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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro. | ||
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “Passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “Passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “Passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “Porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?”? Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico | (Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “Passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “Passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “Passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “Porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?”? Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘Dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?”. Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.) | ||
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Possiamo dire: l’espressione “B è in grado di continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo ''a'') tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure ''b'') tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure ''c'') (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova ancora in uno stato di shock da combattimento; oppure ''d'') tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia. | Possiamo dire: l’espressione “B è in grado di continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo ''a'') tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure ''b'') tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure ''c'') (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova ancora in uno stato di shock da combattimento; oppure ''d'') tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia. | ||
Alla domanda se “È in grado di continuare…” ha lo stesso significato di “Conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “Le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi come invece per esempio le espressioni | Alla domanda se “È in grado di continuare…” ha lo stesso significato di “Conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “Le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi come invece per esempio le espressioni ‘Sto bene’ e ‘Sono in buona salute’”; oppure possiamo dire “''In alcune circostanze'' ‘È in grado di continuare...’ significa che conosce la formula”. Immagina il caso di un linguaggio (per certi versi analogo a 49)) in cui due forme di espressione, due frasi diverse, sono impiegate per affermare che le gambe di una persona funzionano bene. Una delle due forme di espressione è usata solo nelle circostanze in cui si sta preparando una spedizione, un viaggio a piedi o qualcosa di simile; dell’altra ci si serve in casi in cui preparativi del genere non sono contemplati. Qui non sapremo se dire che le due frasi hanno lo stesso significato o significati diversi. In ogni caso è solo osservando nel dettaglio l’utilizzo di suddette espressioni che riusciamo a scorgere lo stato reale delle cose. – Ed è evidente che se nel caso presente decideremo di dire che le due espressioni hanno significati diversi, di sicuro non saremo in grado di dire che la differenza è che il fatto che rende vera la seconda frase è diverso da quello che rende vera la prima. | ||
Siamo giustificati a dire che la frase “È in grado di continuare…” ha un significato diverso da quello di “Sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui la prima frase si riferisce” su un piano per così dire superiore rispetto a quello dove hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, ecc.) | Siamo giustificati a dire che la frase “È in grado di continuare…” ha un significato diverso da quello di “Sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui la prima frase si riferisce” su un piano per così dire superiore rispetto a quello dove hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, ecc.) | ||
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Se per “credere” intendiamo una qualche attività, un processo che ha luogo mentre diciamo di credere, possiamo dire che credere è simile o equivalente a esprimere una credenza. | Se per “credere” intendiamo una qualche attività, un processo che ha luogo mentre diciamo di credere, possiamo dire che credere è simile o equivalente a esprimere una credenza. | ||
È interessante considerare un’obiezione a questo punto di vista: poniamo che io dica “Credo che pioverà” (e lo intenda davvero) e qualcuno voglia spiegare a un francese che non sa l’italiano che cosa credo. Allora, potresti dire, se tutto quello che è accaduto mentre credevo ciò che credevo si riduce al fatto che ho pronunciato la frase, il francese deve venire a conoscenza di ciò che credo se gli si spiegano tutte le parole che ho impiegato oppure gli si dice “Il croit | È interessante considerare un’obiezione a questo punto di vista: poniamo che io dica “Credo che pioverà” (e lo intenda davvero) e qualcuno voglia spiegare a un francese che non sa l’italiano che cosa credo. Allora, potresti dire, se tutto quello che è accaduto mentre credevo ciò che credevo si riduce al fatto che ho pronunciato la frase, il francese deve venire a conoscenza di ciò che credo se gli si spiegano tutte le parole che ho impiegato oppure gli si dice “Il croit ‘Pioverà’”. È evidente però che questo non gli illustrerà ciò che credo e di conseguenza, si potrebbe dire, non saremo riusciti a comunicargli l’essenziale, cioè il mio vero e proprio atto mentale di credere. – Ma la risposta è che, anche se ad accompagnare le mie parole ci fosse stata tutta una serie di esperienze, e se avessimo potuto trasmetterle al francese, ciononostante lui non avrebbe saputo che cosa io credevo. Perché “sapere che cosa io credo” non significa affatto: provare ciò che provo io nel dirlo; proprio come sapere con quale intenzione ho fatto questa mossa nel gioco degli scacchi non significa conoscere il mio esatto stato mentale mentre la compio. Al contempo però, in certi casi, conoscere questo stato mentale ti fornirebbe informazioni molto precise sulla mia intenzione. | ||
Diremmo che per spiegare al francese che cosa credevo avremmo dovuto tradurgli le mie parole in francese. E ''può'' darsi che così facendo non gli avremmo detto nulla – neppure indirettamente – su ciò che, mentre esprimevo tale credenza, è accaduto “dentro di me”. Invece gli avremmo indicato una frase che nel suo linguaggio occupa una posizione simile a quella della mia frase nella lingua italiana. – Di nuovo si potrebbe dire che, almeno in certi casi, avremmo potuto spiegargli con precisione molto maggiore ciò che credevo se lui fosse stato a suo agio con la lingua italiana, poiché in tal caso lui avrebbe saputo esattamente che cosa accadeva in me mentre parlavo. | Diremmo che per spiegare al francese che cosa credevo avremmo dovuto tradurgli le mie parole in francese. E ''può'' darsi che così facendo non gli avremmo detto nulla – neppure indirettamente – su ciò che, mentre esprimevo tale credenza, è accaduto “dentro di me”. Invece gli avremmo indicato una frase che nel suo linguaggio occupa una posizione simile a quella della mia frase nella lingua italiana. – Di nuovo si potrebbe dire che, almeno in certi casi, avremmo potuto spiegargli con precisione molto maggiore ciò che credevo se lui fosse stato a suo agio con la lingua italiana, poiché in tal caso lui avrebbe saputo esattamente che cosa accadeva in me mentre parlavo. | ||
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Torniamo all’esempio dell’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due usi diversi e non di uno solo è la seguente: “Non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari e più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “Recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine dalla più scura alla più chiara”. Se dicessi tale frase, avrei di certo un tono diverso rispetto a quello con cui direi “Disponi questi libri dal più scuro al più chiaro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “Spero di riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione. | Torniamo all’esempio dell’utilizzo di “più chiaro” e “più scuro” per oggetti colorati e vocali. Una ragione che ci piacerebbe fornire per la tesi secondo la quale si tratta di due usi diversi e non di uno solo è la seguente: “Non crediamo che le espressioni ‘più scuro’, ‘più chiaro’ in realtà siano adatte ai rapporti tra le vocali, percepiamo solo una somiglianza tra la relazione dei suoni e i colori più chiari e più scuri”. Se vuoi sapere di che tipo di sensazione si tratta, cerca di immaginare che senza preamboli tu chieda a qualcuno “Recitami le vocali a, e, i, o, u in ordine dalla più scura alla più chiara”. Se dicessi tale frase, avrei di certo un tono diverso rispetto a quello con cui direi “Disponi questi libri dal più scuro al più chiaro”, ovvero la prima frase la pronuncerei in un tono esitante simile a quello con cui direi “Spero di riuscire a farmi capire”, magari sorridendo timidamente. E questo, perlomeno, descrive la mia impressione. | ||
Ciò mi porta al punto successivo: quando mi si chiede “Di che colore è quel libro?”, e io rispondo “Rosso”, e poi mi si domanda “Che cosa ti ha portato a chiamare ‘rosso’ tale colore?”, nella maggior parte dei casi io dovrò rispondere “Nulla mi ''porta'' a chiamarlo rosso; cioè nessuna ''ragione''. L’ho soltanto guardato e ho detto | Ciò mi porta al punto successivo: quando mi si chiede “Di che colore è quel libro?”, e io rispondo “Rosso”, e poi mi si domanda “Che cosa ti ha portato a chiamare ‘rosso’ tale colore?”, nella maggior parte dei casi io dovrò rispondere “Nulla mi ''porta'' a chiamarlo rosso; cioè nessuna ''ragione''. L’ho soltanto guardato e ho detto ‘È rosso.’” Allora si è propensi a dire “Di sicuro non è successo soltanto questo; perché io potrei guardare un colore, pronunciare una parola e non nominare comunque il colore”. E poi si si sarebbe tentati di proseguire “Quando la pronunciamo per nominare il colore che abbiamo davanti, la parola ‘rosso’ ''arriva in una maniera particolare''”. Allo stesso tempo però se ci dicessero “Descrivi questa particolare maniera”, noi non ci sentiremmo preparati a fornire ''alcuna'' descrizione. Immagina che chiedessimo “Tu, in ogni caso, ricordi che il nome del colore ti è arrivato ''in'' ''quella maniera particolare'' ogniqualvolta in passato hai nominato un colore?” – L’interlocutore sarebbe costretto ad ammettere che non ricorda un modo specifico in cui ciò si è sempre verificato. Infatti si potrebbe facilmente fargli vedere come l’atto di nominare un colore può accompagnarsi a tutta una serie di esperienze diverse. Paragona casi come i seguenti: ''a'') metto un ferro nel fuoco per riscaldarlo finché il calore lo fa diventare rosso chiaro. Ti chiedo di guardare il ferro e voglio che tu mi dica di tanto in tanto quale stadio di ''calore'' ha raggiunto. Tu osservi e dici “Comincia a farsi rosso chiaro”. ''b'') Siamo a un incrocio di strade e io dico “Tieni d’occhio il semaforo. Quando diventa verde, avvertimi che attraverso”. Poniti la domanda: se in un caso gridi “Verde!” e in un altro “Vai!”, queste due parole ti arrivano nello stesso modo o in modi diversi? A riguardo puoi dire qualcosa in termini generali? ''c'') Ti chiedo “Qual è il colore del pezzo di materiale che hai in mano?” (e che io non riesco a vedere). Tu pensi “Com’è che si chiama questo? ‘Blu di Prussia’ o ‘indaco?’” | ||
È estremamente degno di nota che, quando durante una conversazione filosofica diciamo “Il nome di un colore ci arriva in una maniera particolare”, non ci diamo la pena di pensare ai molti casi e modi diversi in cui tale nome ci arriva. – La nostra tesi principale è che il nominare il colore è diverso dal semplice pronunciare una parola mentre si guarda un colore in un’altra occasione. Quindi si potrebbe dire: “Immagina che contiamo alcuni oggetti posati su un tavolo, uno blu, uno rosso, uno bianco, uno nero – guardandoli uno dopo l’altro diciamo | È estremamente degno di nota che, quando durante una conversazione filosofica diciamo “Il nome di un colore ci arriva in una maniera particolare”, non ci diamo la pena di pensare ai molti casi e modi diversi in cui tale nome ci arriva. – La nostra tesi principale è che il nominare il colore è diverso dal semplice pronunciare una parola mentre si guarda un colore in un’altra occasione. Quindi si potrebbe dire: “Immagina che contiamo alcuni oggetti posati su un tavolo, uno blu, uno rosso, uno bianco, uno nero – guardandoli uno dopo l’altro diciamo ‘Uno, due, tre, quattro’. Non è facile vedere come in questo caso, mentre pronunciamo le parole, accade qualcosa di diverso rispetto a ciò che accadrebbe se dovessimo comunicare a qualcuno il colore degli oggetti? E non avremmo potuto dire, con lo stesso diritto di prima, ‘Quando diciamo i numerali non succede nulla se non che li diciamo mentre guardiamo l’oggetto’?”. – A ciò si può rispondere in due modi: primo, indubbiamente, perlomeno nella stragrande maggioranza dei casi, l’atto di contare gli oggetti sarà accompagnato da esperienze diverse da quelle che accompagnano l’atto di nominarne i colori. Ed è facile abbozzare una descrizione di tale differenza. Nel contare conosciamo un certo gesto, che consiste nello scandire il numero battendo il dito sul tavolo o nell’annuire con la testa. Nell’altro caso c’è invece un’esperienza che si potrebbe chiamare “concentrare la propria attenzione sul colore”, farsene un’impressione completa. Questo è il genere di cose a cui si pensa quando si dice “È facile vedere come accade qualcosa di diverso quando contiamo gli oggetti e quando ne nominiamo i colori”. Ma non è affatto necessario che, mentre contiamo, abbiano luogo certe esperienze più o meno caratteristiche del contare, e neppure che quando guardiamo l’oggetto e ne nominiamo il colore si verifichi il fenomeno particolare del fissare tale colore. È vero che i processi del contare quattro oggetti e del nominarne i colori saranno, perlomeno nella maggioranza dei casi, diversi se presi nel loro insieme, ed è ''questo'' che ci colpisce; ma ciò non significa affatto che sappiamo che ogni volta, nei due casi in cui da un lato pronunciamo un numerale e nell’altro nominiamo un colore, accade per forza qualcosa di diverso. | ||
Quando filosofiamo su simili argomenti finiamo quasi sempre per fare qualcosa di questo genere: ripetiamo a noi stessi una certa esperienza, per esempio fissiamo un certo oggetto e tentiamo di “leggervi scritto”, per così dire, il nome del suo colore. Ed è del tutto naturale che a forza di fare e rifare la stessa cosa saremo portati a dire “Quando diciamo la parola ‘blu’ accade qualcosa di particolare”. Perché siamo consapevoli di stare ripetendo continuamente lo stesso processo. Chiediti però: si tratta dello stesso processo che compiamo normalmente quando in varie occasioni – non mentre facciamo filosofia – nominiamo il colore di un oggetto? | Quando filosofiamo su simili argomenti finiamo quasi sempre per fare qualcosa di questo genere: ripetiamo a noi stessi una certa esperienza, per esempio fissiamo un certo oggetto e tentiamo di “leggervi scritto”, per così dire, il nome del suo colore. Ed è del tutto naturale che a forza di fare e rifare la stessa cosa saremo portati a dire “Quando diciamo la parola ‘blu’ accade qualcosa di particolare”. Perché siamo consapevoli di stare ripetendo continuamente lo stesso processo. Chiediti però: si tratta dello stesso processo che compiamo normalmente quando in varie occasioni – non mentre facciamo filosofia – nominiamo il colore di un oggetto? | ||
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In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, potresti dire, hai un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confronta con questo il caso in cui passo a un uomo un fiammifero acceso dopo averlo usato per accendere la mia sigaretta e aver visto che lui vuole accendere la sua; oppure ancora il caso di muovere la mano mentre si scrive una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, ecc. mentre si parla. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, ho usato apposta quest’espressione fuorviante. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere tipico dell’azione volontaria. Si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio circa la volontà da questo tipo di esempi e si crede che si debbano applicare – anche se magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si possono chiamare a pieno titolo casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, ecc. ecc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso di lettura a tutti gli effetti. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione che è voluta e nel nostro primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere chiaramente il caso in questione da un altro in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del ponderare e del decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli altri nostri esempi e in infiniti altri che avremmo potuto fare? | In tale problema incappiamo anche riflettendo sulla volizione, sull’azione volontaria o involontaria. Pensa per esempio ai casi seguenti: pondero se alzare un certo carico piuttosto pesante, decido di farlo, poi ci applico la mia forza e lo sollevo. Qui, potresti dire, hai un caso di azione volontaria e intenzionale a tutti gli effetti. Confronta con questo il caso in cui passo a un uomo un fiammifero acceso dopo averlo usato per accendere la mia sigaretta e aver visto che lui vuole accendere la sua; oppure ancora il caso di muovere la mano mentre si scrive una lettera, o di muovere la bocca, la laringe, ecc. mentre si parla. – Quando ho chiamato il primo esempio un caso di azione volontaria a tutti gli effetti, ho usato apposta quest’espressione fuorviante. Poiché tale espressione indica che nel pensare alla volizione si è portati a considerare gli esempi di questo genere come quelli che esibiscono in maniera più evidente il carattere tipico dell’azione volontaria. Si estrapolano le proprie idee e il proprio linguaggio circa la volontà da questo tipo di esempi e si crede che si debbano applicare – anche se magari non in maniera tanto ovvia – a tutti i casi che si possono chiamare a pieno titolo casi di intenzionalità. – Continuiamo a imbatterci nella stessa situazione: le forme espressive del nostro linguaggio ordinario combaciano nel modo più palese con certe applicazioni molto specifiche delle parole “volere”, “pensare”, “intendere”, “leggere”, ecc. ecc. Dunque avremmo potuto chiamare l’esempio del soggetto che “prima pensa e poi parla” un caso di pensiero a tutti gli effetti, e quello in cui un uomo scandisce le parole che legge un caso di lettura a tutti gli effetti. Parliamo di “un atto di volizione” come di qualcosa di diverso rispetto all’azione che è voluta e nel nostro primo esempio ci sono svariati atti diversi a distinguere chiaramente il caso in questione da un altro in cui invece succede solo che la mano e il peso si sollevano: ci sono le preparazioni del ponderare e del decidere, c’è lo sforzo del sollevare. Dove troviamo però processi analoghi a questi negli altri nostri esempi e in infiniti altri che avremmo potuto fare? | ||
D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: egli pondera “È ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto di volizione. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto del genere? Penso che il prototipo dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a | D’altra parte si è detto che quando un uomo, per esempio, al mattino si alza dal letto, tutto ciò che accade è questo: egli pondera “È ora di alzarsi?”, cerca di decidere e poi tutt’a un tratto ''si ritrova intento ad alzarsi''. Questa descrizione sottolinea l’assenza di un atto di volizione. Primo: dove troviamo il prototipo di una tal cosa, cioè come siamo giunti all’idea di un atto del genere? Penso che il prototipo dell’atto di volizione sia l’esperienza dello sforzo muscolare. – C’è però qualcosa nella descrizione appena fornita che ci porta a contraddirla; diciamo “Non è solo che ‘ci ritroviamo’, ci osserviamo, intenti ad alzarci, come se stessimo guardando qualcun altro: non è come, poniamo, essere testimoni di certe azioni riflesse. Se per esempio sto in piedi di fianco vicino a un muro, il braccio sul lato della parete disteso verso il basso con il dorso della mano che sfiora l’intonaco, e se mantenendo l’arto rigido premo il dorso della mano contro il muro con tutta la forza del deltoide e poi con un passo mi allontano in fretta dalla parete lasciando il braccio molle, il braccio, senza alcuna azione da parte mia, di sua iniziativa comincia a sollevarsi; questo è il genere di caso in cui sarebbe corretto dire ‘''ritrovo'' il mio braccio intento a sollevarsi’”. | ||
Qui di nuovo è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso in cui ritrovo me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa; inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira nel letto, magari dicendomi “Si sta per alzare?”. Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del mio braccio c’è un’unica differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”. | Qui di nuovo è palese che si sono varie differenze notevoli tra i casi in cui osservo il mio braccio che si solleva, come nell’esperimento appena tratteggiato, o in cui guardo un’altra persona alzarsi dal letto e invece il caso in cui ritrovo me stesso intento ad alzarmi dal letto. C’è per esempio in quest’ultimo caso un’assoluta assenza di ciò si potrebbe chiamare sorpresa; inoltre non ''guardo'' i miei movimenti come guarderei quelli di qualcun altro che si rigira nel letto, magari dicendomi “Si sta per alzare?”. Tra l’atto volontario di alzarmi dal letto e il sollevarsi involontario del mio braccio c’è un’unica differenza. Non c’è però una differenza generale tra i cosiddetti atti volontari e quelli involontari, ovvero la presenza o l’assenza di un elemento, “l’atto di volizione”. | ||
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Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, alcune appartenenti alla mia lingua madre, alcune a lingue straniere a me più o meno familiari, alcune a lingue che mi sono completamente sconosciute (oppure – in fondo qui è lo stesso – parole senza senso inventate apposta). Alcune delle parole della mia lingua madre sono poi ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo”, sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime che un bambino impara, e alcune di queste ultime, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici più o meno comuni quali “carburatore”, “dinamo”, “fusibile”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette ad alta voce e dopo ognuna io devo dire “Sì” o “No” a seconda del fatto che la capisca o meno. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso le parole che ho compreso e quando non ho compreso le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “Sì” o “No”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostrerà una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non ci mostrerà nessuna esperienza singola che saremmo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze come queste: sento la parola “albero” e dico “Dì” con il tono di voce e la sensazione di “Ma certo”. Oppure sento “corroborazione” – dico a me stesso “Vediamo un po’”, mi ricordo vagamente di un caso inerente e dico “Sì”. Sento “aggeggio”, mi ricordo dell’uomo che usava sempre questa parola e dico “Sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo – “Sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “Dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di indovinarne il significato dall’etimologia, ma non ci riesco e dico “No”. In un altro caso potrei dire a me stesso “Sembra cinese… no”. Ecc. D’altra parte ci sarà un’ampia classe di casi in cui non sono consapevole che accada altro oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non hanno assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci saranno una classe che potrei chiamare esperienze tipiche del capire e alcune esperienze tipiche del non capire. Ma in contrasto con queste ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrei dire “Non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘Sì’ o ‘No’”. | Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, alcune appartenenti alla mia lingua madre, alcune a lingue straniere a me più o meno familiari, alcune a lingue che mi sono completamente sconosciute (oppure – in fondo qui è lo stesso – parole senza senso inventate apposta). Alcune delle parole della mia lingua madre sono poi ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo”, sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime che un bambino impara, e alcune di queste ultime, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici più o meno comuni quali “carburatore”, “dinamo”, “fusibile”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette ad alta voce e dopo ognuna io devo dire “Sì” o “No” a seconda del fatto che la capisca o meno. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso le parole che ho compreso e quando non ho compreso le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “Sì” o “No”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostrerà una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non ci mostrerà nessuna esperienza singola che saremmo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze come queste: sento la parola “albero” e dico “Dì” con il tono di voce e la sensazione di “Ma certo”. Oppure sento “corroborazione” – dico a me stesso “Vediamo un po’”, mi ricordo vagamente di un caso inerente e dico “Sì”. Sento “aggeggio”, mi ricordo dell’uomo che usava sempre questa parola e dico “Sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo – “Sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “Dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di indovinarne il significato dall’etimologia, ma non ci riesco e dico “No”. In un altro caso potrei dire a me stesso “Sembra cinese… no”. Ecc. D’altra parte ci sarà un’ampia classe di casi in cui non sono consapevole che accada altro oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non hanno assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci saranno una classe che potrei chiamare esperienze tipiche del capire e alcune esperienze tipiche del non capire. Ma in contrasto con queste ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrei dire “Non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘Sì’ o ‘No’”. | ||
Se qualcuno adesso affermasse “Ma di sicuro, a meno che rispondendo | Se qualcuno adesso affermasse “Ma di sicuro, a meno che rispondendo ‘Sì’ tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’ qualcosa è accaduto”, potrei essere portato a riflettere e dire a me stesso “Nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento di familiarità?”. Tuttavia, quando sento usare o uso io stesso tale parola, provo sempre questo sentimento? mi ricordo di averlo provato in passato? mi ricordo anche solo di un insieme di, poniamo, cinque sensazioni alcune delle quali io abbia sperimentato in ogni occasione in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento di familiarità” appena menzionato non è un’esperienza piuttosto caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero quella di filosofare sul “capire”? | ||
Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare il fatto di dire “sì” e il fatto di dire “no” esperienze caratteristiche del fatto di capire o non capire; ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? – Ci troviamo qui in una curiosa difficoltà: da un lato sembra che non abbiamo ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, è presente un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato dire che in un tale caso tutto ciò che succede è che sento o dico la parola. Perché ciò sembra quanto dire che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso è così e in un altro senso non è così. | Certamente nel nostro esperimento potremmo chiamare il fatto di dire “sì” e il fatto di dire “no” esperienze caratteristiche del fatto di capire o non capire; ma se invece sentiamo una parola in una frase che da parte nostra non richiede nemmeno una reazione simile? – Ci troviamo qui in una curiosa difficoltà: da un lato sembra che non abbiamo ragioni per affermare che, in tutti questi casi in cui comprendiamo una parola, è presente un’esperienza particolare – oppure un insieme di esperienze. Dall’altro lato possiamo avere l’impressione che sia semplicemente sbagliato dire che in un tale caso tutto ciò che succede è che sento o dico la parola. Perché ciò sembra quanto dire che in certe circostanze agiamo come automi. E la riposta è che in un certo senso è così e in un altro senso non è così. | ||
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L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “Questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “Questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “Questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “Ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “Questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “Ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”. | L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “Questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “Questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “Questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “Ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “Questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “Ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”. | ||
Potremmo domandare “Hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “Quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “Arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “Ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘Rosso’ arriva in una maniera | Potremmo domandare “Hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “Quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “Arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “Ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘Rosso’ arriva in una maniera particolare...”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare. | ||
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “Mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “Non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “Adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “Certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “Di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere. | “Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “Mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “Non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “Adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “Certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “Di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere. | ||
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Quando abbiamo proposto di dare dei nomi agli aspetti di un disegno abbiamo fatto sembrare che, vedendo un disegno in due modi diversi e dicendo in entrambi i casi qualcosa, abbiamo fatto qualcosa di più che compiere solo quell’azione priva di interesse; mentre ora vediamo che è l’utilizzo del “nome”, e proprio il dettaglio di tale utilizzo, che dà al nominare la sua peculiare rilevanza. | Quando abbiamo proposto di dare dei nomi agli aspetti di un disegno abbiamo fatto sembrare che, vedendo un disegno in due modi diversi e dicendo in entrambi i casi qualcosa, abbiamo fatto qualcosa di più che compiere solo quell’azione priva di interesse; mentre ora vediamo che è l’utilizzo del “nome”, e proprio il dettaglio di tale utilizzo, che dà al nominare la sua peculiare rilevanza. | ||
Non si tratta allora di una domanda senza importanza, ma di una domanda che tocca l’essenza della questione: “‘A’ e ‘B’ servono a ricordarmi tali aspetti? posso eseguire un ordine come | Non si tratta allora di una domanda senza importanza, ma di una domanda che tocca l’essenza della questione: “‘A’ e ‘B’ servono a ricordarmi tali aspetti? posso eseguire un ordine come ‘Vedi questo disegno sotto l’aspetto ‘A’? ci sono, in qualche modo, immagini di questi aspetti correlate ai nomi ‘A’ e ‘B’ (come [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]] e [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]])? ‘A’ e ‘B’ vengono impiegati per comunicare con altre persone? e qual è di preciso il gioco che viene giocato con essi?” | ||
Quando dico “Non vedo meri tratti di penna (un mero scarabocchio) ma un volto (o parola) con questa fisionomia particolare”, non voglio affermare alcuna caratteristica generale di ciò che vedo, bensì affermare che vedo quella fisionomia particolare che in effetti vedo. È ovvio che qui la mia espressione si muove in circolo. Ma ciò accade perché in realtà la fisionomia particolare che ho visto avrebbe dovuto entrare nella mia proposizione. – Quando mi accorgo che “Mentre leggo una frase, per tutto il tempo ha luogo un’esperienza peculiare”, devo in realtà proseguire piuttosto a lungo nella lettura prima di ottenere l’impressione peculiare che ci fa dire così. | Quando dico “Non vedo meri tratti di penna (un mero scarabocchio) ma un volto (o parola) con questa fisionomia particolare”, non voglio affermare alcuna caratteristica generale di ciò che vedo, bensì affermare che vedo quella fisionomia particolare che in effetti vedo. È ovvio che qui la mia espressione si muove in circolo. Ma ciò accade perché in realtà la fisionomia particolare che ho visto avrebbe dovuto entrare nella mia proposizione. – Quando mi accorgo che “Mentre leggo una frase, per tutto il tempo ha luogo un’esperienza peculiare”, devo in realtà proseguire piuttosto a lungo nella lettura prima di ottenere l’impressione peculiare che ci fa dire così. |