Libro marrone: Difference between revisions

no edit summary
No edit summary
No edit summary
Line 841: Line 841:
Il fatto di urlare di dolore contro la propria volontà potrebbe essere paragonato al fatto di sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno ci costringesse a sollevare le braccia premendoci all’improvviso una pistola contro le costole e ordinando “Mani in alto!”.
Il fatto di urlare di dolore contro la propria volontà potrebbe essere paragonato al fatto di sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno ci costringesse a sollevare le braccia premendoci all’improvviso una pistola contro le costole e ordinando “Mani in alto!”.


Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, alcune appartenenti alla mia lingua madre, alcune a lingue straniere a me più o meno familiari, alcune a lingue che mi sono completamente sconosciute (oppure – in fondo qui è lo stesso – parole senza senso inventate apposta). Alcune delle parole della mia lingua madre sono poi ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo”, sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime che un bambino impara, e alcune di queste ultime, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici più o meno comuni quali “carburatore”, “dinamo”, “fusibile”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette ad alta voce e dopo ognuna io devo dire “sì” o “no” a seconda del fatto che la capisca o meno. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso le parole che ho compreso e quando non ho compreso le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “sì” o “no”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostrerà una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non ci mostrerà nessuna esperienza singola che saremmo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze come queste: sento la parola “albero” e dico “sì” con il tono di voce e la sensazione di “ma certo”. Oppure sento “corroborazione” – dico a me stesso “vediamo un po’”, mi ricordo vagamente di un caso inerente e dico “sì”. Sento “aggeggio”, immagino quell’uomo che usava sempre tale parola e dico “sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo – “sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di indovinarne il significato dall’etimologia, ma non ci riesco e dico “no”. In un altro caso potrei dire a me stesso “sembra cinese… no”. Ecc. D’altra parte ci sarà un’ampia classe di casi in cui non sono consapevole che accada altro oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non hanno assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci saranno una classe che potrei chiamare esperienze tipiche del capire e alcune esperienze tipiche del non capire. Ma in contrasto con queste ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrei dire “non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘sì’ o ‘no’”.
Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, alcune appartenenti alla mia lingua madre, alcune a lingue straniere a me più o meno familiari, alcune a lingue che mi sono completamente sconosciute (oppure – in fondo qui è lo stesso – parole senza senso inventate apposta). Alcune delle parole della mia lingua madre sono poi ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo”, sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime che un bambino impara, e alcune di queste ultime, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici più o meno comuni quali “carburatore”, “dinamo”, “fusibile”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette ad alta voce e dopo ognuna io devo dire “Sì” o “No” a seconda del fatto che la capisca o meno. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso le parole che ho compreso e quando non ho compreso le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “Sì” o “No”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostrerà una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non ci mostrerà nessuna esperienza singola che saremmo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze come queste: sento la parola “albero” e dico “Dì” con il tono di voce e la sensazione di “Ma certo”. Oppure sento “corroborazione” – dico a me stesso “Vediamo un po’”, mi ricordo vagamente di un caso inerente e dico “Sì”. Sento “aggeggio”, mi ricordo dell’uomo che usava sempre questa parola e dico “Sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo – “Sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “Dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di indovinarne il significato dall’etimologia, ma non ci riesco e dico “No”. In un altro caso potrei dire a me stesso “Sembra cinese… no”. Ecc. D’altra parte ci sarà un’ampia classe di casi in cui non sono consapevole che accada altro oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non hanno assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci saranno una classe che potrei chiamare esperienze tipiche del capire e alcune esperienze tipiche del non capire. Ma in contrasto con queste ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrei dire “Non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘Sì’ o ‘No’”.


Se qualcuno adesso affermasse “ma di sicuro, a meno che rispondendo ‘sì’ tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’ qualcosa è accaduto”, potrei essere portato a riflettere e dire a me stesso “nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento di familiarità?”. Tuttavia, quando sento usare o uso io stesso tale parola, provo sempre questo sentimento? mi ricordo di averlo provato in passato? mi ricordo anche solo di un insieme di, poniamo, cinque sensazioni alcune delle quali io abbia sperimentato in ogni occasione in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento di familiarità” appena menzionato non è un’esperienza piuttosto caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero quella di filosofare sul “capire”?
Se qualcuno adesso affermasse “Ma di sicuro, a meno che rispondendo ‘sì’ tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’ qualcosa è accaduto”, potrei essere portato a riflettere e dire a me stesso “Nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento di familiarità?”. Tuttavia, quando sento usare o uso io stesso tale parola, provo sempre questo sentimento? mi ricordo di averlo provato in passato? mi ricordo anche solo di un insieme di, poniamo, cinque sensazioni alcune delle quali io abbia sperimentato in ogni occasione in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento di familiarità” appena menzionato non è un’esperienza piuttosto caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero quella di filosofare sul “capire”?


Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare il fatto di dire “sì” e il fatto di dire “no” esperienze caratteristiche del fatto di capire o non capire; ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? – Ci troviamo qui in una curiosa difficoltà: da un lato sembra che non abbiamo ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, è presente un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato dire che in un tale caso tutto ciò che succede è che sento o dico la parola. Perché ciò sembra quanto dire che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso è così e in un altro senso non è così.
Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare il fatto di dire “sì” e il fatto di dire “no” esperienze caratteristiche del fatto di capire o non capire; ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? – Ci troviamo qui in una curiosa difficoltà: da un lato sembra che non abbiamo ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, è presente un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato dire che in un tale caso tutto ciò che succede è che sento o dico la parola. Perché ciò sembra quanto dire che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso è così e in un altro senso non è così.
Line 855: Line 855:
I problemi di cui discutiamo da &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando abbiamo riconosciuto il colore come rosso la parola “rosso” ci è arrivata in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza.
I problemi di cui discutiamo da &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando abbiamo riconosciuto il colore come rosso la parola “rosso” ci è arrivata in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza.


L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.
L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “Questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “Questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “Questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “Ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “Questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “Ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.


Potremmo domandare “hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.
Potremmo domandare “Hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “Quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “Arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “Ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘Rosso’ arriva in una maniera particolare”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.


“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere.
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “Mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “Non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “Adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “Certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “Di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere.


Ciò che è ''particolare'' nel modo in cui “rosso” ti arriva è che ti arriva mentre stai filosofando su questo argomento, proprio come ciò che era particolare nella posizione del tuo corpo quando ti sei concentrato su di essa era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun altro modo. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se questa enfatizzazione in realtà fosse un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza”; se mi si chiede “che modo è?”, posso rispondere “infila sempre la testa nella porta prima di entrare”. Qui mi riferisco a un elemento definito, e potrei dire che B entra nello stesso modo o che A smette di entrare così. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire alcuna descrizione di questo o quell’elemento specifico del suo atteggiamento, e la mia frase potrebbe significare solo “ho osservato A mentre stava seduto e fumava”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo potrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, ''questo'' modo”, e magari la si potrebbe accompagnare con uno schizzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. D’altro canto, la mia espressione “ha un modo particolare…” forse dovrebbe essere tradotta semplicemente in “sto contemplando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la nostra espressione; mentre nella forma precedente sembra descrivere un circolo, ovvero la parola “particolare” pare qui essere usata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, cioè guardiamo al suo uso come a un caso speciale dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in ''questo'' modo” anziché “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione faceva sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui arrivava la parola “rosso”, mentre ciò che mi porta a usare la parola “particolare” qui è il fatto che, per via del mio atteggiamento nei confronti del fenomeno, lo sto enfatizzando: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc.
Ciò che è ''particolare'' nel modo in cui “rosso” ti arriva è che ti arriva mentre stai filosofando su questo argomento, proprio come ciò che era particolare nella posizione del tuo corpo quando ti sei concentrato su di essa era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun altro modo. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se questa enfatizzazione in realtà fosse un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “Ho notato il modo in cui A entra nella stanza”; se mi si chiede “Che modo è?”, posso rispondere “Infila sempre la testa nella porta prima di entrare”. Qui mi riferisco a un elemento definito, e potrei dire che B entra nello stesso modo o che A smette di entrare così. Considera invece l’affermazione “Sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire alcuna descrizione di questo o quell’elemento specifico del suo atteggiamento, e la mia frase potrebbe significare solo “Ho osservato A mentre stava seduto e fumava”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo potrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “Ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “Quale modo?” sarebbe “Be’, ''questo'' modo”, e magari la si potrebbe accompagnare con uno schizzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. D’altro canto, la mia espressione “Ha un modo particolare…” forse dovrebbe essere tradotta semplicemente in “Sto contemplando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la nostra espressione; mentre nella forma precedente sembra descrivere un circolo, ovvero la parola “particolare” pare qui essere usata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, cioè guardiamo al suo uso come a un caso speciale dell’uso transitivo. Alla domanda “In che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “In ''questo'' modo” anziché “Non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione faceva sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui arrivava la parola “rosso”, mentre ciò che mi porta a usare la parola “particolare” qui è il fatto che, per via del mio atteggiamento nei confronti del fenomeno, lo sto enfatizzando: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc.


Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva.
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva.


Quindi diciamo “con ‘chilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua”, “con ‘A’ intendo ‘B’”, dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “ho detto che ero malato e lo intendevo davvero”. Qui di nuovo si potrebbe chiamare il fatto di intendere ciò che si dice “ripercorrerlo”, “enfatizzarlo”. Ma l’uso di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “che ''cosa'' intendevi?” e rispondere “con quello che ho detto intendevo quello che ho detto”; trattando il caso di “intendo ciò che dico” come un caso speciale di “dicendo ‘A’ intendo ‘B’”. In effetti si usa l’espressione “intendo ciò che intendo” per dire “non ho una spiegazione in merito”. La domanda “che cosa si intende con questa frase ''p''?”, se non chiede una traduzione di ''p'' in altri simboli, non ha più senso della domanda “quale frase risulta da questa sequenza di parole?”.
Quindi diciamo “Con ‘chilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua”, “Con ‘A’ intendo ‘B’”, dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “Ho detto che ero malato e lo intendevo davvero”. Qui di nuovo si potrebbe chiamare il fatto di intendere ciò che si dice “ripercorrerlo”, “enfatizzarlo”. Ma l’uso di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “Che ''cosa'' intendevi?” e rispondere “Con quello che ho detto intendevo quello che ho detto”; trattando il caso di “Intendo ciò che dico” come un caso speciale di “Dicendo ‘A’ intendo ‘B’”. In effetti si usa l’espressione “Intendo ciò che intendo” per dire “Non ho una spiegazione in merito”. La domanda “Che cosa si intende con questa frase ''p''?”, se non chiede una traduzione di ''p'' in altri simboli, non ha più senso della domanda “Quale frase risulta da questa sequenza di parole?”.


Immagina che alla domanda “che cos’è un chilogrammo?” io risponda “è quanto pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “be’, quanto pesa un litro d’acqua?”. – –
Immagina che alla domanda “Che cos’è un chilogrammo?” io risponda “È quanto pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “Be’, quanto pesa un litro d’acqua?”. – –


Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso”, “sono quello che sono”, “le cose sono quelle che sono”, oppure “se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “la cosa è risolta” con “se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “la cosa è risolta” dirò “la questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “se è così è così” è sottolineare il “così”.
Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “Se non posso, non posso”, “Sono quello che sono”, “Le cose sono quelle che sono”, oppure “Se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “La cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “La cosa è risolta” con “Se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “La cosa è risolta” dirò “La questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “Se è così è così” è sottolineare il “Così”.


Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!”. Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di commentare delle alternative, come quando diciamo “o piove o non piove; se piove staremo nella mia stanza, se non piove…”. La prima parte della frase non contiene informazioni (proprio come “prendere o lasciare” non è un ordine). Invece di “o piove o non piove” avremmo potuto dire “considera i due casi…”. La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione.
Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!”. Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di commentare delle alternative, come quando diciamo “O piove o non piove; se piove staremo nella mia stanza, se non piove…”. La prima parte della frase non contiene informazioni (proprio come “Prendere o lasciare” non è un ordine). Invece di “O piove o non piove” avremmo potuto dire “Considera i due casi…”. La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione.


A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) si è tentati di adoperare l’espressione “''naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…”. Raddrizzandola otterremo: “sia il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato…”. Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sull’estremità superiore della gamma dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.
A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) si è tentati di adoperare l’espressione “''Naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia…”. Raddrizzandola otterremo: “Sia il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato…”. Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sull’estremità superiore della gamma dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare.


Consideriamo ora un caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare”, in cui essa, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi – il caso in cui contempliamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: [[File:Brown Book 2-Ts310,132.png|40px|link=]]. Lascia che tale volto ti susciti delle impressioni. Puoi quindi essere portato a dire: “di sicuro non vedo meri tratti di penna. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''”. Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto per introdurre una descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire dicendo per esempio “sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni”. Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa”, diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che si potrebbe staccare dal disegno del volto. È come se potessimo dire “questo volto ha un’espressione particolare: proprio questa” (indicando qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, questo qualcosa dovrebbe essere il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti quando ce n’è uno solo.) Contribuisce all’illusione il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “questo volto ''ha'' un’espressione particolare”. Le cose assumono un altro aspetto quando invece diciamo “questo ''è'' un volto peculiare”. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato.)
Consideriamo ora un caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare”, in cui essa, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi – il caso in cui contempliamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: [[File:Brown Book 2-Ts310,132.png|40px|link=]]. Lascia che tale volto ti susciti delle impressioni. Puoi quindi essere portato a dire: “Di sicuro non vedo meri tratti di penna. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''”. Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto per introdurre una descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire dicendo per esempio “Sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni”. Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa”, diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che si potrebbe staccare dal disegno del volto. È come se potessimo dire “Questo volto ha un’espressione particolare: proprio questa” (indicando qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, questo qualcosa dovrebbe essere il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti quando ce n’è uno solo.) Contribuisce all’illusione il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “Questo volto ''ha'' un’espressione particolare”. Le cose assumono un altro aspetto quando invece diciamo “Questo ''è'' un volto peculiare”. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato.)


“Questo volto ha un’espressione particolare”. Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
“Questo volto ha un’espressione particolare”. Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
Line 881: Line 881:
Ciò che è in corso qui è un atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la locuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è nel volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa, ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori del volto che vediamo, bensì nel senso che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che il volto eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse il prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del volto fosse trovare il prototipo a cui corrisponde – come se nella nostra mente ci fosse uno stampo e l’immagine che vediamo fosse caduta in tale stampo combaciando. Invece è che abbiamo fatto affondare l’immagine nella nostra mente ed essa vi ha lasciato il proprio stampo.
Ciò che è in corso qui è un atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la locuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è nel volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa, ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori del volto che vediamo, bensì nel senso che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che il volto eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse il prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del volto fosse trovare il prototipo a cui corrisponde – come se nella nostra mente ci fosse uno stampo e l’immagine che vediamo fosse caduta in tale stampo combaciando. Invece è che abbiamo fatto affondare l’immagine nella nostra mente ed essa vi ha lasciato il proprio stampo.


Ovviamente, quando diciamo “questo è un ''volto'', non meri tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo disegno), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, ecc. Se invece gli chiedi: “che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee”. Ora immagina di cercare un uomo in un’immagine-enigma; in tal caso accade spesso che quelle che a prima vista sembrano “solo linee” poi ci appaiano come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è un volto”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che lo riconosciamo come il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come un volto''” va paragonato invece al fatto di vedere questo disegno
Ovviamente, quando diciamo “Questo è un ''volto'', non meri tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “Che cos’è?” (indicando il primo disegno), lui certamente ti dirà “È una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “È maschile e femminile?”, “Felice o triste?”, ecc. Se invece gli chiedi: “Che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “Non è niente” oppure “Sono solo tratti di penna”. Ora immagina di cercare un uomo in un’immagine-enigma; in tal caso accade spesso che quelli che a prima vista sembrano “meri tratti di penna” poi ci appaiano come un volto. In questi casi diciamo “Ora lo vedo come un volto”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che lo riconosciamo come il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come un volto''” va paragonato invece al fatto di vedere questo disegno




Line 911: Line 911:




come una svastica” è di speciale interesse perché tale espressione potrebbe significare che siamo, in qualche modo, affetti dall’illusione ottica per cui il quadrato non sarebbe del tutto chiuso e vi sarebbero quei pertugi che distinguono la svastica dal nostro disegno. D’altronde è evidente che non è questo che intendevamo dicendo “vedere questo disegno come una svastica”. L’abbiamo visto in un modo che ha suggerito la descrizione “lo vedo come una svastica”. Si potrebbe ipotizzare che avremmo dovuto dire “lo vedo come una svastica chiusa”… ma allora qual è la differenza tra una svastica chiusa e un quadrato con le diagonali? Penso che in questo caso sia facile riconoscere “ciò che accade quando vediamo la figura come una svastica”. Credo si tratti del fatto che ripercorriamo la figura con gli occhi in un modo particolare, cioè cominciando dal centro, facendo scorrere lo sguardo lungo un raggio, lungo un lato adiacente a esso, poi ricominciando dal centro, prendendo il raggio successivo e il lato successivo, ad esempio in senso orario, ecc. Ma questa ''spiegazione'' del fenomeno di vedere la figura come una svastica non è per noi di rilevanza fondamentale. Ci interessa solo nella misura in cui contribuisce a mostrarci che l’espressione “vedere la figura come una svastica” non significava vedere ''questo'' come ''quello'', vedere una cosa come un’altra cosa quando, in sostanza, ''due'' oggetti visivi sono entrati nel processo in corso. – Quindi anche vedere la prima figura come un cubo non significava “prenderla per un cubo”. (Poiché potremmo non aver mai visto un cubo e comunque avere questa esperienza di “vederla come un cubo”).
come una svastica” è di speciale interesse perché tale espressione potrebbe significare che siamo, in qualche modo, affetti dall’illusione ottica per cui il quadrato non sarebbe del tutto chiuso e vi sarebbero quei pertugi che distinguono la svastica dal nostro disegno. D’altronde è evidente che non è questo che intendevamo dicendo “vedere questo disegno come una svastica”. L’abbiamo visto in un modo che ha suggerito la descrizione “Lo vedo come una svastica”. Si potrebbe ipotizzare che avremmo dovuto dire “Lo vedo come una svastica chiusa”; – ma allora qual è la differenza tra una svastica chiusa e un quadrato con le diagonali? Penso che in questo caso sia facile riconoscere “ciò che accade quando vediamo la figura come una svastica”. Credo si tratti del fatto che ripercorriamo la figura con gli occhi in un modo particolare, cioè cominciando dal centro, facendo scorrere lo sguardo lungo un raggio, lungo un lato adiacente a esso, poi ricominciando dal centro, prendendo il raggio successivo e il lato successivo, ad esempio in senso orario, ecc. Ma questa ''spiegazione'' del fenomeno di vedere la figura come una svastica non è per noi di rilevanza fondamentale. Ci interessa solo nella misura in cui contribuisce a mostrarci che l’espressione “vedere la figura come una svastica” non significava vedere ''questo'' come ''quello'', vedere una cosa come un’altra cosa quando, in sostanza, ''due'' oggetti visivi sono entrati nel processo in corso. – Quindi anche vedere la prima figura come un cubo non significava “prenderla per un cubo”. (Poiché potremmo non aver mai visto un cubo e comunque avere questa esperienza di “vederla come un cubo”).


In tal modo “vedere dei tratti di penna come un volto” non comporta un confronto tra un gruppo di tratti di penna e un vero volto umano; tuttavia tale forma di espressione suggerisce nella maniera più stringente che si stia alludendo a un confronto.
In tal modo “vedere dei tratti di penna come un volto” non comporta un confronto tra un gruppo di tratti di penna e un vero volto umano; tuttavia tale forma di espressione suggerisce nella maniera più stringente che si stia alludendo a un confronto.
Line 917: Line 917:
Considera anche questo esempio: guarda la W prima “come una doppia V maiuscola” e poi come una M maiuscola rovesciata. Osserva in che cosa consiste fare l’una e l’altra cosa.
Considera anche questo esempio: guarda la W prima “come una doppia V maiuscola” e poi come una M maiuscola rovesciata. Osserva in che cosa consiste fare l’una e l’altra cosa.


Distinguiamo tra vedere il disegno come un volto e vederlo come qualcos’altro o come “meri tratti di penna”. Distinguiamo anche tra il fatto dare un’occhiata superficiale a un disegno (vedendolo come un volto) e il fatto di lasciare che il volto eserciti su di noi la sua piena impressione. Sarebbe però bizzarro dire “sto lasciando che il volto eserciti su di me una ''particolare'' impressione” (salvo in quei casi in cui diresti di poter lasciare che lo stesso volto produca in te impressioni diverse). Nel lasciare che il volto si imprima in me e nel contemplare la sua “impressione particolare” non si paragonano l’una con l’altra due cose inerenti alla molteplicità di un volto; c’è solo ''una'' cosa che viene caricata di enfasi. Assorbendone l’espressione, non trovo nella mente un prototipo di tale espressione; invece, per così dire, da tale impressione ricavo un sigillo.
Distinguiamo tra vedere il disegno come un volto e vederlo come qualcos’altro o come “meri tratti di penna”. Distinguiamo anche tra il fatto dare un’occhiata superficiale a un disegno (vedendolo come un volto) e il fatto di lasciare che il volto eserciti su di noi la sua piena impressione. Sarebbe però bizzarro dire “Sto lasciando che il volto eserciti su di me una ''particolare'' impressione” (salvo in quei casi in cui diresti di poter lasciare che lo stesso volto produca in te impressioni diverse). Nel lasciare che il volto si imprima in me e nel contemplare la sua “impressione particolare” non si paragonano l’una con l’altra due cose inerenti alla molteplicità di un volto; c’è solo ''una'' cosa che viene caricata di enfasi. Assorbendone l’espressione, non trovo nella mente un prototipo di tale espressione; invece, per così dire, da tale impressione ricavo un sigillo.


Ciò descrive anche quello che accade quando in &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> diciamo a noi stessi “la parola ‘rosso’ arriva in una maniera particolare…”. Si potrebbe ribattere “ho capito, stai ripetendo a te stesso una qualche esperienza e intanto continui a fissarla”.
Ciò descrive anche quello che accade quando in &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> diciamo a noi stessi “La parola ‘rosso’ arriva in una maniera particolare…”. Si potrebbe ribattere “Ho capito, stai ripetendo a te stesso una qualche esperienza e intanto continui a fissarla”.


Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni confrontando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali – confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a farci degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, cioè dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che concordano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si identifica un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di dire che, nella maggior parte dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente siamo tentati di descrivere le cose in questo modo per via del fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo com’era quando ci siamo visti per l’ultima volta dieci anni fa.
Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni confrontando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali – confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a farci degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, cioè dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che concordano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si identifica un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di dire che, nella maggior parte dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente siamo tentati di descrivere le cose in questo modo per via del fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo com’era quando ci siamo visti per l’ultima volta dieci anni fa.


Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo che avviene nella mente e fuori di essa quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' quando la riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!”. Quindi possiamo dire che un tipo di evento del riconoscimento di qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e lo vediamo come un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma e troviamo che concorda, o che combacia con uno stampo pronto ad accoglierlo nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non entra alcuno stampo né confronto, c’è solo questa forma, non altre con cui confrontarla e, per così dire, esclamare un “ma certo!”. Come quando mentre faccio un puzzle da qualche parte resta uno spazio vuoto, poi vedo un pezzo palesemente combaciante e lo metto nello spazio vuoto dicendomi “ma certo!”. Qui però esclamiamo “ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con lo stampo, mentre, nel caso invece in cui vediamo il disegno come un volto, assumiamo un atteggiamento analogo ''senza'' ragione.
Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo che avviene nella mente e fuori di essa quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' quando la riconosci. Può trattarsi semplicemente di “Ciao!”. Quindi possiamo dire che un tipo di evento del riconoscimento di qualcosa che vediamo consiste nel dirle “Ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e lo vediamo come un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma e troviamo che concorda, o che combacia con uno stampo pronto ad accoglierlo nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non entra alcuno stampo né confronto, c’è solo questa forma, non altre con cui confrontarla e, per così dire, esclamare un “Ma certo!”. Come quando mentre faccio un puzzle da qualche parte resta uno spazio vuoto, poi vedo un pezzo palesemente combaciante e lo metto nello spazio vuoto dicendomi “Ma certo!”. Qui però esclamiamo “Ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con lo stampo, mentre, nel caso invece in cui vediamo il disegno come un volto, assumiamo un atteggiamento analogo ''senza'' ragione.


La stessa strana illusione a cui siamo soggetti quando sembra che cerchiamo il qualcosa che un volto esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai lineamenti di fronte a noi – questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci una melodia e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, diciamo “questa melodia dice ''qualcosa''”, ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla di tale per cui si possa esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendo che le cose stanno così, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, questo non significa altro se non “esprime se stessa”. – “Di certo però, quando la suoni, non la suoni ''in un modo qualunque'', bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”. – – Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando dico “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò, incidentalmente, mostra che che aspetto ha una “giustificazione” e una “spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare una melodia e dire “non è così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste il fatto di sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?”. L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che sia per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiede “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettarla in un modo particolare, e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che la melodia ''effettivamente fischiettata'' (e non una ''sua'' immagine).
La stessa strana illusione a cui siamo soggetti quando sembra che cerchiamo il qualcosa che un volto esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai lineamenti di fronte a noi – questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci una melodia e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, diciamo “Questa melodia dice ''qualcosa''”, ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla di tale per cui si possa esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendo che le cose stanno così, io mi arrendo e dico “Esprime soltanto un pensiero musicale”, questo non significa altro se non “Esprime se stessa”. – “Di certo però, quando la suoni, non la suoni ''in un modo qualunque'', bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”. – – Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando dico “A questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “Questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò, incidentalmente, mostra che che aspetto ha una “giustificazione” e una “spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare una melodia e dire “Non è così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “In che cosa consiste il fatto di sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?”. L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che sia per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiede “Come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettarla in un modo particolare, e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che la melodia ''effettivamente fischiettata'' (e non una ''sua'' immagine).


Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale che concepisco come il contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo volto” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale che concepisco come il contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “Ora capisco l’espressione di questo volto” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.


Considera anche l’espressione “di’ a te stesso che è un ''valzer'' e lo eseguirai correttamente”.
Considera anche l’espressione “Di’ a te stesso che è un ''valzer'' e lo eseguirai correttamente”.


Ciò che chiamiamo “capire una frase” è, in molti casi, molto più simile al capire un tema musicale di quel che saremmo portati a pensare. Non intendo dire però che il capire un tema musicale è più simile all’immagine che tendiamo a farci del capire una frase; ma che tale immagine è sbagliata e che, rispetto a quanto ci parrebbe a un primo sguardo, il capire una frase assomiglia molto di più a ciò che davvero ha luogo quando capiamo una melodia. Perché il capire una frase, si dice, indica una realtà fuori dal linguaggio. Invece si potrebbe dire “capire una frase significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto della frase è ''nella'' frase”.
Ciò che chiamiamo “capire una frase” è, in molti casi, molto più simile al capire un tema musicale di quel che saremmo portati a pensare. Non intendo dire però che il capire un tema musicale è più simile all’immagine che tendiamo a farci del capire una frase; ma che tale immagine è sbagliata e che, rispetto a quanto ci parrebbe a un primo sguardo, il capire una frase assomiglia molto di più a ciò che davvero ha luogo quando capiamo una melodia. Perché il capire una frase, si dice, indica una realtà fuori dal linguaggio. Invece si potrebbe dire “Capire una frase significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto della frase è ''nella'' frase”.


Ora possiamo tornare alle idee di “riconoscimento” e “familiarità” e proprio all’esempio di riconoscimento e familiarità che ha avviato le nostre riflessioni sull’uso di questi termini e di molti altri connessi. Mi riferisco all’esempio della lettura, diciamo, di una frase scritta in una lingua che si conosce bene. – Leggo tale frase per vedere com’è l’esperienza della lettura, cosa “succede davvero” quando si legge, e ne ricavo un’esperienza particolare che considero essere l’esperienza della lettura. E questa, sembra, non consiste solo nel vedere le parole e nel pronunciarle, ma, inoltre, in un’esperienza che potrei chiamare di carattere intimo. (Sono per così dire in rapporti intimi con le parole “io leggo”).
Ora possiamo tornare alle idee di “riconoscimento” e “familiarità” e proprio all’esempio di riconoscimento e familiarità che ha avviato le nostre riflessioni sull’uso di questi termini e di molti altri connessi. Mi riferisco all’esempio della lettura, diciamo, di una frase scritta in una lingua che si conosce bene. – Leggo tale frase per vedere com’è l’esperienza della lettura, cosa “succede davvero” quando si legge, e ne ricavo un’esperienza particolare che considero essere l’esperienza della lettura. E questa, sembra, non consiste solo nel vedere le parole e nel pronunciarle, ma, inoltre, in un’esperienza che potrei chiamare di carattere intimo. (Sono per così dire in rapporti intimi con le parole “io leggo”.)


Nel leggere, mi viene da dire, le parole pronunciate arrivano in una maniera particolare; anche le parole scritte che leggo non mi appaiono come dei meri scarabocchi. Al contempo non sono in grado di indicare, o afferrare, tale “maniera particolare”.
Nel leggere, mi viene da dire, le parole pronunciate arrivano in una maniera particolare; anche le parole scritte che leggo non mi appaiono come dei meri scarabocchi. Al contempo non sono in grado di indicare, o afferrare, tale “maniera particolare”.
Line 943: Line 943:
Quando abbiamo detto che oltre alle esperienze di vedere e pronunciare parole fa parte della lettura un’altra esperienza ecc. ci siamo espressi in maniera fuorviante. Ciò equivale a dire che a certe esperienze se ne aggiunge un’altra. – Prendiamo ora l’esperienza di vedere un volto triste, poniamo, in un disegno – possiamo dire che il fatto di vedere il disegno come un volto triste non è “solo” vederlo come un qualche insieme di tratti di penna (pensa all’immagine-enigma). Ma la parola “solo” qui pare sottintendere che, nel vedere il disegno come un volto, all’esperienza di vederlo come meri tratti di penna si aggiunge un’altra esperienza; come se dovessi dire che vedere il disegno come un volto consiste di due esperienze, di due elementi.
Quando abbiamo detto che oltre alle esperienze di vedere e pronunciare parole fa parte della lettura un’altra esperienza ecc. ci siamo espressi in maniera fuorviante. Ciò equivale a dire che a certe esperienze se ne aggiunge un’altra. – Prendiamo ora l’esperienza di vedere un volto triste, poniamo, in un disegno – possiamo dire che il fatto di vedere il disegno come un volto triste non è “solo” vederlo come un qualche insieme di tratti di penna (pensa all’immagine-enigma). Ma la parola “solo” qui pare sottintendere che, nel vedere il disegno come un volto, all’esperienza di vederlo come meri tratti di penna si aggiunge un’altra esperienza; come se dovessi dire che vedere il disegno come un volto consiste di due esperienze, di due elementi.


Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diverse esperienze o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Confronta questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera questa affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza gustativa è un composto del sapore dello zucchero e del sapore del tè”. Oppure: “se sento l’accordo di do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire il do, il mi, il sol”. E d’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate su certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire la vocale “a” cantata sulla alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di isolare nell’esperienza composita le sue esperienze costituenti?
Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diverse esperienze o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “Non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “La mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Confronta questo caso con quello in cui dico “Ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera questa affermazione: “Quando bevo tè dolce, la mia esperienza gustativa è un composto del sapore dello zucchero e del sapore del tè”. Oppure: “Se sento l’accordo di do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire il do, il mi, il sol”. E d’altra parte “Sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate su certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire la vocale “a” cantata sulla alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di isolare nell’esperienza composita le sue esperienze costituenti?


Anche se l’espressione secondo la quale vedere un disegno come un volto non è soltanto vedere dei tratti di penna sembra indicare una qualche somma di esperienze, certamente non diremmo che, quando vediamo il disegno come una faccia, abbiamo anche l’esperienza di vederlo come dei meri tratti di penna e ''inoltre'' qualche altra esperienza. Ciò si chiarisce ulteriormente se immaginiamo che qualcuno dica che vedere il disegno
Anche se l’espressione secondo la quale vedere un disegno come un volto non è soltanto vedere dei tratti di penna sembra indicare una qualche somma di esperienze, certamente non diremmo che, quando vediamo il disegno come una faccia, abbiamo anche l’esperienza di vederlo come dei meri tratti di penna e ''inoltre'' qualche altra esperienza. Ciò si chiarisce ulteriormente se immaginiamo che qualcuno dica che vedere il disegno
Line 954: Line 954:
come un cubo consiste nel vederlo come una figura piana e in più nell’avere un’esperienza di profondità.
come un cubo consiste nel vederlo come una figura piana e in più nell’avere un’esperienza di profondità.


Quando ho avuto l’impressione che, sebbene durante la lettura una certa esperienza costante continuasse indefinitamente, in un certo senso non riuscivo ad afferrarla, la mia difficoltà sorgeva dall’errore di voler paragonare tale caso con quello in cui una parte della mia esperienza può essere considerata un accompagnamento di un’altra. Dunque talvolta siamo tentati di chiedere “se mentre leggo sento questo ronzio costante, ''dov''’è?”. Vorrei fare il gesto di indicare e non c’è nulla da indicare. Il termine “afferrare” esprime la stessa fuorviante analogia.
Quando ho avuto l’impressione che, sebbene durante la lettura una certa esperienza costante continuasse indefinitamente, in un certo senso non riuscivo ad afferrarla, la mia difficoltà sorgeva dall’errore di voler paragonare tale caso con quello in cui una parte della mia esperienza può essere considerata un accompagnamento di un’altra. Dunque talvolta siamo tentati di chiedere “Se mentre leggo sento questo ronzio costante, ''dov''’è?”. Vorrei fare il gesto di indicare e non c’è nulla da indicare. Il termine “afferrare” esprime la stessa fuorviante analogia.


Invece di domandare “dove si trova quest’esperienza costante che sembra continuare fintanto che leggo?”, bisognerebbe domandare “quando dico ‘una particolare atmosfera avvolge le parole che leggo’, con che cosa sto confrontando questo caso?”.
Invece di domandare “Dove si trova quest’esperienza costante che sembra continuare fintanto che leggo?”, bisognerebbe domandare “Quando dico ‘una particolare atmosfera avvolge le parole che leggo’, con che cosa sto confrontando questo caso?”.


Cercherò di elucidarlo per mezzo di un caso analogo: di fronte all’apparenza tridimensionale del disegno
Cercherò di elucidarlo per mezzo di un caso analogo: di fronte all’apparenza tridimensionale del disegno
Line 965: Line 965:




in noi tende a sorgere una perplessità esprimibile con la domanda “in che cosa consiste il fatto di vederlo tridimensionalmente?”. In realtà tale interrogativo chiede “che cos’è che, quando lo vediamo tridimensionalmente, si aggiunge al semplice fatto di vedere il disegno?”. Ma quale risposta possiamo aspettarci? Come dice Hertz: “Ma evidentemente la domanda si aspetta la risposta sbagliata” (p. 9, Introduzione, ''I principi della meccanica''). È la domanda stessa a tenere la mente premuta contro un muro spoglio, impedendole così di trovare l’uscita. Per mostrare a un uomo la via d’uscita devi innanzitutto liberarlo dall’influenza fuorviante della domanda.
in noi tende a sorgere una perplessità esprimibile con la domanda “In che cosa consiste il fatto di vederlo tridimensionalmente?”. In realtà tale interrogativo chiede “Che cos’è che, quando lo vediamo tridimensionalmente, si aggiunge al semplice fatto di vedere il disegno?”. Ma quale risposta possiamo aspettarci? Come dice Hertz: “Ma evidentemente la domanda si aspetta la risposta sbagliata” (p. 9, Introduzione, ''I principi della meccanica''). È la domanda stessa a tenere la mente premuta contro un muro spoglio, impedendole così di trovare l’uscita. Per mostrare a un uomo la via d’uscita devi innanzitutto liberarlo dall’influenza fuorviante della domanda.


Guarda una parola scritta, per esempio “leggere”. “Non è solo uno scarabocchio, è ‘leggere’”, direi. “Ha una fisionomia definita”. Ma che cos’è che sto dicendo davvero della parola? Una volta raddrizzata, di che affermazione si tratta? “La parola cade”, si è tentati di spiegare, “in uno stampo nella mia mente che era ''da tempo'' pronto per lei”. Poiché però non percepisco sia la parola sia uno stampo, la metafora della parola che si adatta a uno stampo non può alludere all’esperienza di confrontare la forma concava e quella convessa prima che le si faccia combaciare, bensì all’esperienza di vedere la forma convessa accentuata da uno sfondo particolare.
Guarda una parola scritta, per esempio “leggere”. “Non è solo uno scarabocchio, è ‘leggere’”, direi. “Ha una fisionomia definita”. Ma che cos’è che sto dicendo davvero della parola? Una volta raddrizzata, di che affermazione si tratta? “La parola cade”, si è tentati di spiegare, “in uno stampo nella mia mente che era ''da tempo'' pronto per lei”. Poiché però non percepisco sia la parola sia uno stampo, la metafora della parola che si adatta a uno stampo non può alludere all’esperienza di confrontare la forma concava e quella convessa prima che le si faccia combaciare, bensì all’esperienza di vedere la forma convessa accentuata da uno sfondo particolare.
Line 978: Line 978:
''i'') sarebbe l’immagine della forma concava e di quella convessa prima che le si faccia combaciare. Vediamo due cerchi e li possiamo confrontare. ''ii'') è l’immagine della forma convessa in quella concava. C’è un solo cerchio e ciò che chiamiamo lo stampo si limita ad accentuarlo oppure, come abbiamo detto talvolta, a enfatizzarlo.
''i'') sarebbe l’immagine della forma concava e di quella convessa prima che le si faccia combaciare. Vediamo due cerchi e li possiamo confrontare. ''ii'') è l’immagine della forma convessa in quella concava. C’è un solo cerchio e ciò che chiamiamo lo stampo si limita ad accentuarlo oppure, come abbiamo detto talvolta, a enfatizzarlo.


Sono tentato di dire “questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare”. – Ma non posso dire “vedo ''questo'' come ''questo'' volto”; dovrei dire “vedo questo come ''un'' volto”. Ma ho l’impressione di voler dire “non lo vedo come ''un'' volto, lo vedo come ''questo'' volto!”. Ma nella seconda metà di questa frase la parola “volto” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “questo non lo vedo come un volto, lo vedo ''così''”.
Sono tentato di dire “Questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare”. – Ma non posso dire “Vedo ''questo'' come ''questo'' volto”; dovrei dire “Vedo questo come ''un'' volto”. Ma ho l’impressione di voler dire “Non lo vedo come ''un'' volto, lo vedo come ''questo'' volto!”. Ma nella seconda metà di questa frase la parola “volto” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “Questo non lo vedo come un volto, lo vedo ''così''”.


Immagina che io dica “questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così''”, vedo il volto – questo sarebbe qualcosa di simile al dire “ciò che prima mi appare così, poi mi appare diversamente” e qui il “così” e il “diversamente” sarebbero accompagnati dai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco è usata questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi la sto dicendo? Supponi che la risposta sia “a me stesso”. Ciò però non è sufficiente. Qui si corre il grave pericolo di credere di sapere cosa farsene di una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’uso, per esempio, delle parole “così” e “diversamente?”. – oppure: quali sono i diversi usi che ne facciamo? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che è loro agganciato indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi un utilizzo della parola “questo” è quello accompagnato dal gesto di indicare qualcosa: diciamo “vedo il quadrato con le diagonali così”, indicando la svastica. E a proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare diversamente [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]”. E questo di certo non è l’uso che abbiamo fatto della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso possiamo chiamare immagini delle raffigurazioni mentali, perché da certi punti di vista sono paragonabili a immagini disegnate o dipinte e da altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali nell’uso di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto che ha ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze diremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; e diciamo che non è cambiata perché è stata tenuta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “l’immagine non è cambiata” è usata in modi diversi a seconda che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con uno strumento, e un’altra grammatica se sono invece ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedere: quando mi sono detto “ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, come gli stessi che mi si erano dati in occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per occasioni future? Oppure volevo dire soltanto che “posso cambiare l’aspetto della figura?”
Immagina che io dica “Questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così''”, vedo il volto – questo sarebbe qualcosa di simile al dire “Ciò che prima mi appare così, poi mi appare diversamente” e qui il “così” e il “diversamente” sarebbero accompagnati dai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco è usata questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi la sto dicendo? Supponi che la risposta sia “A me stesso”. Ciò però non è sufficiente. Qui si corre il grave pericolo di credere di sapere cosa farsene di una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’uso, per esempio, delle parole “così” e “diversamente?”. – oppure: quali sono i diversi usi che ne facciamo? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che è loro agganciato indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi un utilizzo della parola “questo” è quello accompagnato dal gesto di indicare qualcosa: diciamo “Vedo il quadrato con le diagonali così”, indicando la svastica. E a proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “Ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare diversamente [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]”. E questo di certo non è l’uso che abbiamo fatto della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso possiamo chiamare immagini delle raffigurazioni mentali, perché da certi punti di vista sono paragonabili a immagini disegnate o dipinte e da altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali nell’uso di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto che ha ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze diremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; e diciamo che non è cambiata perché è stata tenuta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “L’immagine non è cambiata” è usata in modi diversi a seconda che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “Questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con uno strumento, e un’altra grammatica se sono invece ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedere: quando mi sono detto “Ciò che prima mi appare così, poi…” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, come gli stessi che mi si erano dati in occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per occasioni future? Oppure volevo dire soltanto che “Sono in grado di cambiare l’aspetto della figura?”


Il pericolo dell’illusione a cui siamo soggetti diventa del tutto evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “così” e “diversamente” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che dare un nome a qualcosa consista nel correlare in un modo peculiare e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con quel qualcosa. Come facciamo uso di tale peculiare correlazione sembra quasi una questione secondaria. (Si potrebbe quasi immaginare che dare un nome a una cosa comporti uno specifico atto sacramentale e che questo generi una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).
Il pericolo dell’illusione a cui siamo soggetti diventa del tutto evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “così” e “diversamente” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che dare un nome a qualcosa consista nel correlare in un modo peculiare e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con quel qualcosa. Come facciamo uso di tale peculiare correlazione sembra quasi una questione secondaria. (Si potrebbe quasi immaginare che dare un nome a una cosa comporti uno specifico atto sacramentale e che questo generi una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.).