6,399
edits
No edit summary |
No edit summary |
||
Line 38: | Line 38: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro. | ||
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone! | (Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”...? Oppure: se è in grado di intendere “Passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “Passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “Passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “Porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?”? Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘Dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?”. Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.) | ||
Line 67: | Line 67: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda: “Che cos’è questo?”; A risponde: “Questo è | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda: “Che cos’è questo?”; A risponde: “Questo è un...” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “Questo è un...”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) è stato spiegato un nome generico e, precisamente, il nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale, di una direzione. | ||
(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, ecc. siano molto più simili tra loro di quello che sono in realtà. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi comuni quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, ecc. La seconda fonte ''b'') è che se vediamo quanto sono fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” ecc. rispetto alle funzioni dei nomi propri, e quanto sono diverse da entrambe queste le funzioni, per esempio, dei nomi dei colori, allora non vediamo perché non dovremmo parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato ed “est” e “Jack” dall’altro). | (Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, ecc. siano molto più simili tra loro di quello che sono in realtà. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi comuni quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, ecc. La seconda fonte ''b'') è che se vediamo quanto sono fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” ecc. rispetto alle funzioni dei nomi propri, e quanto sono diverse da entrambe queste le funzioni, per esempio, dei nomi dei colori, allora non vediamo perché non dovremmo parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato ed “est” e “Jack” dall’altro). | ||
Line 195: | Line 195: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=23}} Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1”, “2”, ecc. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=23}} Come 2) A ordina a B di portargli una certa quantità di pietre da costruzione. I numerali sono i segni “1”, “2”, ecc. ... “9”, ognuno dei quali è scritto su una carta. A ha una pila di queste carte e dà l’ordine a B mostrandogliene una e pronunciando una delle parole “lastra”, “colonna”, ecc. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=24}} Come 23), solo che non c’è la pila di carte numerate. La serie dei numerali 1 | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=24}} Come 23), solo che non c’è la pila di carte numerate. La serie dei numerali 1 ... 9 viene imparata a memoria. Negli ordini vengono pronunciati i numerali e il bambino li impara sentendoli scandire a voce. | ||
Line 363: | Line 363: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “Ha fatto così-e-così” e un’altra espressione corrispondente al nostro “È in grado di fare così-e-così”, e che tuttavia la seconda sia impiegata solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche la prima. Che cosa mi può portare a dire così? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui è impiegata, noi chiameremmo narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “È in grado Tal-dei-tali fare questo?”. Tali circostanze possono essere descritte, per esempio, dicendo che un capo sceglie gli uomini adatti per una certa azione, come attraversare un fiume, scalare una montagna, ecc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo sceglie gli uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione ciò che egli dice, ma solo gli altri elementi della situazione. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, dovrebbe essere tradotta nel nostro “È in grado Tal-dei-tali di attraversare il fiume a nuoto?”. A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente attraversato il fiume a nuoto. Questa risposta non viene data con le stesse parole con cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha attraversato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non viene data invece una risposta affermativa nei casi in cui noi certamente risponderemmo “sono in grado di attraversare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese natatorie più ardue ma non proprio l’attraversamento a nuoto di questo particolare fiume. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “Ha fatto così-e-così” e un’altra espressione corrispondente al nostro “È in grado di fare così-e-così”, e che tuttavia la seconda sia impiegata solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche la prima. Che cosa mi può portare a dire così? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui è impiegata, noi chiameremmo narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “È in grado Tal-dei-tali fare questo?”. Tali circostanze possono essere descritte, per esempio, dicendo che un capo sceglie gli uomini adatti per una certa azione, come attraversare un fiume, scalare una montagna, ecc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo sceglie gli uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione ciò che egli dice, ma solo gli altri elementi della situazione. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, dovrebbe essere tradotta nel nostro “È in grado Tal-dei-tali di attraversare il fiume a nuoto?”. A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente attraversato il fiume a nuoto. Questa risposta non viene data con le stesse parole con cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha attraversato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non viene data invece una risposta affermativa nei casi in cui noi certamente risponderemmo “sono in grado di attraversare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese natatorie più ardue ma non proprio l’attraversamento a nuoto di questo particolare fiume. | ||
In questo linguaggio allora le due espressioni “Ha fatto così-e-così” e “È in grado di fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, qualcosa ti porterà a rispondere in un modo, qualcosa a rispondere nell’altro. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato chiaramente definito. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “Lui è in grado | In questo linguaggio allora le due espressioni “Ha fatto così-e-così” e “È in grado di fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, qualcosa ti porterà a rispondere in un modo, qualcosa a rispondere nell’altro. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato chiaramente definito. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “Lui è in grado di...” se lui ha effettivamente fatto... è il tuo criterio per stabilire l’identità di significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a fare il significato di un’espressione, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego delle parole “essere in grado” – l’espressione della possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere. | ||
Prima di continuare a riflettere sull’uso di “l’espressione della possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima che facessi questo”, ecc. Considera l’esempio seguente: | Prima di continuare a riflettere sull’uso di “l’espressione della possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima che facessi questo”, ecc. Considera l’esempio seguente: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=50}} Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati”. Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Ha fatto parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose”. Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si portino) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre di essi (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come “Aveva una palla, un bastone e un sonaglio”. In una situazione simile l’adulto interrompe l’elencazione e induce il bambino a completarla. In un’altra occasione magari dice solo | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=50}} Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati”. Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Ha fatto parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose”. Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si portino) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre di essi (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come “Aveva una palla, un bastone e un sonaglio”. In una situazione simile l’adulto interrompe l’elencazione e induce il bambino a completarla. In un’altra occasione magari dice solo “Aveva...” e lascia che sia il bambino a compiere l’intera elencazione. Il modo per “indurre il bambino a proseguire” può essere questo: interrompere l’elencazione con una certa espressione facciale e un tono di voce in levare che chiameremmo di aspettativa. Tutto allora dipende dal reagire o meno del bambino a tale “induzione”. C’è però un curioso malinteso in cui è facilissimo cadere, ovvero il fatto di considerare “i mezzi esteriori” di cui il maestro si serve per indurre il bambino a proseguire come ciò che potremmo chiamare una maniera indiretta di farsi capire dal bambino. Guardiamo alla situazione come se il bambino già possedesse un linguaggio in cui pensare e il compito dell’insegnante consistesse nell’indurlo a indovinare un certo significato nel regno dei significati già presente nella mente del bambino, come se nel proprio linguaggio privato il bambino potesse porsi una domanda quale “Vuole che continui, o che ripeta quel che ha appena detto, o qualcos’altro ancora?” (Cfr. 30).) | ||
Line 427: | Line 427: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “Io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “La mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (N.d.C.)</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “Io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “La mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (N.d.C.)</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova. | ||
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro | È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che... ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti. | ||
Line 438: | Line 438: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che sono in grado di continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari, nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 scritta da A, ha provato una sensazione o delle sensazioni come quelle che spesso accompagnano parole quali “Facile!”. Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che sono in grado di continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari, nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 scritta da A, ha provato una sensazione o delle sensazioni come quelle che spesso accompagnano parole quali “Facile!”. Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento. | ||
Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di | Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare...” non è uguale all’asserzione che la formula {{Nowrap|1=a<sub>''n''</sub> = ''n''<sup>2</sup> + ''n'' − 1}} sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti all’occhio della mente, o l’esperienza di scrivere o pronunciare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule scritte in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi siamo propensi a dire che “essere in grado di...” deve significare qualcosa in più del mero atto di pronunciare la formula, – e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è il fatto che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “essere in grado di continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi, in questo caso, ci porta fuori strada. Quando diciamo “Di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché questa da sola non basterebbe a farci dire ‘è in grado...’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B è in grado di continuare...” non equivale a dire “B pronuncia la formula...” ma da ciò non consegue che l’espressione “B è in grado di continuare...” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B pronuncia la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata, al che lui cerca con lo sguardo intorno a sé l’oggetto che la parola “sedia” sedia. (L’esempio sarebbe ancora più efficace se costui cercasse dentro la sedia per trovare il vero significato della parola “sedia”.) È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula ecc., ci serviamo della frase “Costui è in grado di continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però ci induce nella tentazione di dire che la frase “B è in grado di continuare...” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie”. Ma davvero affermando “Ora sono in grado di continuare” B intende qualcosa come “Ora faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, ecc., ecc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato pronto a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B è in grado di continuare...” è utilizzata correttamente quando a portarci a usarla sono occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B è in grado di continuare...” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva che costituisce lo sfondo del nostro gioco. | ||
D’altro canto ''in alcune circostanze'' dovremmo essere pronti a sostituire “B è in grado di continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha pronunciato la formula”. Come nel chiedere al medico “Il paziente è in grado di camminare?”, dobbiamo a volte essere pronti a sostituire la frase con “Gli è guarita la gamba?”. – “È in grado di parlare” in certe circostanze significa “La sua gola sta bene?”, in altre invece (per esempio se si tratta di un bambino piccolo) significa “Ha imparato a parlare?”. – Alla domanda “Il paziente è in grado di camminare?” il dottore può rispondere “La gamba è a posto”. – Ci serviamo dell’espressione “Per quanto riguarda le condizioni della gamba, è in grado di camminare”, soprattutto quando vogliamo distinguere, in merito al fatto di camminare, tale condizione da un’altra dello stesso soggetto, per esempio quella della sua spina dorsale. Qui dobbiamo fare attenzione a non credere che nella natura del caso ci sia ciò che potremmo chiamare l’insieme completo di condizioni, per esempio, del fatto di camminare; in modo che se tutte queste condizioni fossero soddisfatte, il paziente, per così dire, non potrebbe fare a meno di camminare. | D’altro canto ''in alcune circostanze'' dovremmo essere pronti a sostituire “B è in grado di continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha pronunciato la formula”. Come nel chiedere al medico “Il paziente è in grado di camminare?”, dobbiamo a volte essere pronti a sostituire la frase con “Gli è guarita la gamba?”. – “È in grado di parlare” in certe circostanze significa “La sua gola sta bene?”, in altre invece (per esempio se si tratta di un bambino piccolo) significa “Ha imparato a parlare?”. – Alla domanda “Il paziente è in grado di camminare?” il dottore può rispondere “La gamba è a posto”. – Ci serviamo dell’espressione “Per quanto riguarda le condizioni della gamba, è in grado di camminare”, soprattutto quando vogliamo distinguere, in merito al fatto di camminare, tale condizione da un’altra dello stesso soggetto, per esempio quella della sua spina dorsale. Qui dobbiamo fare attenzione a non credere che nella natura del caso ci sia ciò che potremmo chiamare l’insieme completo di condizioni, per esempio, del fatto di camminare; in modo che se tutte queste condizioni fossero soddisfatte, il paziente, per così dire, non potrebbe fare a meno di camminare. | ||
Line 444: | Line 444: | ||
Possiamo dire: l’espressione “B è in grado di continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo ''a'') tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure ''b'') tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure ''c'') (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova ancora in uno stato di shock da combattimento; oppure ''d'') tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia. | Possiamo dire: l’espressione “B è in grado di continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo ''a'') tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure ''b'') tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure ''c'') (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova ancora in uno stato di shock da combattimento; oppure ''d'') tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia. | ||
Alla domanda se “È in grado di | Alla domanda se “È in grado di continuare...” ha lo stesso significato di “Conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “Le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi come invece per esempio le espressioni ‘Sto bene’ e ‘Sono in buona salute’”; oppure possiamo dire “''In alcune circostanze'' ‘È in grado di continuare...’ significa che conosce la formula”. Immagina il caso di un linguaggio (per certi versi analogo a 49)) in cui due forme di espressione, due frasi diverse, sono impiegate per affermare che le gambe di una persona funzionano bene. Una delle due forme di espressione è usata solo nelle circostanze in cui si sta preparando una spedizione, un viaggio a piedi o qualcosa di simile; dell’altra ci si serve in casi in cui preparativi del genere non sono contemplati. Qui non sapremo se dire che le due frasi hanno lo stesso significato o significati diversi. In ogni caso è solo osservando nel dettaglio l’utilizzo di suddette espressioni che riusciamo a scorgere lo stato reale delle cose. – Ed è evidente che se nel caso presente decideremo di dire che le due espressioni hanno significati diversi, di sicuro non saremo in grado di dire che la differenza è che il fatto che rende vera la seconda frase è diverso da quello che rende vera la prima. | ||
Siamo giustificati a dire che la frase “È in grado di | Siamo giustificati a dire che la frase “È in grado di continuare...” ha un significato diverso da quello di “Sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui la prima frase si riferisce” su un piano per così dire superiore rispetto a quello dove hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, ecc.) | ||
Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto “Sono in grado di continuare la serie” ma che una volta invitato a proseguire la sequenza se ne sia mostrato incapace, – diremo che ciò ha dimostrato che la sua asserzione, secondo la quale era in grado di continuare, era sbagliata o sosterremo che, mentre affermava di esserne capace, era davvero in grado di continuare? B stesso direbbe “Mi rendo conto di essermi sbagliato”, oppure “Ciò che ho detto era vero, in quel momento ne ero in grado, ma adesso non più”? – Ci sono casi in cui sarebbe giusto che dicesse la prima frase e casi in cui sarebbe giusto che dicesse la seconda. Immagina ''a'') quando ha detto di essere in grado di continuare, vedeva la formula nella propria mente, ma una volta che gli è stato chiesto di proseguire ha scoperto di essersela scordata; – oppure ''b'') quando ha detto di essere in grado di continuare aveva pronunciato tra sé e sé i cinque termini successivi della serie, ma adesso si accorge che non gli vengono più in mente; – oppure ''c'') prima ha continuato la serie calcolando altri cinque numeri, adesso ricorda solo questi cinque numeri ma non come ha fatto a calcolarli; – oppure ''d'') dice “Prima avevo l’impressione di essere in grado di continuare, adesso no”; – oppure ''e'') “Quando ho detto di essere in grado sollevare il peso, il braccio non mi faceva male, adesso invece sì”; ecc. | Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto “Sono in grado di continuare la serie” ma che una volta invitato a proseguire la sequenza se ne sia mostrato incapace, – diremo che ciò ha dimostrato che la sua asserzione, secondo la quale era in grado di continuare, era sbagliata o sosterremo che, mentre affermava di esserne capace, era davvero in grado di continuare? B stesso direbbe “Mi rendo conto di essermi sbagliato”, oppure “Ciò che ho detto era vero, in quel momento ne ero in grado, ma adesso non più”? – Ci sono casi in cui sarebbe giusto che dicesse la prima frase e casi in cui sarebbe giusto che dicesse la seconda. Immagina ''a'') quando ha detto di essere in grado di continuare, vedeva la formula nella propria mente, ma una volta che gli è stato chiesto di proseguire ha scoperto di essersela scordata; – oppure ''b'') quando ha detto di essere in grado di continuare aveva pronunciato tra sé e sé i cinque termini successivi della serie, ma adesso si accorge che non gli vengono più in mente; – oppure ''c'') prima ha continuato la serie calcolando altri cinque numeri, adesso ricorda solo questi cinque numeri ma non come ha fatto a calcolarli; – oppure ''d'') dice “Prima avevo l’impressione di essere in grado di continuare, adesso no”; – oppure ''e'') “Quando ho detto di essere in grado sollevare il peso, il braccio non mi faceva male, adesso invece sì”; ecc. | ||
Line 458: | Line 458: | ||
(Considera anche la classe di casi in cui diciamo “Sarei in grado di fare questo-e-quello ma non lo farò”: “Se provassi, sarei in grado”, per esempio di sollevare cinquanta chili; “Se volessi, sarei in grado”, per esempio di recitare l’alfabeto.) | (Considera anche la classe di casi in cui diciamo “Sarei in grado di fare questo-e-quello ma non lo farò”: “Se provassi, sarei in grado”, per esempio di sollevare cinquanta chili; “Se volessi, sarei in grado”, per esempio di recitare l’alfabeto.) | ||
Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che sono in grado di fare una certa cosa è quello in cui, mentre dico che sono in grado di farla, la faccio effettivamente, e che altrimenti sarebbe meglio affermare: “Per quanto | Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che sono in grado di fare una certa cosa è quello in cui, mentre dico che sono in grado di farla, la faccio effettivamente, e che altrimenti sarebbe meglio affermare: “Per quanto riguarda..., sono in grado di farlo”. Si potrebbe essere propensi a credere che solo nel caso di cui sopra una persona ha dato davvero prova di essere in grado di fare una certa cosa. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “Sono in | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “Sono in grado di...” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra questo gioco e un gioco in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “Sono in grado di fare questo-e-questo” non c’è una differenza ''metafisica''. Un gioco del tipo di 65), comunque, ci mostra il vero impiego dell’espressione “Se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali è priva di significato, tranne che in casi molto particolari. | ||
Line 468: | Line 468: | ||
Vediamo che una vasta rete di somiglianze familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che quel qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. – – | Vediamo che una vasta rete di somiglianze familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che quel qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. – – | ||
Ci sono, d’altro canto, ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. Detto approssimativamente, ciò è quanto dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente tentati di adottare, oppure, per metterla in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora per cui qualcosa è in un peculiare stato per dire che qualcosa può comportarsi in un particolare modo. E questo modo di rappresentazione, o questa metafora, si incarna in espressioni quali “È capace | Ci sono, d’altro canto, ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. Detto approssimativamente, ciò è quanto dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente tentati di adottare, oppure, per metterla in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora per cui qualcosa è in un peculiare stato per dire che qualcosa può comportarsi in un particolare modo. E questo modo di rappresentazione, o questa metafora, si incarna in espressioni quali “È capace di...”, “È in grado di moltiplicare numeri a molte cifre a mente”, “Sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo è usato ''al tempo presente'', suggerendo che si tratti di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla. | ||
La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso. | La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso. | ||
Line 485: | Line 485: | ||
{{p center|{{Nowrap| | {{p center|{{Nowrap|...................... . . . . . . . . . .}}}} | ||
Line 705: | Line 705: | ||
Dire che usiamo la parola “blu” per intendere “ciò che hanno in comune tutte queste sfumature di colore” in sé non dice altro se non che usiamo la parola “blu” in tutti questi casi. | Dire che usiamo la parola “blu” per intendere “ciò che hanno in comune tutte queste sfumature di colore” in sé non dice altro se non che usiamo la parola “blu” in tutti questi casi. | ||
L’espressione “Lui vede cos’hanno in comune tutte queste sfumature” può riferirsi a moltissimi fenomeni diversi, cioè come criteri per stabilire che “lui vede | L’espressione “Lui vede cos’hanno in comune tutte queste sfumature” può riferirsi a moltissimi fenomeni diversi, cioè come criteri per stabilire che “lui vede che...” vengono impiegati fenomeni di vario genere. Oppure tutto quel che accade può essere che, quando gli si chiede di portare un’altra sfumatura di blu, il soggetto esegue l’ordine in maniera soddisfacente. Oppure, quando gli mostriamo diversi campioni di blu, una macchia di blu puro può apparirgli nell’occhio della mente: oppure può voltare istintivamente la testa verso qualche altra sfumatura di blu che non gli abbiamo mostrato, per usarla come campione, ecc. ecc. | ||
Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono casi di questo tipo in cui non avremmo dubbi sulla risposta. | Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono casi di questo tipo in cui non avremmo dubbi sulla risposta. | ||
Line 717: | Line 717: | ||
Di nuovo potremmo essere portati a dire “Deve aver visto qualcosa di comune alla relazione fra i due colori e alla relazione fra le due vocali”. Se però costui non è in grado di specificare cos’è tale elemento comune, a noi rimane solo il fatto che in entrambi i casi è stato indotto a impiegare le espressioni “più scura”, “più chiara”. | Di nuovo potremmo essere portati a dire “Deve aver visto qualcosa di comune alla relazione fra i due colori e alla relazione fra le due vocali”. Se però costui non è in grado di specificare cos’è tale elemento comune, a noi rimane solo il fatto che in entrambi i casi è stato indotto a impiegare le espressioni “più scura”, “più chiara”. | ||
In “Deve aver visto | In “Deve aver visto qualcosa...” nota la presenza del termine “deve”. Quando ti sei espresso così non intendevi affermare che sulla base di esperienze pregresse concludi che probabilmente lui ha davvero visto qualcosa, ed è per questo che tale frase non aggiunge nulla a ciò che sappiamo e in effetti non fa che suggerire altre parole per descriverlo. | ||
Se qualcuno dicesse: “Vedo una certa somiglianza, solo che non riesco a descriverla”, io risponderei “Anche questo caratterizza la tua esperienza”. | Se qualcuno dicesse: “Vedo una certa somiglianza, solo che non riesco a descriverla”, io risponderei “Anche questo caratterizza la tua esperienza”. | ||
Immagina di guardare due visi e dire “Sono simili, ma non so che cos’hanno di simile”. Immagina di aggiungere dopo qualche minuto: “Adesso lo so; è la forma degli occhi”; io allora ti risponderei “Ora la tua esperienza della somiglianza dei due volti è diversa da quando vedevi sì la somiglianza ma non sapevi in che cosa consistesse”. Tornando alla domanda “Che cosa ti ha portato a usare la parola | Immagina di guardare due visi e dire “Sono simili, ma non so che cos’hanno di simile”. Immagina di aggiungere dopo qualche minuto: “Adesso lo so; è la forma degli occhi”; io allora ti risponderei “Ora la tua esperienza della somiglianza dei due volti è diversa da quando vedevi sì la somiglianza ma non sapevi in che cosa consistesse”. Tornando alla domanda “Che cosa ti ha portato a usare la parola ‘scuro’...?”, la riposta potrebbe essere “Nulla mi ha portato a usare la parola ‘scuro’ – se mi stai chiedendo la ''ragione'' per cui l’ho usata. L’ho semplicemente usata, e oltretutto l’ho usata con la stessa intonazione e forse perfino con la stessa mimica facciale e lo stesso gesto che in certi casi sarei propenso a usare applicando la parola in questione ai colori”. – È più facile rendersene conto quando parliamo di un dolore ''profondo'', di un suono ''profondo'', di un pozzo ''profondo''. Certe persone sanno distinguere tra giorni grassi e giorni magri della settimana. Quando concepiscono un giorno come grasso, la loro esperienza consiste nel servirsi di tale parola accompagnandola magari con un gesto tale da esprimere grassezza e un senso generico di comodità. | ||
Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e poi esprimono tale concezione con parole e gesti. | Ma tu potresti essere tentato di dire: tale utilizzo della parola e del gesto non è però la loro esperienza primaria. Innanzitutto devono concepire il giorno in quanto grasso e poi esprimono tale concezione con parole e gesti. | ||
Line 729: | Line 729: | ||
Invece da questo esempio e da altri puoi imparare che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui, se parliamo davvero di un’esperienza del concepire, dobbiamo applicare tale parola all’esperienza dell’uso di certe parole, certi gesti, ecc. | Invece da questo esempio e da altri puoi imparare che ci sono casi in cui si può chiamare una particolare esperienza “notare, vedere, concepire che le cose stanno così e così” prima di esprimerla a parole o a gesti e altri casi in cui, se parliamo davvero di un’esperienza del concepire, dobbiamo applicare tale parola all’esperienza dell’uso di certe parole, certi gesti, ecc. | ||
Quando il nostro soggetto ha detto “la ''u'' non è davvero più scura della ''e'' | Quando il nostro soggetto ha detto “la ''u'' non è davvero più scura della ''e''...”, era essenziale che intendesse dire che l’espressione “più scura” veniva impiegata ''in un senso diverso'' quando, da un lato, si parlava di un colore in quanto più scuro di un altro e quando, dall’altro lato, si parlava di una vocale in quanto più scura di un’altra. | ||
Considera questo esempio: immagina che abbiamo insegnato a un uomo a usare le parole “verde”, “rosso”, “blu” indicandogli macchie dei suddetti colori. Gli abbiamo insegnato a riportare oggetti di un certo colore in risposta all’ordine “Portami qualcosa di rosso!”, a separare gli oggetti dei vari colori da un mucchio, ecc. Immagina che gli mostriamo un mucchio di foglie, alcune di un marrone lievemente rossiccio, altre di un giallo lievemente verdastro, e che gli ordiniamo “Dividi in due mucchi le foglie rosse e quelle verdi”. Molto probabilmente lui eseguirebbe separando le foglie giallo verdastre da quelle marrone rossicce. Diremo qui di aver usato le parole “rosso” e “verde” nello stesso senso dei casi precedenti oppure in un senso simile ma diverso? Che ragioni si potrebbero addurre in favore del secondo punto di vista? Si potrebbe osservare che, se ci avessero chiesto di dipingere una macchia rossa, di certo non l’avremmo dipinta di un marrone lievemente rossiccio e perciò si potrebbe dire che “rosso” nei due casi ha significati diversi. Perché però non potrei dire che aveva un solo significato e che però, ovviamente, è stato usato in base alle circostanze? | Considera questo esempio: immagina che abbiamo insegnato a un uomo a usare le parole “verde”, “rosso”, “blu” indicandogli macchie dei suddetti colori. Gli abbiamo insegnato a riportare oggetti di un certo colore in risposta all’ordine “Portami qualcosa di rosso!”, a separare gli oggetti dei vari colori da un mucchio, ecc. Immagina che gli mostriamo un mucchio di foglie, alcune di un marrone lievemente rossiccio, altre di un giallo lievemente verdastro, e che gli ordiniamo “Dividi in due mucchi le foglie rosse e quelle verdi”. Molto probabilmente lui eseguirebbe separando le foglie giallo verdastre da quelle marrone rossicce. Diremo qui di aver usato le parole “rosso” e “verde” nello stesso senso dei casi precedenti oppure in un senso simile ma diverso? Che ragioni si potrebbero addurre in favore del secondo punto di vista? Si potrebbe osservare che, se ci avessero chiesto di dipingere una macchia rossa, di certo non l’avremmo dipinta di un marrone lievemente rossiccio e perciò si potrebbe dire che “rosso” nei due casi ha significati diversi. Perché però non potrei dire che aveva un solo significato e che però, ovviamente, è stato usato in base alle circostanze? | ||
Line 755: | Line 755: | ||
Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B, e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo motivo di dire che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se diciamo di sì, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure non vogliamo asserire niente del genere. | Se avessimo fatto quest’esperimento con due persone A e B, e A avesse impiegato l’espressione “la stessa nota” solo per l’ottava, B invece per la dominante e l’ottava, avremmo motivo di dire che, quando suoniamo loro la scala diatonica, A e B sentono cose diverse? – Se diciamo di sì, chiariamo se vogliamo asserire che, oltre a quella che abbiamo notato, debba esserci qualche altra differenza tra i due casi, oppure non vogliamo asserire niente del genere. | ||
Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero di ''n'' più grande del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “Aggiungi ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini –, {{Nowrap|– –}}, {{Nowrap|– – –}}, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel dare spiegazioni generali e fare esempi. – Questi esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “Aggiungi 1”. Dopo un po’ notiamo che, passato 100, lui ha fatto quello che noi chiameremmo aggiungere 2; passato 300, quello che chiameremmo aggiungere 3. Noi lo sgridiamo: “Non ti ho detto di aggiungere sempre 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!”. – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “Be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capisci che dirgli di nuovo “Ma non | Tutte le domande considerate qui si legano al problema seguente: supponi di aver insegnato a qualcuno a scrivere serie di numeri secondo regole della forma di: scrivere sempre un numero di ''n'' più grande del precedente. (Tale regola si abbrevia in: “Aggiungi ''n''”). In questo gioco i numerali dovranno essere gruppi di trattini –, {{Nowrap|– –}}, {{Nowrap|– – –}}, ecc. Ciò che chiamo insegnare questo gioco è consistito ovviamente nel dare spiegazioni generali e fare esempi. – Questi esempi sono presi dall’intervallo, diciamo, tra 1 e 85. Diamo ora all’allievo l’ordine “Aggiungi 1”. Dopo un po’ notiamo che, passato 100, lui ha fatto quello che noi chiameremmo aggiungere 2; passato 300, quello che chiameremmo aggiungere 3. Noi lo sgridiamo: “Non ti ho detto di aggiungere sempre 1? Guarda quello che hai fatto prima di arrivare a 100!”. – Immagina che l’allievo dica, indicando i numeri 102, 104, ecc. “Be’, qui non ho fatto lo stesso? Pensavo che fosse questo che tu che volevi che io facessi”. – Capisci che dirgli di nuovo “Ma non vedi...?”, indicando le regole e gli esempi che gli avevamo dato, non ci farebbe fare alcun passo avanti. In tal caso potremmo dire che costui per natura comprende (interpreta) la regola (e gli esempi) che gli abbiamo dato come noi comprenderemmo una regola (e degli esempi) che ci dicono: “Aggiungi 1 fino a 100, poi 2 fino a 200, ecc.”. | ||
(Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto di indicare, muovendosi nella direzione che va dalla spalla alla mano, bensì in quella contraria. E comprendere qui significa lo stesso che reagire.) | (Questo caso sarebbe simile a quello di un soggetto che non è istintivamente portato a eseguire l’ordine, datogli con un gesto di indicare, muovendosi nella direzione che va dalla spalla alla mano, bensì in quella contraria. E comprendere qui significa lo stesso che reagire.) | ||
“Suppongo che ciò che dici implichi questo, ovvero che, per seguire correttamente la regola ‘Aggiungi 1’, a ogni passo c’è bisogno di una nuova comprensione o intuizione”. – Ma che cosa significa seguire la regola ''correttamente''? Come e quando si decide qual è il passo giusto da compiere in un momento specifico? – “Il passo giusto da compiere in ogni momento è quello in accordo con il ''significato'', l’intenzione della regola.” – Immagino che l’idea sia questa: nel dargli la regola “Aggiungi 1”, e nell’intenderla, tu intendevi che lui scrivesse 101 dopo 100, 199 dopo 198, 1041 dopo 1040 e avanti così. Nel dargli la regola però come hai compiuto tutti questi atti di intendere (ne immagino una quantità infinita)? Oppure si tratta di una rappresentazione sbagliata? E diresti che c’è stato un solo atto di intendere, dal quale comunque sono conseguiti tutti questi altri, o ciascuno di essi? Ma il punto non è solo “che cosa consegue dalla regola generale?”? Tu potresti dire “Di certo nel dargli la regola sapevo di intendere che dopo 100 scrivesse 101”. Qui però sei sviato dalla grammatica del termine “sapere”. Sapere ciò era un qualche atto mentale con il quale tu in quel momento hai compiuto la transizione da 100 a 101, per esempio un atto come il dire a te stesso: “Voglio che scriva 101 dopo 100”? In questo caso chiediti quanti atti simili hai compiuto nel fornirgli la regola. Oppure intendi l’essere a conoscenza di un qualche tipo di | “Suppongo che ciò che dici implichi questo, ovvero che, per seguire correttamente la regola ‘Aggiungi 1’, a ogni passo c’è bisogno di una nuova comprensione o intuizione”. – Ma che cosa significa seguire la regola ''correttamente''? Come e quando si decide qual è il passo giusto da compiere in un momento specifico? – “Il passo giusto da compiere in ogni momento è quello in accordo con il ''significato'', l’intenzione della regola.” – Immagino che l’idea sia questa: nel dargli la regola “Aggiungi 1”, e nell’intenderla, tu intendevi che lui scrivesse 101 dopo 100, 199 dopo 198, 1041 dopo 1040 e avanti così. Nel dargli la regola però come hai compiuto tutti questi atti di intendere (ne immagino una quantità infinita)? Oppure si tratta di una rappresentazione sbagliata? E diresti che c’è stato un solo atto di intendere, dal quale comunque sono conseguiti tutti questi altri, o ciascuno di essi? Ma il punto non è solo “che cosa consegue dalla regola generale?”? Tu potresti dire “Di certo nel dargli la regola sapevo di intendere che dopo 100 scrivesse 101”. Qui però sei sviato dalla grammatica del termine “sapere”. Sapere ciò era un qualche atto mentale con il quale tu in quel momento hai compiuto la transizione da 100 a 101, per esempio un atto come il dire a te stesso: “Voglio che scriva 101 dopo 100”? In questo caso chiediti quanti atti simili hai compiuto nel fornirgli la regola. Oppure intendi l’essere a conoscenza di un qualche tipo di disposizione, – in tal caso solo l’esperienza può insegnarci a che cosa fosse atta tale disposizione. – “Certamente però se tu mi avessi chiesto quale numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1568, io ti avrei risposto 1569.” – Non ne dubito, ma come fai a esserne sicuro? La tua idea è che in qualche modo nell’atto misterioso dell’''intendere'' la regola tu abbia compiuto le transizioni senza compierle davvero. Hai venduto la pelle di tutti gli orsi prima di averli uccisi. Questa strana idea è legata a un utilizzo peculiare della parola “intendere”. Immagina che il soggetto sia arrivato a 100 e che poi abbia scritto 102. In tal caso diremmo “''Intendevo'' che tu scrivessi 101”. Il tempo passato nella parola “intendere” suggerisce che, quando è stata data la regola, abbia avuto luogo un particolare atto di intendere, anche se in concreto tale espressione non allude ad alcun atto del genere. Si potrebbe spiegare il verbo al passato trasponendo la frase nella forma “Se tu prima mi avessi chiesto che cosa volevi che tu facessi a questo punto, io ti avrei detto...”. Che tu però in tal caso gli avresti detto così resta comunque un’ipotesi. | ||
Per capire meglio, pensa all’esempio seguente: qualcuno dice “Napoleone è stato incoronato nel 1804”. Io gli chiedo “Intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?”. Costui risponde “sì, intendevo lui”. – Ciò significa che quando “Intendeva lui” il soggetto ha in qualche modo pensato al fatto che Napoleone ha vinto la battaglia di Austerlitz? ‒ ‒ | Per capire meglio, pensa all’esempio seguente: qualcuno dice “Napoleone è stato incoronato nel 1804”. Io gli chiedo “Intendevi colui che ha vinto la battaglia di Austerlitz?”. Costui risponde “sì, intendevo lui”. – Ciò significa che quando “Intendeva lui” il soggetto ha in qualche modo pensato al fatto che Napoleone ha vinto la battaglia di Austerlitz? ‒ ‒ | ||
Line 805: | Line 805: | ||
Immagina che io abbia compiuto una mossa a scacchi e mi si chieda “Intendevi dargli scacco matto?”. Rispondo “Sì” e allora mi domandano “Come facevi a saperlo, se tutto ciò che ''sapevi'' era quel che accadeva dentro di te mentre facevi la mossa?”. Io potrei rispondere “In ''queste'' circostanze ciò equivaleva all’intenzione di dargli scacco matto”. | Immagina che io abbia compiuto una mossa a scacchi e mi si chieda “Intendevi dargli scacco matto?”. Rispondo “Sì” e allora mi domandano “Come facevi a saperlo, se tutto ciò che ''sapevi'' era quel che accadeva dentro di te mentre facevi la mossa?”. Io potrei rispondere “In ''queste'' circostanze ciò equivaleva all’intenzione di dargli scacco matto”. | ||
Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta | Ciò che è valido per “intendere” è valido per “pensare”. – Spessissimo ci riesce impossibile pensare senza parlare da soli quasi ad alta voce... e nessuno a cui si chieda di descrivere ciò che è accaduto in questo caso direbbe mai che qualcosa – il pensare – ha accompagnato il parlare, se a indurlo a farlo non fossero la coppia di verbi “parlare” : : “pensare” e l’uso parallelo dei suddetti in molte nostre espressioni comuni. Considera gli esempi: “Prima di parlare, pensa!”, “Parla senza pensare”, “Ciò che ho detto non esprimeva davvero il mio pensiero”, “Dice una cosa e pensa il contrario”, “Non intendevo una sola parola di quello che ho detto”, “La lingua francese usa le parole nell’ordine in cui le pensiamo”. | ||
Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, ecc., tutti elementi che chiameremmo mezzi dell’espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mentre mezzi dell’espressività come il gioco della mimica facciale o i gesti, di cui si può dire che accompagnano il discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero. | Se in un caso simile si può dire che ci sia altro ad accompagnare l’atto di parlare, sarebbe qualcosa di analogo alla modulazione della voce, ai cambi di timbro, all’accentazione, ecc., tutti elementi che chiameremmo mezzi dell’espressività. Alcuni di questi, come il tono di voce e l’accento, nessuno per ovvie ragioni li chiamerebbe accompagnamenti del discorso; mentre mezzi dell’espressività come il gioco della mimica facciale o i gesti, di cui si può dire che accompagnano il discorso, nessuno si sognerebbe di chiamarli pensiero. | ||
Line 841: | Line 841: | ||
Il fatto di urlare di dolore contro la propria volontà potrebbe essere paragonato al fatto di sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno ci costringesse a sollevare le braccia premendoci all’improvviso una pistola contro le costole e ordinando “Mani in alto!”. | Il fatto di urlare di dolore contro la propria volontà potrebbe essere paragonato al fatto di sollevare il braccio contro la propria volontà quando qualcuno con cui stiamo lottando ci costringe ad alzarlo. È però importante notare che la volontà – o dovremmo dire il “desiderio” – di non urlare è soverchiato in modo diverso rispetto a come la nostra resistenza è soverchiata dalla forza dell’avversario. Quando urliamo contro la nostra volontà, siamo per così dire colti alla sprovvista; come se qualcuno ci costringesse a sollevare le braccia premendoci all’improvviso una pistola contro le costole e ordinando “Mani in alto!”. | ||
Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, alcune appartenenti alla mia lingua madre, alcune a lingue straniere a me più o meno familiari, alcune a lingue che mi sono completamente sconosciute (oppure – in fondo qui è lo stesso – parole senza senso inventate apposta). Alcune delle parole della mia lingua madre sono poi ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo”, sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime che un bambino impara, e alcune di queste ultime, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici più o meno comuni quali “carburatore”, “dinamo”, “fusibile”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette ad alta voce e dopo ognuna io devo dire “Sì” o “No” a seconda del fatto che la capisca o meno. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso le parole che ho compreso e quando non ho compreso le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “Sì” o “No”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostrerà una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non ci mostrerà nessuna esperienza singola che saremmo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze come queste: sento la parola “albero” e dico “Dì” con il tono di voce e la sensazione di “Ma certo”. Oppure sento “corroborazione” – dico a me stesso “Vediamo un po’”, mi ricordo vagamente di un caso inerente e dico “Sì”. Sento “aggeggio”, mi ricordo dell’uomo che usava sempre questa parola e dico “Sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo – “Sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “Dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di indovinarne il significato dall’etimologia, ma non ci riesco e dico “No”. In un altro caso potrei dire a me stesso “Sembra | Considera adesso l’esempio seguente, che è di grande aiuto in tutte queste considerazioni: per vedere cosa succede quando una persona capisce una parola, giochiamo questo gioco: abbiamo un elenco di parole, alcune appartenenti alla mia lingua madre, alcune a lingue straniere a me più o meno familiari, alcune a lingue che mi sono completamente sconosciute (oppure – in fondo qui è lo stesso – parole senza senso inventate apposta). Alcune delle parole della mia lingua madre sono poi ordinarie, quotidiane; alcune di queste, come “casa”, “tavolo”, “uomo”, sono ciò che chiameremmo parole primitive, essendo tra le prime che un bambino impara, e alcune di queste ultime, come “mamma”, “papà”, appartengono al linguaggio dei neonati. Ci sono anche termini tecnici più o meno comuni quali “carburatore”, “dinamo”, “fusibile”; ecc. ecc. Tutte queste parole mi vengono lette ad alta voce e dopo ognuna io devo dire “Sì” o “No” a seconda del fatto che la capisca o meno. Cerco poi di ricordare cosa è accaduto alla mia mente quando ho compreso le parole che ho compreso e quando non ho compreso le altre. Qui di nuovo sarà fruttuoso considerare il particolare tono di voce e l’espressione facciale con cui dico “Sì” o “No”, insieme ai cosiddetti eventi mentali. – Potrebbe sorprenderci scoprire che, anche se tale esperimento ci mostrerà una moltitudine di diverse esperienze caratteristiche, non ci mostrerà nessuna esperienza singola che saremmo propensi a chiamare l’esperienza del capire. Ci saranno esperienze come queste: sento la parola “albero” e dico “Dì” con il tono di voce e la sensazione di “Ma certo”. Oppure sento “corroborazione” – dico a me stesso “Vediamo un po’”, mi ricordo vagamente di un caso inerente e dico “Sì”. Sento “aggeggio”, mi ricordo dell’uomo che usava sempre questa parola e dico “Sì”. Sento “mamma”, che mi colpisce per il suo buffo infantilismo – “Sì”. Molto spesso nel sentire una parola straniera, prima di rispondere, la tradurrò mentalmente in italiano. Sento “spintariscopio”, mi dico “Dev’essere un qualche strumento scientifico”, magari cerco di indovinarne il significato dall’etimologia, ma non ci riesco e dico “No”. In un altro caso potrei dire a me stesso “Sembra cinese... no”. Ecc. D’altra parte ci sarà un’ampia classe di casi in cui non sono consapevole che accada altro oltre al fatto di sentire la parola e di pronunciare la risposta. E ci saranno anche casi in cui mi sovvengono esperienze (sensazioni, pensieri) che, direi, non hanno assolutamente nulla a che fare con il termine in questione. Quindi tra le esperienze che posso descrivere ci saranno una classe che potrei chiamare esperienze tipiche del capire e alcune esperienze tipiche del non capire. Ma in contrasto con queste ci sarà un’altra ampia classe di casi in cui dovrei dire “Non so di nessuna esperienza specifica, ho solo detto ‘Sì’ o ‘No’”. | ||
Se qualcuno adesso affermasse “Ma di sicuro, a meno che rispondendo ‘Sì’ tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’ qualcosa è accaduto”, potrei essere portato a riflettere e dire a me stesso “Nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento di familiarità?”. Tuttavia, quando sento usare o uso io stesso tale parola, provo sempre questo sentimento? mi ricordo di averlo provato in passato? mi ricordo anche solo di un insieme di, poniamo, cinque sensazioni alcune delle quali io abbia sperimentato in ogni occasione in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento di familiarità” appena menzionato non è un’esperienza piuttosto caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero quella di filosofare sul “capire”? | Se qualcuno adesso affermasse “Ma di sicuro, a meno che rispondendo ‘Sì’ tu non fossi totalmente distratto, quando hai capito la parola ‘albero’ qualcosa è accaduto”, potrei essere portato a riflettere e dire a me stesso “Nel sentire la parola ‘albero’, non ho provato una specie di sentimento di familiarità?”. Tuttavia, quando sento usare o uso io stesso tale parola, provo sempre questo sentimento? mi ricordo di averlo provato in passato? mi ricordo anche solo di un insieme di, poniamo, cinque sensazioni alcune delle quali io abbia sperimentato in ogni occasione in cui avrei potuto dire di aver compreso la parola “albero”? Inoltre tale “sentimento di familiarità” appena menzionato non è un’esperienza piuttosto caratteristica della situazione particolare in cui mi trovo in questo momento, ovvero quella di filosofare sul “capire”? | ||
Line 855: | Line 855: | ||
I problemi di cui discutiamo da )<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando abbiamo riconosciuto il colore come rosso la parola “rosso” ci è arrivata in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza. | I problemi di cui discutiamo da )<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> erano tutti connessi all’uso della parola “particolare”. Siamo stati portati a dire che vedendo oggetti familiari proviamo un sentimento particolare, che quando abbiamo riconosciuto il colore come rosso la parola “rosso” ci è arrivata in maniera particolare, che quando abbiamo agito volontariamente abbiamo avuto una particolare esperienza. | ||
L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “Questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “Questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “Questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “Ecco di cosa sa questo sapone: | L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “Questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “Questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “Questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “Ecco di cosa sa questo sapone: ...”. Se invece dico “Questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “Ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”. | ||
Potremmo domandare “Hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “Quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “Arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “Ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘Rosso’ arriva in una maniera particolare...”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare. | Potremmo domandare “Hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?”. – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “Quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “Arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “Ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘Rosso’ arriva in una maniera particolare...”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare. | ||
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “Mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “Non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “Adesso so di cosa si tratta; | “Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “Mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “Non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “Adesso so di cosa si tratta; è...” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “Certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare..., ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “Di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere. | ||
Ciò che è ''particolare'' nel modo in cui “rosso” ti arriva è che ti arriva mentre stai filosofando su questo argomento, proprio come ciò che era particolare nella posizione del tuo corpo quando ti sei concentrato su di essa era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun altro modo. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se questa enfatizzazione in realtà fosse un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “Ho notato il modo in cui A entra nella stanza”; se mi si chiede “Che modo è?”, posso rispondere “Infila sempre la testa nella porta prima di entrare”. Qui mi riferisco a un elemento definito, e potrei dire che B entra nello stesso modo o che A smette di entrare così. Considera invece l’affermazione “Sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire alcuna descrizione di questo o quell’elemento specifico del suo atteggiamento, e la mia frase potrebbe significare solo “Ho osservato A mentre stava seduto e fumava”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo potrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “Ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “Quale modo?” sarebbe “Be’, ''questo'' modo”, e magari la si potrebbe accompagnare con uno schizzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. D’altro canto, la mia espressione “Ha un modo | Ciò che è ''particolare'' nel modo in cui “rosso” ti arriva è che ti arriva mentre stai filosofando su questo argomento, proprio come ciò che era particolare nella posizione del tuo corpo quando ti sei concentrato su di essa era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun altro modo. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se questa enfatizzazione in realtà fosse un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “Ho notato il modo in cui A entra nella stanza”; se mi si chiede “Che modo è?”, posso rispondere “Infila sempre la testa nella porta prima di entrare”. Qui mi riferisco a un elemento definito, e potrei dire che B entra nello stesso modo o che A smette di entrare così. Considera invece l’affermazione “Sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire alcuna descrizione di questo o quell’elemento specifico del suo atteggiamento, e la mia frase potrebbe significare solo “Ho osservato A mentre stava seduto e fumava”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo potrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “Ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “Quale modo?” sarebbe “Be’, ''questo'' modo”, e magari la si potrebbe accompagnare con uno schizzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. D’altro canto, la mia espressione “Ha un modo particolare...” forse dovrebbe essere tradotta semplicemente in “Sto contemplando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la nostra espressione; mentre nella forma precedente sembra descrivere un circolo, ovvero la parola “particolare” pare qui essere usata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, cioè guardiamo al suo uso come a un caso speciale dell’uso transitivo. Alla domanda “In che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “In ''questo'' modo” anziché “Non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione faceva sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui arrivava la parola “rosso”, mentre ciò che mi porta a usare la parola “particolare” qui è il fatto che, per via del mio atteggiamento nei confronti del fenomeno, lo sto enfatizzando: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc. | ||
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva. | Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva. | ||
Line 871: | Line 871: | ||
Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “Se non posso, non posso”, “Sono quello che sono”, “Le cose sono quelle che sono”, oppure “Se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “La cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “La cosa è risolta” con “Se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “La cosa è risolta” dirò “La questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “Se è così è così” è sottolineare il “Così”. | Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “Se non posso, non posso”, “Sono quello che sono”, “Le cose sono quelle che sono”, oppure “Se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “La cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “La cosa è risolta” con “Se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “La cosa è risolta” dirò “La questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “Se è così è così” è sottolineare il “Così”. | ||
Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!”. Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di commentare delle alternative, come quando diciamo “O piove o non piove; se piove staremo nella mia stanza, se non | Un’altra espressione simile a quelle appena esaminate è la seguente: “Eccoci qua; prendere o lasciare!”. Anche qui si tratta di qualcosa di analogo all’affermazione introduttiva che talvolta facciamo prima di commentare delle alternative, come quando diciamo “O piove o non piove; se piove staremo nella mia stanza, se non piove...”. La prima parte della frase non contiene informazioni (proprio come “Prendere o lasciare” non è un ordine). Invece di “O piove o non piove” avremmo potuto dire “Considera i due casi...”. La nostra espressione sottolinea questi casi, li presenta all’attenzione. | ||
A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) si è tentati di adoperare l’espressione “''Naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero | A ciò è strettamente legato il fatto che nel descrivere esempi come 30) o 31) si è tentati di adoperare l’espressione “''Naturalmente'' c’è un numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato; poniamo che tale numero sia...”. Raddrizzandola otterremo: “Sia il numero oltre il quale nessun membro della tribù ha mai contato...”. Il motivo per cui a quella raddrizzata tendiamo a preferire la prima espressione è che quest’ultima dirige con maggior forza la nostra attenzione sull’estremità superiore della gamma dei numerali impiegata dalla tribù nella pratica effettiva del contare. | ||
Consideriamo ora un caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare”, in cui essa, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi – il caso in cui contempliamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: [[File:Brown Book 2-Ts310,132.png|40px|link=]]. Lascia che tale volto ti susciti delle impressioni. Puoi quindi essere portato a dire: “Di sicuro non vedo meri tratti di penna. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''”. Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto per introdurre una descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire dicendo per esempio “Sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni”. Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa”, diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che si potrebbe staccare dal disegno del volto. È come se potessimo dire “Questo volto ha un’espressione particolare: proprio questa” (indicando qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, questo qualcosa dovrebbe essere il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti quando ce n’è uno solo.) Contribuisce all’illusione il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “Questo volto ''ha'' un’espressione particolare”. Le cose assumono un altro aspetto quando invece diciamo “Questo ''è'' un volto peculiare”. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato.) | Consideriamo ora un caso molto istruttivo dell’impiego della parola “particolare”, in cui essa, pur non indicando un confronto, sembra proprio che lo indichi – il caso in cui contempliamo l’espressione di un volto disegnato rozzamente in questo modo: [[File:Brown Book 2-Ts310,132.png|40px|link=]]. Lascia che tale volto ti susciti delle impressioni. Puoi quindi essere portato a dire: “Di sicuro non vedo meri tratti di penna. Vedo una faccia con un’espressione ''particolare''”. Non intendi però che si tratta di un’espressione straordinaria né l’hai detto per introdurre una descrizione dell’espressione, anche se una tale descrizione la potremo fornire dicendo per esempio “Sembra un uomo d’affari compiaciuto, ottusamente altezzoso, grasso eppure convinto di essere un dongiovanni”. Questa comunque sarebbe intesa solo come una descrizione approssimativa dell’espressione. “Le parole non riescono a descriverla in maniera precisa”, diciamo a volte. Tuttavia abbiamo l’impressione che ciò che chiamiamo l’espressione del volto sia qualcosa che si potrebbe staccare dal disegno del volto. È come se potessimo dire “Questo volto ha un’espressione particolare: proprio questa” (indicando qualcosa). Se però a questo punto dovessi indicare qualcosa, questo qualcosa dovrebbe essere il disegno che sto guardando. (Siamo per così dire affetti da un’illusione ottica che per una sorta di riflesso ci fa pensare che ci siano due oggetti quando ce n’è uno solo.) Contribuisce all’illusione il nostro impiego del verbo “avere” nella frase “Questo volto ''ha'' un’espressione particolare”. Le cose assumono un altro aspetto quando invece diciamo “Questo ''è'' un volto peculiare”. (Ciò che una cosa ''è'', intendiamo, è legato a essa; ciò che ha invece può esserne separato.) | ||
Line 902: | Line 902: | ||
oppure ancora al vedere questi quattro puntini | oppure ancora al vedere questi quattro puntini .... come due paia di puntini uno accanto all’altro, o come due paia alternate, o come un paio circoscritto dall’altro paio, ecc. | ||
Il caso di “vedere | Il caso di “vedere | ||
Line 919: | Line 919: | ||
Distinguiamo tra vedere il disegno come un volto e vederlo come qualcos’altro o come “meri tratti di penna”. Distinguiamo anche tra il fatto dare un’occhiata superficiale a un disegno (vedendolo come un volto) e il fatto di lasciare che il volto eserciti su di noi la sua piena impressione. Sarebbe però bizzarro dire “Sto lasciando che il volto eserciti su di me una ''particolare'' impressione” (salvo in quei casi in cui diresti di poter lasciare che lo stesso volto produca in te impressioni diverse). Nel lasciare che il volto si imprima in me e nel contemplare la sua “impressione particolare” non si paragonano l’una con l’altra due cose inerenti alla molteplicità di un volto; c’è solo ''una'' cosa che viene caricata di enfasi. Assorbendone l’espressione, non trovo nella mente un prototipo di tale espressione; invece, per così dire, da tale impressione ricavo un sigillo. | Distinguiamo tra vedere il disegno come un volto e vederlo come qualcos’altro o come “meri tratti di penna”. Distinguiamo anche tra il fatto dare un’occhiata superficiale a un disegno (vedendolo come un volto) e il fatto di lasciare che il volto eserciti su di noi la sua piena impressione. Sarebbe però bizzarro dire “Sto lasciando che il volto eserciti su di me una ''particolare'' impressione” (salvo in quei casi in cui diresti di poter lasciare che lo stesso volto produca in te impressioni diverse). Nel lasciare che il volto si imprima in me e nel contemplare la sua “impressione particolare” non si paragonano l’una con l’altra due cose inerenti alla molteplicità di un volto; c’è solo ''una'' cosa che viene caricata di enfasi. Assorbendone l’espressione, non trovo nella mente un prototipo di tale espressione; invece, per così dire, da tale impressione ricavo un sigillo. | ||
Ciò descrive anche quello che accade quando in )<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> diciamo a noi stessi “La parola ‘rosso’ arriva in una maniera | Ciò descrive anche quello che accade quando in )<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> diciamo a noi stessi “La parola ‘rosso’ arriva in una maniera particolare...”. Si potrebbe ribattere “Ho capito, stai ripetendo a te stesso una qualche esperienza e intanto continui a fissarla”. | ||
Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni confrontando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali – confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a farci degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, cioè dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che concordano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si identifica un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di dire che, nella maggior parte dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente siamo tentati di descrivere le cose in questo modo per via del fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo com’era quando ci siamo visti per l’ultima volta dieci anni fa. | Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni confrontando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali – confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a farci degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, cioè dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che concordano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si identifica un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di dire che, nella maggior parte dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente siamo tentati di descrivere le cose in questo modo per via del fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo com’era quando ci siamo visti per l’ultima volta dieci anni fa. | ||
Line 980: | Line 980: | ||
Sono tentato di dire “Questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare”. – Ma non posso dire “Vedo ''questo'' come ''questo'' volto”; dovrei dire “Vedo questo come ''un'' volto”. Ma ho l’impressione di voler dire “Non lo vedo come ''un'' volto, lo vedo come ''questo'' volto!”. Ma nella seconda metà di questa frase la parola “volto” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “Questo non lo vedo come un volto, lo vedo ''così''”. | Sono tentato di dire “Questo non è solo uno scarabocchio, è ''questo'' volto particolare”. – Ma non posso dire “Vedo ''questo'' come ''questo'' volto”; dovrei dire “Vedo questo come ''un'' volto”. Ma ho l’impressione di voler dire “Non lo vedo come ''un'' volto, lo vedo come ''questo'' volto!”. Ma nella seconda metà di questa frase la parola “volto” è pleonastica e si sarebbe dovuto dire “Questo non lo vedo come un volto, lo vedo ''così''”. | ||
Immagina che io dica “Questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così''”, vedo il volto – questo sarebbe qualcosa di simile al dire “Ciò che prima mi appare così, poi mi appare diversamente” e qui il “così” e il “diversamente” sarebbero accompagnati dai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco è usata questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi la sto dicendo? Supponi che la risposta sia “A me stesso”. Ciò però non è sufficiente. Qui si corre il grave pericolo di credere di sapere cosa farsene di una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’uso, per esempio, delle parole “così” e “diversamente?”. – oppure: quali sono i diversi usi che ne facciamo? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che è loro agganciato indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi un utilizzo della parola “questo” è quello accompagnato dal gesto di indicare qualcosa: diciamo “Vedo il quadrato con le diagonali così”, indicando la svastica. E a proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “Ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare diversamente [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]”. E questo di certo non è l’uso che abbiamo fatto della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso possiamo chiamare immagini delle raffigurazioni mentali, perché da certi punti di vista sono paragonabili a immagini disegnate o dipinte e da altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali nell’uso di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto che ha ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze diremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; e diciamo che non è cambiata perché è stata tenuta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “L’immagine non è cambiata” è usata in modi diversi a seconda che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “Questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con uno strumento, e un’altra grammatica se sono invece ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedere: quando mi sono detto “Ciò che prima mi appare così, | Immagina che io dica “Questo scarabocchio lo vedo ''così''” e, mentre dico “questo scarabocchio”, lo guardo come un semplice scarabocchio e, mentre dico “''così''”, vedo il volto – questo sarebbe qualcosa di simile al dire “Ciò che prima mi appare così, poi mi appare diversamente” e qui il “così” e il “diversamente” sarebbero accompagnati dai due modi diversi di vedere. – Dobbiamo però chiederci in quale gioco è usata questa frase con i processi che la accompagnano. Per esempio, a chi la sto dicendo? Supponi che la risposta sia “A me stesso”. Ciò però non è sufficiente. Qui si corre il grave pericolo di credere di sapere cosa farsene di una frase se questa sembra più o meno una delle frasi comuni del nostro linguaggio. Ma per non farci ingannare dobbiamo domandarci: qual è l’uso, per esempio, delle parole “così” e “diversamente?”. – oppure: quali sono i diversi usi che ne facciamo? Ciò che chiamiamo il loro significato non è qualcosa che le parole in questione contengono al proprio interno o che è loro agganciato indipendentemente dall’uso che ne facciamo. Quindi un utilizzo della parola “questo” è quello accompagnato dal gesto di indicare qualcosa: diciamo “Vedo il quadrato con le diagonali così”, indicando la svastica. E a proposito del quadrato con le diagonali avrei potuto dire: “Ciò che prima mi appare così [[File:Brown Book 2-Ts310,134d.png|80px|link=]], poi mi appare diversamente [[File:Brown Book 2-Ts310,134e.png|80px|link=]]”. E questo di certo non è l’uso che abbiamo fatto della frase nel caso descritto sopra. – Si potrebbe pensare che tutta la differenza tra i due casi sia questa, che nel primo le immagini sono mentali, nel secondo invece dei veri disegni. Qui bisognerebbe chiedersi in che senso possiamo chiamare immagini delle raffigurazioni mentali, perché da certi punti di vista sono paragonabili a immagini disegnate o dipinte e da altri no. Per esempio uno degli aspetti essenziali nell’uso di un’immagine “materiale” è che non è solo sulla base del fatto che ci pare sempre la stessa, che ricordiamo che prima aveva lo stesso aspetto che ha ora, che diciamo che rimane la stessa. Infatti in certe circostanze diremo che l’immagine non è cambiata anche se sembra essere cambiata; e diciamo che non è cambiata perché è stata tenuta in un certo modo, al riparo da determinate influenze. Quindi l’espressione “L’immagine non è cambiata” è usata in modi diversi a seconda che ci riferiamo a un’immagine materiale oppure a un’immagine mentale. Proprio come l’affermazione “Questi ticchettii si susseguono a intervalli regolari” ha una grammatica se si tratta dei ticchettii di un pendolo e il criterio per la loro regolarità è il risultato di misurazioni compiute con uno strumento, e un’altra grammatica se sono invece ticchettii immaginati. Per esempio potrei chiedere: quando mi sono detto “Ciò che prima mi appare così, poi...” ho riconosciuto i due aspetti, questo e quello, come gli stessi che mi si erano dati in occasioni precedenti? O mi erano nuovi e ho cercato di ricordarli per occasioni future? Oppure volevo dire soltanto che “Sono in grado di cambiare l’aspetto della figura?” | ||
Il pericolo dell’illusione a cui siamo soggetti diventa del tutto evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “così” e “diversamente” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che dare un nome a qualcosa consista nel correlare in un modo peculiare e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con quel qualcosa. Come facciamo uso di tale peculiare correlazione sembra quasi una questione secondaria. (Si potrebbe quasi immaginare che dare un nome a una cosa comporti uno specifico atto sacramentale e che questo generi una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.). | Il pericolo dell’illusione a cui siamo soggetti diventa del tutto evidente se ci proponiamo di dare ai due aspetti “così” e “diversamente” dei nomi, per esempio A e B. Perché siamo fortemente tentati di immaginare che dare un nome a qualcosa consista nel correlare in un modo peculiare e quasi misterioso un suono (o un altro segno) con quel qualcosa. Come facciamo uso di tale peculiare correlazione sembra quasi una questione secondaria. (Si potrebbe quasi immaginare che dare un nome a una cosa comporti uno specifico atto sacramentale e che questo generi una qualche relazione magica tra il nome e la cosa.). | ||
Line 1,030: | Line 1,030: | ||
Nel secondo caso, quando nella stanza c’era soltanto la luce normale e nel suo aspetto non c’era nulla di notevole, ti sei trovato disorientato quando ti ho detto di osservare la luce nella stanza. Hai potuto solo guardarti attorno in attesa di una precisazione ulteriore in grado di completare il senso del comando originale. | Nel secondo caso, quando nella stanza c’era soltanto la luce normale e nel suo aspetto non c’era nulla di notevole, ti sei trovato disorientato quando ti ho detto di osservare la luce nella stanza. Hai potuto solo guardarti attorno in attesa di una precisazione ulteriore in grado di completare il senso del comando originale. | ||
Ma in entrambi i casi la camera non era illuminata in una maniera particolare? Be’, per come è formulata, questa domanda è priva di senso, come anche la risposta | Ma in entrambi i casi la camera non era illuminata in una maniera particolare? Be’, per come è formulata, questa domanda è priva di senso, come anche la risposta “Era...”. L’ordine “Osserva la luce particolare di questa stanza” non implica alcuna affermazione sull’aspetto della stanza. Pareva che dicesse “Questa stanza ha una luce particolare, non c’è bisogno che la nomini; osservala!”. La luce a cui si fa riferimento, sembra, è data da un campione, e tu lo devi utilizzare; come faresti per copiare la sfumatura esatta di un campione di colore esibita da una tavolozza. In realtà però l’ordine è simile a questo: “Afferra questo campione!”. | ||
Immagina di dire “C’è una luce particolare che devo osservare”. Potresti immaginarti in tal caso intento a guardarti in giro invano, ovvero senza vedere la luce. | Immagina di dire “C’è una luce particolare che devo osservare”. Potresti immaginarti in tal caso intento a guardarti in giro invano, ovvero senza vedere la luce. | ||
Line 1,036: | Line 1,036: | ||
Avresti potuto ricevere un campione, per esempio un pezzo di materiale colorato, e poi l’ordine “Osserva il colore di questa superficie”. – Possiamo operare una distinzione tra l’osservare la forma del campione, prestare attenzione a essa, e il prestare attenzione al suo colore. Tuttavia il fatto di prestare attenzione al colore non può essere descritto come il fatto di guardare una cosa che è connessa al campione, bensì come il fatto di guardare il campione in un modo particolare. | Avresti potuto ricevere un campione, per esempio un pezzo di materiale colorato, e poi l’ordine “Osserva il colore di questa superficie”. – Possiamo operare una distinzione tra l’osservare la forma del campione, prestare attenzione a essa, e il prestare attenzione al suo colore. Tuttavia il fatto di prestare attenzione al colore non può essere descritto come il fatto di guardare una cosa che è connessa al campione, bensì come il fatto di guardare il campione in un modo particolare. | ||
Quando obbediamo all’ordine “Osserva il | Quando obbediamo all’ordine “Osserva il colore...”, ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore...” non significa “Vedi il colore che vedi”. L’ordine “Guarda questo-e-quello” è del tipo di “Gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il prestare attenzione, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione. | ||
Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “Va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza”, – suonerebbe come se egli potesse indicarci di che luce si tratti. L’ordine, cioè, sembrerebbe averti detto di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “Dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'' piuttosto che le dimensioni, le forme, ecc. | Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “Va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza”, – suonerebbe come se egli potesse indicarci di che luce si tratti. L’ordine, cioè, sembrerebbe averti detto di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “Dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'' piuttosto che le dimensioni, le forme, ecc. |