivolare il dito da sinistra a destra, come se si trattasse di addestrarlo a tracciare una serie di linee orizzontali una sotto l’altra. Tale addestramento faciliterebbe la transizione dalla prima tabella al nuovo elemento.


In accordo con l’uso ordinario chiamerò tabelle, definizioni ostensive e strumenti simili regole. L’uso di una regola può essere spiegato da una regola ulteriore.
In accordo con l’uso ordinario chiamerò tabelle, definizioni ostensive e strumenti simili regole. L’uso di una regola può essere spiegato da una regola ulteriore.
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La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo; per esempio, il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli bianchi e matite.
La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo; per esempio, il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli bianchi e matite.


Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?” Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ''ad inf''.”. Quindi la differenza tra le due mani ''a'') e ''b'') risiede negli strumenti che usiamo, anche se, per nostra stessa ammissione, non nelle carte con cui vengono giocate. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente ciò che accade mentre si gioca una mano dopo l’altra, ti accorgi di riuscire a trovare qualche differenza solo in una serie di dettagli ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono e si giocano le carte nei due casi ''possono'' essere identici. Durante lo svolgimento della mano ''a''), i giocatori possono aver considerato di creare nuove carte e poi averci rinunciato. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo quale il dire a se stessi, o anche ad alta voce, “chissà se mi conviene farmi un’altra carta”. Magari però un simile pensiero non è passato per la mente di nessuno dei giocatori. È possibile che tutta la differenza tra una mano del gioco limitato e una mano del gioco illimitato consista in ciò che si è detto prima di iniziare a giocare, per esempio “facciamo una partita al gioco limitato”.
Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?” Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ''ad inf''.”. Quindi la differenza tra le due mani ''a'') e ''b'') risiede negli strumenti che usiamo, anche se, per nostra stessa ammissione, non nelle carte con cui vengono giocate. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente ciò che accade mentre si gioca una mano dopo l’altra, ti accorgi di riuscire a trovare qualche differenza solo in una serie di dettagli ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono e si giocano le carte nei due casi ''possono'' essere identici. Durante lo svolgimento della mano ''a''), i giocatori possono aver considerato di creare nuove carte e poi averci rinunciato. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo quale il dire a se stessi, o anche ad alta voce, “chissà se mi conviene farmi un’altra carta”. Magari però un simile pensiero non è passato per la mente di nessuno dei giocatori. È possibile che tutta la differenza tra una mano del gioco limitato e una mano del gioco illimitato consista in ciò che si è detto prima di iniziare a giocare, per esempio “facciamo una partita al gioco limitato”.


“Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci.
“Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=31}} Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Il più alto numerale di cui si osserva l’utilizzo è 159. Nella vita di questa tribù il numerale 159 gioca un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto “trattano questo numero come se fosse il più alto”, – ma che cosa significa? Possiamo rispondere: “Dicono che è il più alto”? – Pronunciano certe parole, ma come facciamo a sapere che cosa intendono con esse? Un criterio per definire ciò che intendono sarebbero le occasioni in cui costoro impiegano la parola che noi siamo propensi a tradurre con “il più alto”, ovvero il ruolo, potremmo dire, che in base a quanto osserviamo tale parola gioca nella vita della tribù. In effetti si può agevolmente immaginare che il numerale 159 venga impiegato in circostanze tali, insieme a tali gesti e tali forme di comportamento, che saremmo portati a dire che tale numerale gioca il ruolo di un limite insormontabile, pur non avendo la tribù un’espressione corrispondente al nostro “il più alto” e pur non consistendo il criterio per cui il numerale 159 è il numerale più alto in nulla che sia stato ''detto'' su di esso.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=31}} Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Il più alto numerale di cui si osserva l’utilizzo è 159. Nella vita di questa tribù il numerale 159 gioca un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto “trattano questo numero come se fosse il più alto”, – ma che cosa significa? Possiamo rispondere: “Dicono che è il più alto”? – Pronunciano certe parole, ma come facciamo a sapere che cosa intendono con esse? Un criterio per definire ciò che intendono sarebbero le occasioni in cui costoro impiegano la parola che noi siamo propensi a tradurre con “il più alto”, ovvero il ruolo, potremmo dire, che in base a quanto osserviamo tale parola gioca nella vita della tribù. In effetti si può agevolmente immaginare che il numerale 159 venga impiegato in circostanze tali, insieme a tali gesti e tali forme di comportamento, che saremmo portati a dire che tale numerale gioca il ruolo di un limite insormontabile, pur non avendo la tribù un’espressione corrispondente al nostro “il più alto” e pur non consistendo il criterio per cui il numerale 159 è il numerale più alto in nulla che sia stato ''detto'' su di esso.




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=53}} Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile con il coinvolgimento, per così dire, anche del tempo, quello di mettere semplicemente in fila una serie di immagini della vita. Potremmo giocare tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo”. In tal senso si potrebbe affermare che 53) ha a che fare con le idee di prima e di dopo ma non con l’idea di una misurazione del tempo. Non c’è bisogno di dire che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve. Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che esse non abbiano ancora nulla a che fare con la vera idea del tempo, ma solo con un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non porta con sé un orologio, che l’orologio è solo lo strumento volgare che indica quando sono le cinque, o che esiste un’idea di ora che non porta con sé uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto”, “un’ora”. E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai usa il termine “cinque in punto”, “un’ora”, “tanto tempo”, “poco tempo”, ecc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, ma adesso abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò dovrebbe diventare più chiaro considerando l’esempio seguente:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=53}} Nota che avrebbe potuto esserci un gioco simile con il coinvolgimento, per così dire, anche del tempo, quello di mettere semplicemente in fila una serie di immagini della vita. Potremmo giocare tale gioco con l’aiuto di parole che corrisponderebbero ai nostri “prima” e “dopo”. In tal senso si potrebbe affermare che 53) ha a che fare con le idee di prima e di dopo ma non con l’idea di una misurazione del tempo. Non c’è bisogno di dire che dalle narrazioni di 51), 52) e 53) alle narrazioni in parole il passo sarebbe breve. Forse qualcuno, considerando tali forme di narrazione, potrebbe pensare che esse non abbiano ancora nulla a che fare con la vera idea del tempo, ma solo con un suo grezzo sostituto, la posizione di una lancetta d’orologio e cose così. Ora se qualcuno sostenesse che esiste un’idea delle “cinque in punto” che non porta con sé un orologio, che l’orologio è solo lo strumento volgare che indica quando sono le cinque, o che esiste un’idea di ora che non porta con sé uno strumento per misurare il tempo, non lo contraddirei, ma gli chiederei di spiegarmi qual è il suo impiego di “cinque in punto”, “un’ora”. E se non è quello in cui entra in gioco un orologio, sarà dunque un uso diverso; gli chiederei allora come mai usa il termine “cinque in punto”, “un’ora”, “tanto tempo”, “poco tempo”, ecc., in uno dei due casi in connessione a un orologio e nell’altro indipendentemente da un orologio; sarà per via di alcune analogie tra i due utilizzi, ma adesso abbiamo due impieghi di questi termini e nessun motivo per asserire che uno è meno reale e puro dell’altro. Tutto ciò dovrebbe diventare più chiaro considerando l’esempio seguente:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “la mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (N.d.C.)</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “la mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (N.d.C.)</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova.


È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti.
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La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.
La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.


Tornando ora alla nostra discussione di 43), vediamo che non si trattava di una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni quando abbiamo detto che B ne era guidato se ''era in grado'' di eseguire anche ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quelle in 43). Infatti, nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui potremmo stabilirlo con certezza solo se fossimo in grado di esaminare il meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo chiameremmo il fatto che certe parti sono guidate da altre. In effetti il meccanismo che ci si suggerisce subito quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “il fatto di essere guidato dai segni” è un meccanismo del tipo della pianola. Nel funzionamento della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, che sono guidate dallo schema dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe usare l’espressione “la pianola ''legge ad alta voce'' la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi potremmo chiamare gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola alla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano il profilo di una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il catenaccio di una serratura, ma non diremmo che il movimento del catenaccio è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e tacche, cioè non diremmo che il catenaccio si è mosso ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Qui vedi la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: diremmo infatti che la pianola ''è in grado'' di leggere ''qualunque'' schema di perforazioni di un certo tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme particolare di melodie (come un carillon), – mentre il catenaccio della serratura reagisce solo a quello schema del profilo della chiave che è predeterminato dalla costruzione della serratura. Potremmo dire che le tacche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che compongono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.
Tornando ora alla nostra discussione di 43), vediamo che non si trattava di una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni quando abbiamo detto che B ne era guidato se ''era in grado'' di eseguire anche ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quelle in 43). Infatti, nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui potremmo stabilirlo con certezza solo se fossimo in grado di esaminare il meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo chiameremmo il fatto che certe parti sono guidate da altre. In effetti il meccanismo che ci si suggerisce subito quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “il fatto di essere guidato dai segni” è un meccanismo del tipo della pianola. Nel funzionamento della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, che sono guidate dallo schema dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe usare l’espressione “la pianola ''legge ad alta voce'' la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi potremmo chiamare gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola alla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano il profilo di una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il catenaccio di una serratura, ma non diremmo che il movimento del catenaccio è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e tacche, cioè non diremmo che il catenaccio si è mosso ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Qui vedi la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: diremmo infatti che la pianola ''è in grado'' di leggere ''qualunque'' schema di perforazioni di un certo tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme particolare di melodie (come un carillon), – mentre il catenaccio della serratura reagisce solo a quello schema del profilo della chiave che è predeterminato dalla costruzione della serratura. Potremmo dire che le tacche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che compongono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.


È evidente che sebbene possiamo usare le idee di tali meccanismi a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), nessun meccanismo del genere è effettivamente coinvolto in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto dell’espressione “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura è solo un uso in una famiglia di utilizzi, sebbene questi esempi possano servire metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi.
È evidente che sebbene possiamo usare le idee di tali meccanismi a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), nessun meccanismo del genere è effettivamente coinvolto in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto dell’espressione “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura è solo un uso in una famiglia di utilizzi, sebbene questi esempi possano servire metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi.


Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” studiando l’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica minimamente la comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere la propria lingua, poi a leggere libri, riviste, lettere, ecc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono sulle parole stampate, le pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge solo osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremmo anche che ha letto una frase se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come ciò che potremmo chiamare una mera macchina da lettura, ovvero non prestare alcuna attenzione a ciò che dice, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, diremmo che legge se agisce con la stessa assenza di errori di una macchina affidabile. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se, guardando quest’esempio, ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremmo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo “solo lui sa se sta leggendo; nessun altro può saperlo davvero”. Eppure bisogna ammettere che, per quanto riguarda la lettura di una parola determinata, nella mente del principiante che “fingeva” di leggere potrebbe essere accaduta la stessa identica cosa verificatasi nella mente del lettore esperto mentre leggeva la parola in questione. Quando parliamo del lettore esperto, utilizziamo la parola “leggere” in modo diverso rispetto a quando parliamo del principiante. Ciò che in un caso chiamiamo un esempio di lettura non lo chiamiamo un esempio di lettura nell’altro. – Ovviamente siamo portati a dire che ciò che è accaduto nel lettore esperto e nel principiante quando hanno pronunciato la parola non può essere la stessa cosa. Se non nel loro stato cosciente, la differenza risiede nelle regioni inconsce delle rispettive menti, o nei loro cervelli. Immaginiamo qui due meccanismi, di cui siamo in grado di vedere il funzionamento interno, e questo funzionamento interno è il vero criterio per stabilire se una persona sta leggendo o no. In realtà però in simili casi nessun meccanismo del genere ci è noto. Consideriamo la questione così:
Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” studiando l’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica minimamente la comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere la propria lingua, poi a leggere libri, riviste, lettere, ecc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono sulle parole stampate, le pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge solo osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremmo anche che ha letto una frase se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come ciò che potremmo chiamare una mera macchina da lettura, ovvero non prestare alcuna attenzione a ciò che dice, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, diremmo che legge se agisce con la stessa assenza di errori di una macchina affidabile. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se, guardando quest’esempio, ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremmo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo “solo lui sa se sta leggendo; nessun altro può saperlo davvero”. Eppure bisogna ammettere che, per quanto riguarda la lettura di una parola determinata, nella mente del principiante che “fingeva” di leggere potrebbe essere accaduta la stessa identica cosa verificatasi nella mente del lettore esperto mentre leggeva la parola in questione. Quando parliamo del lettore esperto, utilizziamo la parola “leggere” in modo diverso rispetto a quando parliamo del principiante. Ciò che in un caso chiamiamo un esempio di lettura non lo chiamiamo un esempio di lettura nell’altro. – Ovviamente siamo portati a dire che ciò che è accaduto nel lettore esperto e nel principiante quando hanno pronunciato la parola non può essere la stessa cosa. Se non nel loro stato cosciente, la differenza risiede nelle regioni inconsce delle rispettive menti, o nei loro cervelli. Immaginiamo qui due meccanismi, di cui siamo in grado di vedere il funzionamento interno, e questo funzionamento interno è il vero criterio per stabilire se una persona sta leggendo o no. In realtà però in simili casi nessun meccanismo del genere ci è noto. Consideriamo la questione così:




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Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non fossero la coppia di verbi “parlare” : : “pensare” e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.
Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce… e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non fossero la coppia di verbi “parlare” : : “pensare” e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “prima di parlare, pensa!”, “parla senza pensare”, “ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “dice una cosa e pensa il contrario”, “non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “in francese si usano le parole nell’ordine in cui le pensiamo”.


Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, ecc., tutti elementi che chiameremmo mezzi dell’espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mentre mezzi dell’espressività come il gioco della mimica facciale o i gesti, di cui si può dire che accompagnano il discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.
Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, ecc., tutti elementi che chiameremmo mezzi dell’espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mentre mezzi dell’espressività come il gioco della mimica facciale o i gesti, di cui si può dire che accompagnano il discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero.


Torniamo all’esempio dell’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due usi diversi e non di uno solo è la seguente: “non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari e più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine dalla più scura alla più chiara”. Se dicessi tale frase, avrei di certo un tono diverso rispetto a quello con cui direi “disponi questi libri dal più scuro al più chiaro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero di riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
Torniamo all’esempio dell’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due usi diversi e non di uno solo è la seguente: “non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari e più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine dalla più scura alla più chiara”. Se dicessi tale frase, avrei di certo un tono diverso rispetto a quello con cui direi “disponi questi libri dal più scuro al più chiaro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “spero di riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione.
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E quindi in molti casi il fatto di agire in maniera volontaria (o involontaria) si caratterizza in quanto tale per via di una moltitudine di circostanze in cui l’azione ha luogo piuttosto che per un’esperienza che chiameremmo caratteristica dell’azione volontaria. In questo senso è vera l’affermazione secondo la quale ciò che è successo quando mi sono alzato dal letto – negli esempi in cui certamente non lo chiamerei un atto involontario – è che mi sono ritrovato intento ad alzarmi. O meglio che questo è un caso possibile, poiché naturalmente ogni giorno succede qualcosa di diverso.
E quindi in molti casi il fatto di agire in maniera volontaria (o involontaria) si caratterizza in quanto tale per via di una moltitudine di circostanze in cui l’azione ha luogo piuttosto che per un’esperienza che chiameremmo caratteristica dell’azione volontaria. In questo senso è vera l’affermazione secondo la quale ciò che è successo quando mi sono alzato dal letto – negli esempi in cui certamente non lo chiamerei un atto involontario – è che mi sono ritrovato intento ad alzarmi. O meglio che questo è un caso possibile, poiché naturalmente ogni giorno succede qualcosa di diverso.


I problemi di cui discutiamo da )<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando abbiamo riconosciuto il colore come rosso la parola “rosso” ci è arrivata in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza.
I problemi di cui discutiamo da &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando abbiamo riconosciuto il colore come rosso la parola “rosso” ci è arrivata in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza.


L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.
L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.