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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=1}} La sua funzione è la comunicazione tra un costruttore A e il suo operaio B. B deve passare ad A delle pietre di costruzione. Ci sono blocchi, mattoni, lastre, travi, colonne. Il linguaggio consiste delle parole “blocco”, “mattone”, “lastra”, “colonna”. Quando A pronuncia una di queste parole, B gli porge una pietra di una certa forma. Immaginiamo una società in cui questo sia l’unico tipo di linguaggio. Per apprendere il linguaggio dagli adulti il bambino viene addestrato al suo uso. Utilizzo la parola “addestrato” nella stessa identica accezione di quando parliamo di un animale addestrato a fare certe cose. Con ricompense, punizioni e mezzi simili. Una parte di quest’addestramento consiste nel fatto che indichiamo una pietra, vi dirigiamo l’attenzione del bambino e pronunciamo una parola. Chiamerò questa procedura insegnamento ''deittico'' delle parole. Nell’uso pratico di questo linguaggio, un uomo pronuncia le parole in quanto ordini e l’altro agisce in accordo con essi. Imparare e insegnare un simile linguaggio comporterà la seguente procedura: il bambino si limita a “nominare” le cose, cioè, quando il maestro indica le cose, a pronunciare le parole del linguaggio. In realtà ci sarà un esercizio ancora più semplice: il bambino ripete le parole pronunciate dal maestro. | ||
(Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di | (Nota: obiezione: nel linguaggio 1) la parola “mattone” non ha lo stesso significato che ha nel ''nostro'' linguaggio. – Questo è vero se nel nostro linguaggio ci sono usi della parola “mattone!” diversi dagli usi della stessa parola nel linguaggio 1). Ma talvolta noi non usiamo “mattone!” proprio allo stesso modo? Oppure dovremmo dire che nel farlo ci serviamo in realtà di un’espressione ellittica, di una forma abbreviata di “Passami un mattone”? È giusto dire che con il ''nostro'' “mattone!” ''intendiamo'' “Passami un mattone!”? Perché dovrei tradurre l’espressione “mattone!” nell’espressione “Passami un mattone”? E se si tratta di sinonimi, allora perché non dovrei affermare: se dice “mattone!” intende “mattone!”…? Oppure: se è in grado di intendere “Passami un mattone”, perché non dovrebbe essere in grado di intendere solo “mattone!”? A meno che tu voglia asserire che nel pronunciare “mattone” lui in realtà nella propria mente, a se stesso, dice sempre “Passami un mattone”? Ma che ragione potremmo avere per asserire ciò? Immaginiamo che qualcuno domandi: se un uomo ordina “Passami un mattone”, deve intenderlo in tre parole? O non può intenderlo come un’unica parola composita, sinonimo della singola parola “mattone!”? Si sarebbe tentati di rispondere: l’uomo ''intende'' tutte e tre le parole se nel suo linguaggio usa tale frase in contrapposizione con altre frasi in cui queste parole vengono impiegate, per esempio “Porta via questi due mattoni”. Se però chiedessi: “In che modo questa frase si distingue dalle altre? Deve averle pensate contemporaneamente, o appena prima o appena dopo, oppure basta che in passato le abbia imparate, ecc.?” Posta una simile domanda, pare irrilevante quale delle alternative sia corretta. Siamo propensi a dire che l’importante è solo che tali contrapposizioni debbano esistere nel sistema linguistico adoperato e che, mentre l’uomo pronuncia la frase in questione, non c’è alcun bisogno che esse siano presenti nella sua mente. Ora mettiamo a confronto questa conclusione con la nostra domanda iniziale. Nel porla, sembrava che si trattasse di una domanda sullo stato mentale dell’uomo che pronuncia la frase, ma l’idea di significato a cui siamo giunti alla fine non concerne stati mentali. Concepiamo i significati dei segni talvolta come stati mentali dell’uomo che li impiega, talvolta come il ruolo che tali segni ricoprono in un sistema linguistico. La connessione tra queste due idee consiste nel fatto che le esperienze mentali che accompagnano l’uso di un segno sono causate indubbiamente dal nostro uso del segno in un particolare sistema linguistico. William James parla di sensazioni specifiche che accompagnano l’uso di parole come “e”, “se”, “o”. E non ci sono dubbi che, se non altro, spesso a tali parole si legano alcuni gesti, come un gesto di unire insieme a “e” e un gesto di scartare a “non”. E naturalmente ci sono sensazioni visive e muscolari connesse a questi gesti. Tuttavia è chiaro che queste sensazioni non accompagnano tutti gli utilizzi di parole come “non” o “e”. Se in un qualche linguaggio la parola “ma” significa ciò che “non” significa in italiano, è evidente che non bisogna paragonare i significati di queste due parole paragonando le sensazioni che producono. Chiediti con quali mezzi possiamo scoprire le sensazioni che le stesse parole producono in persone diverse in situazioni diverse. Chiediti: “Se dico ‘dammi una mela e una pera ed esci dalla stanza’, nel pronunciare le due parole ‘e’ ho provato le stesse sensazioni?” Non neghiamo però che chi usa la parola “ma” come in italiano si usa “non” avrà, pronunciando la parola “ma”, sensazioni simili a quelle che hanno gli italiani quando usano “non”. E nei due linguaggi la parola “ma” sarà in generale accompagnata da diversi insiemi di esperienze.) | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=2}} Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=2}} Consideriamo adesso un’estensione del linguaggio 1). L’operaio sa a memoria la serie di parole da uno a dieci. Quando riceve l’ordine “Cinque lastre!” va dove si trovano le lastre, pronuncia le parole da uno a cinque, prende una piastra per ogni parola e le porta al costruttore. Qui entrambi utilizzano il linguaggio pronunciando le parole. Imparare a memoria i numerali sarà un aspetto essenziale dell’apprendimento di questo linguaggio. Anche l’uso dei numerali verrà insegnato in modo deittico. Ma una stessa parola, per esempio “tre”, verrà insegnata indicando o delle lastre, o dei mattoni, o delle colonne, ecc. E d’altro canto numerali diversi verranno insegnati indicando gruppi di pietre della stessa forma. | ||
(Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. E questo mostra che con l’introduzione dei numerali abbiamo introdotto un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo risulta molto più evidente se prendiamo in considerazione questo esempio semplificato rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili. – – | (Osservazione: abbiamo sottolineato l’importanza di imparare a memoria la serie di numerali perché nel linguaggio 1) non c’era alcun elemento paragonabile. E questo mostra che con l’introduzione dei numerali abbiamo introdotto un tipo di strumento totalmente nuovo nel nostro linguaggio. Questa differenza di tipo risulta molto più evidente se prendiamo in considerazione questo esempio semplificato rispetto a quando guardiamo al nostro linguaggio ordinario con i suoi innumerevoli tipi di parole che sul dizionario però sembrano più o meno tutte simili. – – | ||
Cosa hanno in comune le spiegazioni deittiche dei numerali con quelle dei termini “lastra”, “colonna”, ecc., oltre al gesto e al fatto di pronunciare le parole? Nei due casi il modo di utilizzo di tale gesto è diverso. Se diciamo | Cosa hanno in comune le spiegazioni deittiche dei numerali con quelle dei termini “lastra”, “colonna”, ecc., oltre al gesto e al fatto di pronunciare le parole? Nei due casi il modo di utilizzo di tale gesto è diverso. Se diciamo “In un caso indichiamo la forma, nell’altro indichiamo il numero”, tale differenza si offusca. La differenza diventa ovvia e palese solo quando prendiamo in considerazione un esempio ''completo'' (cioè l’esempio di un linguaggio di cui padroneggiamo ogni dettaglio).) | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=4}} Nel ricevere l’ordine | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=4}} Nel ricevere l’ordine “Questa lastra!”, B porta la piastra indicata da A. Nel ricevere l’ordine “Piastra, là!”, porta una piastra nel luogo indicato. La parola “là” viene insegnata deitticamente? Sì e no! Durante l’addestramento di una persona all’uso della parola “là”, il maestro gli farà il gesto dell’indicare e pronuncerà la parola “là”. Dobbiamo dire però che così facendo attribuisce a un luogo il nome “là?” Ricorda che in questo caso il gesto d’indicare rientra della pratica stessa della comunicazione. | ||
(Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là”, “qui”, “adesso”, “questo” siano “''i veri nomi propri''”, in contrapposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista a cui mi riferisco possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come una rozza approssimazione di quel che idealmente si potrebbe chiamare così. Pensiamo all’idea degli “individui” in Russell. Ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individui. L’idea è che a rivelarlo dev’essere un’analisi ulteriore. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di un nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti”, “cose” (“pietre da costruzione”). | (Osservazione: si è ipotizzato che parole quali “là”, “qui”, “adesso”, “questo” siano “''i veri nomi propri''”, in contrapposizione a quelli che chiamiamo nomi propri nella vita quotidiana e che secondo il punto di vista a cui mi riferisco possono considerarsi tali solo in maniera grossolana. C’è una tendenza diffusa a ritenere ciò che nella vita quotidiana si chiama un nome proprio come una rozza approssimazione di quel che idealmente si potrebbe chiamare così. Pensiamo all’idea degli “individui” in Russell. Ne parla come dei costituenti ultimi della realtà, ma dice che è difficile stabilire quali cose sono individui. L’idea è che a rivelarlo dev’essere un’analisi ulteriore. Noi invece abbiamo introdotto l’idea di un nome proprio in un linguaggio in cui era applicata a ciò che nella vita quotidiana chiamiamo “oggetti”, “cose” (“pietre da costruzione”). | ||
– “Cosa significa la parola ‘esattezza’? Se devi presentarti per un tè alle 4.30 e arrivi proprio quando un buon orologio batte le 4.30, si tratta di vera esattezza? Oppure è esattezza solo se inizi ad aprire la porta nell’istante in cui l’orologio comincia a battere? Ma come si definisce tale istante e come si definisce ‘iniziare ad aprire la porta’? Sarebbe corretto dire: ‘È difficile dire che cosa è vera esattezza, perché conosciamo solo rozze approssimazioni’?”) | – – “Cosa significa la parola ‘esattezza’? Se devi presentarti per un tè alle 4.30 e arrivi proprio quando un buon orologio batte le 4.30, si tratta di vera esattezza? Oppure è esattezza solo se inizi ad aprire la porta nell’istante in cui l’orologio comincia a battere? Ma come si definisce tale istante e come si definisce ‘iniziare ad aprire la porta’? Sarebbe corretto dire: ‘È difficile dire che cosa è vera esattezza, perché conosciamo solo rozze approssimazioni’?”) | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=5}} Domanda e risposta: A chiede | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=5}} Domanda e risposta: A chiede “Quante piastre?”. B le conta e risponde con il numerale. | ||
Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiamiamo giochi. Con tali giochi ai bambini viene insegnata la lingua madre e qui conservano anche la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici che descriviamo come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tenere a mente questo punto di vista, molto spesso è utile immaginarsi un tale linguaggio semplice come l’intero sistema di comunicazione di una tribù dalla struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica primitiva di queste tribù. | Chiameremo “giochi linguistici” sistemi di comunicazione quali per esempio 1), 2), 3), 4), 5). Sono più o meno simili a ciò nel linguaggio ordinario chiamiamo giochi. Con tali giochi ai bambini viene insegnata la lingua madre e qui conservano anche la natura divertente dei giochi. Tuttavia non consideriamo i giochi linguistici che descriviamo come parti incomplete di un linguaggio, ma come linguaggi completi in sé, sistemi compiuti di comunicazione umana. Per tenere a mente questo punto di vista, molto spesso è utile immaginarsi un tale linguaggio semplice come l’intero sistema di comunicazione di una tribù dalla struttura sociale primitiva. Pensa all’aritmetica primitiva di queste tribù. | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda: “Che cos’è questo?”; A risponde: “Questo è un…” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=6}} Chiedere il nome: introduciamo nuove forme di pietre da costruzione. B ne indica una e domanda: “Che cos’è questo?”; A risponde: “Questo è un…” Poi A pronuncia questa nuova parola, per esempio “arco”, e B gli porta la pietra. Le parole “Questo è un…”, accompagnate dal gesto di indicare, le chiameremo spiegazione ostensiva o definizione ostensiva. Nel caso 6) è stato spiegato un nome generico e, precisamente, il nome di una forma. Ma analogamente possiamo chiedere il nome proprio di un oggetto specifico, il nome di un colore, di un numerale, di una direzione. | ||
(Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, ecc. siano molto più simili tra loro di quello che sono in realtà. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi comuni quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, ecc. La seconda fonte ''b'') è che se vediamo quanto sono fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” ecc. rispetto alle funzioni dei nomi propri, e quanto sono diverse da entrambe queste le funzioni, per esempio, dei nomi dei colori, allora non vediamo perché non dovremmo parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato ed “est” e “Jack” dall’altro). | (Osservazione: il nostro uso di espressioni come “nomi di numeri”, “nomi di colori”, “nomi di materiali”, “nomi di nazioni” può sorgere da due fonti diverse. ''a'') Una è che possiamo immaginare che le funzioni di nomi propri, numerali, parole per colori, ecc. siano molto più simili tra loro di quello che sono in realtà. In tal caso siamo portati a pensare che la funzione di ogni parola sia più o meno come la funzione di un nome proprio di persona, oppure di nomi comuni quali “tavolo”, “sedia”, “porta”, ecc. La seconda fonte ''b'') è che se vediamo quanto sono fondamentalmente diverse le funzioni di parole come “tavolo”, “sedia” ecc. rispetto alle funzioni dei nomi propri, e quanto sono diverse da entrambe queste le funzioni, per esempio, dei nomi dei colori, allora non vediamo perché non dovremmo parlare di nomi di numeri o di nomi di direzioni, non come per dire che “numeri e direzioni sono solo forme diverse di oggetti”, bensì per sottolineare l’analogia intrinseca alla mancanza di analogia tra le funzioni delle parole “sedia” e “Jack” da un lato ed “est” e “Jack” dall’altro). | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=11}} Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=11}} Considera questa variazione del nostro gioco linguistico 2). Invece di dire “Una lastra!”, “Un blocco!” ecc., A si limita a gridare “lastra!”, “blocco!”, ecc., l’uso degli altri numerali essendo come descritto in 2). Immagina che a un uomo abituato a questa forma (11)) di comunicazione sia stato spiegato l’uso della parola “uno” come descritto in 2). Possiamo facilmente immaginare che si rifiuterebbe di classificare “uno” insieme ai numerali “2”, “3”, ecc. | ||
(Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro la classificazione di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”). | (Osservazione: pensa alle ragioni a favore e contro la classificazione di “0” insieme agli altri cardinali. “Il nero e il bianco sono colori?” In quali casi propenderesti per il sì e in quali propenderesti per il no? – Per tanti versi le parole possono essere paragonate a pezzi degli scacchi. Pensa ai vari modi di distinguere diversi tipi di pezzi nel gioco degli scacchi (per esempio pedoni e “pezzi nobili”). | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=13}} A dà a B un ordine costituito da un simbolo, una figura geometrica dipinta di un colore particolare, diciamo un cerchio verde. B gli porta un oggetto circolare verde. In 12) alcuni schemi corrispondono ai nostri nomi dei colori e altri schemi ai nostri nomi della forma. I simboli in 13) non possono essere considerati come combinazioni di questi due elementi. Una parola tra apici può essere chiamata uno schema. Quindi nella frase | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=13}} A dà a B un ordine costituito da un simbolo, una figura geometrica dipinta di un colore particolare, diciamo un cerchio verde. B gli porta un oggetto circolare verde. In 12) alcuni schemi corrispondono ai nostri nomi dei colori e altri schemi ai nostri nomi della forma. I simboli in 13) non possono essere considerati come combinazioni di questi due elementi. Una parola tra apici può essere chiamata uno schema. Quindi nella frase “Ha detto ‘Vai al diavolo’”, ‘Vai al diavolo’ è uno schema di ciò che lui ha detto. Confronta questi casi: | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14''a''}} Quando va a prendere il materiale, di fronte all’occhio della mente B ha un’immagine mnemonica. Ora lancia occhiate ai materiali, ora ricorda l’immagine. Svolge questo processo con, diciamo, cinque strisce, dicendosi talvolta | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=14''a''}} Quando va a prendere il materiale, di fronte all’occhio della mente B ha un’immagine mnemonica. Ora lancia occhiate ai materiali, ora ricorda l’immagine. Svolge questo processo con, diciamo, cinque strisce, dicendosi talvolta “Troppo scuro” e in altri casi “Troppo chiaro”. Alla quinta striscia si ferma, dice “Ecco qui” e la prende dallo scaffale. | ||
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Quando chiamiamo i tre casi citati casi di confronto a memoria, sentiamo che la loro descrizione è in un certo senso insoddisfacente o incompleta. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ci ha fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, sarebbe ciò che potremmo chiamare un’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Ora è curioso che, se si osservano da vicino alcuni casi di confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti ''più o meno'' caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia di confronto mediante un campione posto davanti ai nostri occhi. Conosciamo un ''gran'' numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi che accompagnano il fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e molte altre esperienze. Più casi simili osserviamo, e con maggior attenzione li guardiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza mentale caratteristica del confrontare. Infatti, se, dopo aver esaminato ''da vicino'' una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu ora avresti l’impressione che l’ipotesi di questa esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché questa esperienza è stata posta accanto a un gran numero di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo che invece è stato assunto dalla massa di esperienze che ci ha rivelato la nostra analisi: non volevamo che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze ''più o meno'' caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno, per così dire, da vicino, l’altro come da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera peculiare.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro impiego effettivo della parola “confrontare” è diverso da quello che eravamo portati a credere guardando da lontano. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è un gran numero di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre. | Quando chiamiamo i tre casi citati casi di confronto a memoria, sentiamo che la loro descrizione è in un certo senso insoddisfacente o incompleta. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ci ha fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, sarebbe ciò che potremmo chiamare un’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Ora è curioso che, se si osservano da vicino alcuni casi di confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti ''più o meno'' caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia di confronto mediante un campione posto davanti ai nostri occhi. Conosciamo un ''gran'' numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi che accompagnano il fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e molte altre esperienze. Più casi simili osserviamo, e con maggior attenzione li guardiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza mentale caratteristica del confrontare. Infatti, se, dopo aver esaminato ''da vicino'' una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu ora avresti l’impressione che l’ipotesi di questa esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché questa esperienza è stata posta accanto a un gran numero di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo che invece è stato assunto dalla massa di esperienze che ci ha rivelato la nostra analisi: non volevamo che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze ''più o meno'' caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno, per così dire, da vicino, l’altro come da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera peculiare.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro impiego effettivo della parola “confrontare” è diverso da quello che eravamo portati a credere guardando da lontano. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è un gran numero di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre. | ||
“Certamente però nel caso 14''c'') B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Non aveva ragioni per sceglierla. Se ha scelto quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non abbiamo negato che nel caso 14''c'') B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui ha scelto o quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari e tattili e simili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Cioè: che aspetto ''immaginiamo'' che avrebbe?) Penso che dovremmo dire che il contrario del confronto automatico, cioè per così dire il caso ideale del confronto consapevole, era quello in cui si aveva di fronte all’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida o quello in cui si vedeva un campione reale e si aveva la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Penso che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. Questa sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze della vista del campione, da una parte, e il materiale, dall’altra. Ma allora che cosa connette quest’esperienza specifica a ciascuna di quelle due cose? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non intendiamo dire che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari; per esempio se in una data circostanza ci chiedono | “Certamente però nel caso 14''c'') B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Non aveva ragioni per sceglierla. Se ha scelto quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non abbiamo negato che nel caso 14''c'') B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui ha scelto o quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari e tattili e simili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Cioè: che aspetto ''immaginiamo'' che avrebbe?) Penso che dovremmo dire che il contrario del confronto automatico, cioè per così dire il caso ideale del confronto consapevole, era quello in cui si aveva di fronte all’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida o quello in cui si vedeva un campione reale e si aveva la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Penso che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. Questa sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze della vista del campione, da una parte, e il materiale, dall’altra. Ma allora che cosa connette quest’esperienza specifica a ciascuna di quelle due cose? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non intendiamo dire che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari; per esempio se in una data circostanza ci chiedono “Questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi possiamo essere giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a dare come spiegazione che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''nel caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però potremmo distinguere i modi in cui appare un’immagine mnemonica tra un modo automatico e un modo non-automatico, ecc. | ||
Se il nostro caso 14''c'') ti turba, magari sarai portato a dire: “Ma ''perché'' ha portato proprio questa striscia di materiale? Come l’ha riconosciuta in quanto quella giusta? In base a che cosa?” – Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta nelle condizioni date. È compito delle scienze sperimentali vagliare ipotesi simili. Se invece ti interessa la ragione, la risposta è “Non ci deve essere stata per forza una ragione della scelta. Una ragione è un passo che precede il passo della scelta. Ma perché ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?” | Se il nostro caso 14''c'') ti turba, magari sarai portato a dire: “Ma ''perché'' ha portato proprio questa striscia di materiale? Come l’ha riconosciuta in quanto quella giusta? In base a che cosa?” – Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta nelle condizioni date. È compito delle scienze sperimentali vagliare ipotesi simili. Se invece ti interessa la ragione, la risposta è “Non ci deve essere stata per forza una ragione della scelta. Una ragione è un passo che precede il passo della scelta. Ma perché ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?” | ||
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La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo; per esempio, il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli bianchi e matite. | La differenza non sarà la stessa che tra una mano di un gioco limitato con 32 carte e la mano di un gioco limitato con un maggior numero di carte. Il numero di carte impiegate era, abbiamo detto, uguale. Ma ci saranno differenze di altro tipo; per esempio, il gioco limitato si svolge con un normale mazzo di carte, il gioco illimitato con un’ampia scorta di fogli bianchi e matite. | ||
Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?” Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ''ad inf''.”. Quindi la differenza tra le due mani ''a'') e ''b'') risiede negli strumenti che usiamo, anche se, per nostra stessa ammissione, non nelle carte con cui vengono giocate. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente ciò che accade mentre si gioca una mano dopo l’altra, ti accorgi di riuscire a trovare qualche differenza solo in una serie di dettagli ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono e si giocano le carte nei due casi ''possono'' essere identici. Durante lo svolgimento della mano ''a''), i giocatori possono aver considerato di creare nuove carte e poi averci rinunciato. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo quale il dire a se stessi, o anche ad alta voce, | Il gioco illimitato si apre con la domanda “Quanto saliamo?” Se i giocatori cercano il regolamento del gioco in un manuale, alla fine di certe serie di regole troveranno espressione quali “e avanti così” o “e avanti così ''ad inf''.”. Quindi la differenza tra le due mani ''a'') e ''b'') risiede negli strumenti che usiamo, anche se, per nostra stessa ammissione, non nelle carte con cui vengono giocate. Tale differenza però sembra irrilevante e non quella essenziale tra i due giochi. Abbiamo l’impressione che debba esserci da qualche parte una differenza grande ed essenziale. Se però osservi attentamente ciò che accade mentre si gioca una mano dopo l’altra, ti accorgi di riuscire a trovare qualche differenza solo in una serie di dettagli ognuno dei quali parrebbe inessenziale. Per esempio, i gesti con cui si distribuiscono e si giocano le carte nei due casi ''possono'' essere identici. Durante lo svolgimento della mano ''a''), i giocatori possono aver considerato di creare nuove carte e poi averci rinunciato. Ma come si è svolto tale atto di considerare? Potrebbe trattarsi di un processo quale il dire a se stessi, o anche ad alta voce, “Chissà se mi conviene farmi un’altra carta”. Magari però un simile pensiero non è passato per la mente di nessuno dei giocatori. È possibile che tutta la differenza tra una mano del gioco limitato e una mano del gioco illimitato consista in ciò che si è detto prima di iniziare a giocare, per esempio “Facciamo una partita al gioco limitato”. | ||
“Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci. | “Non è però giusto dire che le mani dei due giochi diversi appartengono a sistemi diversi?” Certo. Solo che i fatti a cui ci riferiamo nel dire che appartengono a sistemi diversi sono ben più complessi di quel che potremmo aspettarci. | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=30}} Una certa tribù ha un linguaggio del tipo 2). I numerali adoperati sono quelli del nostro sistema decimale. Nessun numerale impiegato sembra rivestito del ruolo predominante dell’ultimo numerale in alcuni dei giochi di cui sopra (27), 28)). (Si è tentati di proseguire la frase precedente dicendo “anche se naturalmente esiste un numerale massimo effettivamente utilizzato”). I bambini della tribù imparano i numerali nel modo seguente: gli si insegnano i segni da 1 a 20 come in 2) e, con l’ordine | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=30}} Una certa tribù ha un linguaggio del tipo 2). I numerali adoperati sono quelli del nostro sistema decimale. Nessun numerale impiegato sembra rivestito del ruolo predominante dell’ultimo numerale in alcuni dei giochi di cui sopra (27), 28)). (Si è tentati di proseguire la frase precedente dicendo “anche se naturalmente esiste un numerale massimo effettivamente utilizzato”). I bambini della tribù imparano i numerali nel modo seguente: gli si insegnano i segni da 1 a 20 come in 2) e, con l’ordine “Contale”, a contare file di non più di 20 palline. Quando contando l’allievo arriva al numerale 20, gli si fa un gesto a significare “Prosegui”, al che il bambino dice (quasi sempre, perlomeno) “21”. Analogamente, i bambini vengono fatti contare fino a 22 e oltre, senza che in questi esercizi ci sia un numero particolare che gioca il ruolo predominante di ultimo numero. Nell’ultimo stadio dell’addestramento si ordina all’allievo di contare un gruppo di oggetti, ben più di 20, senza usare il gesto di incoraggiamento per aiutarlo a oltrepassare il numerale 20. Se un bambino non reagisce al gesto di incoraggiamento, lo si separa dagli altri e lo si tratta come un folle. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=31}} Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Il più alto numerale di cui si osserva l’utilizzo è 159. Nella vita di questa tribù il numerale 159 gioca un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=31}} Un’altra tribù. Il suo linguaggio è come quello in 30). Il più alto numerale di cui si osserva l’utilizzo è 159. Nella vita di questa tribù il numerale 159 gioca un ruolo particolare. Immagina che io abbia detto “Trattano questo numero come se fosse il più alto”, – ma che cosa significa? Possiamo rispondere: “Dicono che è il più alto”? – Pronunciano certe parole, ma come facciamo a sapere che cosa intendono con esse? Un criterio per definire ciò che intendono sarebbero le occasioni in cui costoro impiegano la parola che noi siamo propensi a tradurre con “il più alto”, ovvero il ruolo, potremmo dire, che in base a quanto osserviamo tale parola gioca nella vita della tribù. In effetti si può agevolmente immaginare che il numerale 159 venga impiegato in circostanze tali, insieme a tali gesti e tali forme di comportamento, che saremmo portati a dire che tale numerale gioca il ruolo di un limite insormontabile, pur non avendo la tribù un’espressione corrispondente al nostro “il più alto” e pur non consistendo il criterio per cui il numerale 159 è il numerale più alto in nulla che sia stato ''detto'' su di esso. | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “Lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi se gli si mostra la lettera ''a''?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Il fatto che in 38) e in 39) l’addestramento ''precedeva'' l’esecuzione dell’ordine non cambia infatti il processo della sua esecuzione. In altre parole “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Ma ''potrebbe'' un tale meccanismo essere innato?” Hai però riscontrato qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato ''quel'' meccanismo che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o spiegazione dei segni abcd data nella tabella 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire una tabella, e avanti così. (Cfr. 21).) | ||
Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine | Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “Vai da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “Se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Questo esempio mostra semplicemente gli estremi tra cui variano gli usi dei segni. | ||
Torniamo a 39). Qualcuno visita la tribù e osserva l’uso dei segni nel loro linguaggio. Descrive tale linguaggio dicendo che le sue frasi sono composte dalle lettere abcd utilizzate secondo la tabella 33). Notiamo che l’espressione | Torniamo a 39). Qualcuno visita la tribù e osserva l’uso dei segni nel loro linguaggio. Descrive tale linguaggio dicendo che le sue frasi sono composte dalle lettere abcd utilizzate secondo la tabella 33). Notiamo che l’espressione “Un gioco si svolge secondo la regola così-e-così” si impiega non solo nella varietà dei casi esemplificata da 36), 37) e 38), ma anche in casi in cui la regola non è né uno strumento dell’addestramento, né della pratica del gioco, ma sta con esso nella stessa relazione che intercorre tra la nostra tabella e la pratica del gioco 39). In tale circostanza si potrebbe chiamare la tabella una legge naturale che descrive il comportamento dei membri della tribù. Oppure potremmo dire che la tabella è un documento appartenente alla storia naturale della tribù. | ||
Nota che nel gioco 33) ho operato una distinzione netta tra l’ordine da eseguire e la regola impiegata. In 34) invece abbiamo chiamato regola la frase “c a d a” che costituiva l’ordine. Immagina anche la variazione seguente: | Nota che nel gioco 33) ho operato una distinzione netta tra l’ordine da eseguire e la regola impiegata. In 34) invece abbiamo chiamato regola la frase “c a d a” che costituiva l’ordine. Immagina anche la variazione seguente: | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=44}} Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o attrezzo che consiste in una tavola con una fessura che guida il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, ecc. Il linguaggio di coloro che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muoverlo in cerchio, in linea retta, ecc. Hanno anche un modo per descrivere la tavola impiegata. Fanno così: | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=44}} Immagina che per uno scopo non meglio specificato delle persone si servano di uno strumento o attrezzo che consiste in una tavola con una fessura che guida il movimento di un piolo. L’uomo che usa l’attrezzo infila il piolo nella fessura. Ci sono tavole con fessure dritte, circolari, ellittiche, ecc. Il linguaggio di coloro che utilizzano tale strumento contiene espressioni per descrivere l’atto di muovere il piolo nella fessura. Si parla di muoverlo in cerchio, in linea retta, ecc. Hanno anche un modo per descrivere la tavola impiegata. Fanno così: “Questa è una tavola il cui il piolo ''può'' essere mosso circolarmente”. In questo caso si potrebbe chiamare la parola “può” un operatore per mezzo del quale la forma di espressione che descrive un’azione si trasforma nella descrizione di uno strumento. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=45}} Immagina un popolo nel cui linguaggio non esistono forme proposizionali quali | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=45}} Immagina un popolo nel cui linguaggio non esistono forme proposizionali quali “Il libro è nel cassetto” o “L’acqua è nel bicchiere”, ma in cui ogniqualvolta noi utilizziamo espressioni simili loro dicono “Il libro può essere preso dal cassetto” o “L’acqua può essere presa dal bicchiere”. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=46}} Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare tali bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=46}} Un’attività tipica degli uomini di una certa tribù consiste nel saggiare la robustezza di alcuni bastoni. La si svolge cercando di piegare tali bastoni con le mani. Nel loro linguaggio costoro hanno espressioni della forma “Questo bastone può essere piegato facilmente” oppure “Questo bastone può essere piegato con difficoltà”. Usano tali espressioni come noi usiamo “Questo bastone è elastico” o “Questo bastone è duro”. Voglio dire che non utilizzano la frase “Questo bastone può essere piegato facilmente” come noi ci serviremo della proposizione “Mi sta riuscendo facile piegare questo bastone”. La impiegano invece in maniera tale che noi diremmo che stanno descrivendo uno stato del bastone. Per esempio si servono di frasi come “Questa capanna è fatta di bastoni che possono essere piegati facilmente”. (Pensa a come noi formiamo certi aggettivi dai verbi mediante il suffisso “-bile”, per esempio in “deformabile”.) | ||
Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra questi esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Abbiamo visto che la tavola ha una fessura circolare o lineare, ecc. In 45), almeno per certi versi, le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, ecc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo tale che a essa corrisponde ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensibile statica. | Adesso si potrebbe dire che negli ultimi tre casi le frasi della forma di “questo-e-quest’altro può succedere” descrivono stati di oggetti, ma tra questi esempi ci sono grandi differenze. In 44) ci siamo visti descrivere tale stato davanti agli occhi. Abbiamo visto che la tavola ha una fessura circolare o lineare, ecc. In 45), almeno per certi versi, le cose stavano ancora così, vedevamo gli oggetti nella scatola, l’acqua nel bicchiere, ecc. In tali circostanze impieghiamo l’espressione “stato di un oggetto” in un modo tale che a essa corrisponde ciò che si potrebbe chiamare un’esperienza sensibile statica. | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=47}} Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=47}} Nel linguaggio di una tribù ci sono comandi per l’esecuzione di certe azioni in guerra, per esempio “Spara!”, “Corri!”, “Striscia!”, ecc. Costoro dispongono anche di una maniera particolare di descrivere la corporatura di un uomo. Tale descrizione ha la forma “È in grado di correre veloce”, “È in grado di scagliare la lancia lontano”. Ciò che mi autorizza a dire che queste frasi sono descrizioni della corporatura di un uomo è il loro impiego. Quindi, se vedono un uomo con le gambe molto muscolose ma che per qualche ragione ha perso la mobilità degli arti inferiori, dicono che si tratta di un uomo che può correre veloce. L’immagine disegnata di un uomo dai bicipiti robusti la descriverebbero come la rappresentazione di “uno che è in grado di scagliare la lancia lontano”. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=48}} Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standardizzate. Fa sollevare loro certi pesi, agitare le braccia, saltellare, ecc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali è in grado di scagliare la lancia” o “è in grado di lanciare il boomerang” o “è adatto a inseguire il nemico”, ecc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce solo in quanto prove per certe attività militari. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=48}} Prima di andare in guerra, gli uomini di una tribù si sottopongono a una specie di esame medico. L’esaminatore fa loro compiere una serie di prove standardizzate. Fa sollevare loro certi pesi, agitare le braccia, saltellare, ecc. Poi esprime un verdetto come “Tal-dei-tali è in grado di scagliare la lancia” o “è in grado di lanciare il boomerang” o “è adatto a inseguire il nemico”, ecc. Nel linguaggio della tribù non ci sono espressioni speciali per le attività eseguite durante gli esami; a queste attività ci si riferisce solo in quanto prove per certe attività militari. | ||
Riguardo a questo esempio e ad altri, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli che diamo del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole per noi. Dunque se dico che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere una prova per” e “lanciare il boomerang” per esser giustificato a sostituire queste espressioni italiane a quelle originali. A ciò noi dobbiamo ribattere che abbiamo fornito solo una descrizione appena abbozzata delle pratiche dei nostri linguaggi inventati e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far eseguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con | Riguardo a questo esempio e ad altri, è importante osservare che alla nostra descrizione del linguaggio adoperato dai membri di una certa tribù si potrebbe obiettare che negli scampoli che diamo del loro linguaggio li facciamo parlare in italiano e dunque presupponiamo già tutto lo sfondo della lingua italiana, ovvero i significati abituali delle parole per noi. Dunque se dico che in un certo linguaggio non c’è un verbo specifico per “saltellare” ma che al suo posto tale linguaggio si serve dell’espressione “compiere la prova per il lancio del boomerang”, mi si potrebbe chiedere in quale modo ho caratterizzato l’impiego delle espressioni “compiere una prova per” e “lanciare il boomerang” per esser giustificato a sostituire queste espressioni italiane a quelle originali. A ciò noi dobbiamo ribattere che abbiamo fornito solo una descrizione appena abbozzata delle pratiche dei nostri linguaggi inventati e che in taluni casi ci siamo limitati ad accenni, ma che sarebbe facile rendere tali descrizioni più complete. Quindi in 48) avrei potuto specificare che per far eseguire le prove agli uomini l’esaminatore dà loro degli ordini. Tutti questi ordini cominciano con un’espressione particolare che potrei tradurre in italiano con “Fai la prova”. A quest’espressione ne segue un’altra che effettivamente in battaglia si impiega per certe azioni. In guerra c’è un comando sentendo il quale i membri della tribù scagliano i boomerang e che io perciò dovrei tradurre con “Scaglia il boomerang!”. Inoltre se un uomo fa un resoconto della battaglia al suo capo, utilizza ancora l’espressione che io ho tradotto con “Scagliare il boomerang”, stavolta in una descrizione. Ora ciò che caratterizza un ordine in quanto tale o una descrizione in quanto tale o una domanda in quanto tale, ecc., è – come abbiamo detto – il ruolo giocato dall’enunciazione di tali segni nella pratica complessiva del linguaggio. Ovverosia se una parola del linguaggio della nostra tribù è tradotta correttamente o meno in italiano dipende dal ruolo che tale termine riveste nella vita complessiva della tribù; le occasioni in cui la si usa, le espressioni emotive con cui di solito la si accompagna, le idee che generalmente desta o che spingono a usarla, ecc. A mo’ di esercizio chiediti: in quali casi diresti che una certa parola enunciata dai membri della tribù è un saluto? In quali casi diresti che corrisponde al nostro “Arrivederci”, in quali invece a “Ciao”? In quali casi diresti che una parola straniera corrisponde al nostro “magari” – alle nostre espressioni di dubbio, fiducia, certezza? Ti accorgerai che le giustificazioni per considerare qualcosa come un’espressione di dubbio, convinzione, ecc. consistono in gran parte, ma ovviamente non del tutto, in descrizioni di gesti, del gioco della mimica facciale e perfino del tono di voce. Rammenta allora che le esperienze personali di un’emozione devono consistere in parte di esperienze assolutamente localizzate; se faccio una smorfia di rabbia, percepisco la tensione muscolare nella mia fronte aggrottata, se piango le sensazioni che sperimento attorno agli occhi sono naturalmente parte, e parte importante, di ciò che provo. Credo sia questo ciò a cui si riferiva William James con l’affermazione secondo la quale un uomo non piange perché è triste ma è triste perché piange. Il motivo per cui tale punto spesso non è compreso è che pensiamo all’enunciazione di un’emozione come se si trattasse di un espediente artificioso per far sapere agli altri che ne siamo affetti. Invece non c’è confine netto tra tali “espedienti artificiosi” e ciò che si potrebbe chiamare l’espressione naturale dell’emozione. Cfr. a riguardo: ''a'') piangere, ''b'') alzare la voce quando si è furiosi, ''c'') scrivere una lettera furiosa, ''d'') suonare il campanello per chiamare un domestico che si vuole sgridare. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=49}} Immagina una tribù nel cui linguaggio esiste un’espressione corrispondente al nostro “Ha fatto così-e-così” e un’altra espressione corrispondente al nostro “È in grado di fare così-e-così”, e che tuttavia la seconda sia impiegata solo quando il suo utilizzo è giustificato dallo stesso fatto che giustificherebbe anche la prima. Che cosa mi può portare a dire così? La tribù dispone di una forma di comunicazione che, per via delle circostanze in cui è impiegata, noi chiameremmo narrazione di eventi passati. Ci sono anche circostanze in cui dovremmo formulare e rispondere a domande come “È in grado Tal-dei-tali fare questo?”. Tali circostanze possono essere descritte, per esempio, dicendo che un capo sceglie gli uomini adatti per una certa azione, come attraversare un fiume, scalare una montagna, ecc. In quanto criterio distintivo dell’espressione “il capo sceglie gli uomini adatti per la tale azione” non prenderò in considerazione ciò che egli dice, ma solo gli altri elementi della situazione. In queste circostanze il capo pone una domanda che, per quanto attiene alle sue conseguenze pratiche, dovrebbe essere tradotta nel nostro “È in grado Tal-dei-tali di attraversare il fiume a nuoto?”. A fornire una risposta affermativa a tale domanda sono però solo coloro che hanno effettivamente attraversato il fiume a nuoto. Questa risposta non viene data con le stesse parole con cui, nelle circostanze tipiche di una narrazione, un uomo direbbe che ha attraversato il fiume a nuoto, bensì nei termini della domanda posta dal capo. Non viene data invece una risposta affermativa nei casi in cui noi certamente risponderemmo “sono in grado di attraversare il fiume a nuoto”, cioè se per esempio ho già compiuto imprese natatorie più ardue ma non proprio l’attraversamento a nuoto di questo particolare fiume. | ||
In questo linguaggio allora le due espressioni | In questo linguaggio allora le due espressioni “Ha fatto così-e-così” e “È in grado di fare così-e-così” hanno lo stesso significato oppure significati diversi? Se ci pensi, qualcosa ti porterà a rispondere in un modo, qualcosa a rispondere nell’altro. Ciò evidenzia solo che qui la domanda in questione non ha un significato chiaramente definito. Tutto ciò che posso dire è: se il fatto che loro dicono “Lui è in grado di…” se lui ha effettivamente fatto… è il tuo criterio per stabilire l’identità di significato, allora le due espressioni hanno lo stesso significato. Se sono le circostanze in cui la si impiega a fare il significato di un’espressione, i significati invece sono diversi. L’effettivo impiego delle parole “essere in grado” – l’espressione della possibilità in 49) – può aiutarci a comprendere l’idea che se qualcosa può succedere allora dev’essere già accaduta prima (Nietzsche). Sarà anche interessante esaminare, alla luce degli esempi forniti, l’affermazione secondo cui ciò che succede può succedere. | ||
Prima di continuare a riflettere sull’uso di “l’espressione della possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima che facessi questo”, ecc. Considera l’esempio seguente: | Prima di continuare a riflettere sull’uso di “l’espressione della possibilità”, facciamo un po’ di chiarezza sulla porzione del nostro linguaggio in cui si dicono cose sul passato e sul futuro, cioè sull’impiego di frasi contenenti formule quali “ieri”, “un anno fa”, “tra cinque minuti”, “prima che facessi questo”, ecc. Considera l’esempio seguente: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=50}} Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati”. Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Ha fatto parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose”. Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si portino) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre di essi (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=50}} Immagina come si potrebbe addestrare un bambino alla pratica della “narrazione di eventi passati”. Inizialmente lo si è addestrato a chiedere certe cose (ovvero a dare ordini, vedi 1)). Ha fatto parte di quest’addestramento l’esercizio di “nominare le cose”. Così ha imparato a nominare (e chiedere che gli si portino) una decina di giocattoli. Poniamo che abbia giocato con tre di essi (per esempio una palla, un bastone e un sonaglio), e che poi un adulto glieli tolga e pronunci una frase come “Aveva una palla, un bastone e un sonaglio”. In una situazione simile l’adulto interrompe l’elencazione e induce il bambino a completarla. In un’altra occasione magari dice solo “Aveva…” e lascia che sia il bambino a compiere l’intera elencazione. Il modo per “indurre il bambino a proseguire” può essere questo: interrompere l’elencazione con una certa espressione facciale e un tono di voce in levare che chiameremmo di aspettativa. Tutto allora dipende dal reagire o meno del bambino a tale “induzione”. C’è però un curioso malinteso in cui è facilissimo cadere, ovvero il fatto di considerare “i mezzi esteriori” di cui il maestro si serve per indurre il bambino a proseguire come ciò che potremmo chiamare una maniera indiretta di farsi capire dal bambino. Guardiamo alla situazione come se il bambino già possedesse un linguaggio in cui pensare e il compito dell’insegnante consistesse nell’indurlo a indovinare un certo significato nel regno dei significati già presente nella mente del bambino, come se nel proprio linguaggio privato il bambino potesse porsi una domanda quale “Vuole che continui, o che ripeta quel che ha appena detto, o qualcos’altro ancora?” (Cfr. 30).) | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=54}} Se a qualcuno diamo l’ordine | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=54}} Se a qualcuno diamo l’ordine “Di’ un numero, qualunque numero ti venga in mente”, di solito l’interlocutore è in grado di obbedire subito. Immagina che si scopra che i numeri pronunciati in seguito a tale richiesta aumentano – in ogni persona normale – con il passare del giorno; un uomo comincia al mattino con un numero basso e la sera, prima di addormentarsi, arriva al più alto. Considera ciò che potrebbe portare qualcuno a chiamare le reazioni così descritte “un mezzo di misurazione del tempo” o perfino a dire che, mentre le meridiane, ecc., sarebbero solo segnali indiretti, tali reazioni sono le pietre miliari ''reali'' del passare del tempo. (Rifletti sull’affermazione secondo cui il cuore umano è il vero orologio dietro tutti gli altri orologi). | ||
Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali. | Ora consideriamo altri giochi linguistici in cui compaiono delle espressioni temporali. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=55}} Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=55}} Questo caso emerge da 1). Al sentir pronunciare un ordine come “Lastra!”, “Colonna!”, ecc., B è addestrato a eseguirlo immediatamente. In questo gioco introduciamo un orologio, un ordine viene pronunciato e noi addestriamo il bambino a non eseguirlo finché la lancetta del nostro orologio raggiunge il punto che prima abbiamo indicato con un dito. (Si potrebbe fare per esempio così: tu prima hai addestrato il bambino a eseguire l’ordine immediatamente. Poi dai l’ordine, ma trattieni il bambino e lo lasci andare solo quando la lancetta dell’orologio ha raggiunto un punto specifico del quadrante che indichiamo con il dito). | ||
Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso”. Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti da essi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo tipo e dire, per esempio “lastra, adesso!” | Giunti a questo stadio, potremmo introdurre una parola come “adesso”. Nel gioco in questione ci sono due tipi di ordini, quelli usati in 1) e quelli composti da essi e da un gesto che indica un punto sul quadrante dell’orologio. Per rendere più esplicita la distinzione tra i due tipi, si può aggiungere un segno particolare agli ordini del primo tipo e dire, per esempio “lastra, adesso!” | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=56}} Prendiamo adesso in considerazione una ''descrizione'' del futuro, una previsione. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=56}} Prendiamo adesso in considerazione una ''descrizione'' del futuro, una previsione. Si potrebbe per esempio destare in un bambino la tensione dell’aspettativa mantenendo la sua attenzione per un lasso di tempo considerevole su dei semafori che cambiano periodicamente colore. Davanti a noi abbiamo anche un disco rosso, uno verde e uno giallo e, a mo’ di previsione del colore che sta per apparire, li indichiamo a turno. È facile immaginare ulteriori sviluppi di questo gioco. | ||
Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Cosa sia tale aspetto e come avvenga che si manifesti si può esemplificare in modo caratteristico riflettendo sulla domanda | Osservando tali giochi linguistici, non ci imbattiamo nelle idee di passato, futuro e presente nel loro aspetto problematico e quasi misterioso. Cosa sia tale aspetto e come avvenga che si manifesti si può esemplificare in modo caratteristico riflettendo sulla domanda “Dove va il presente quando diventa passato, e il passato dove si trova?” – in quali circostanze ci affascina un simile interrogativo? In certe circostanze infatti non ci affascina e lo liquideremmo come un’insensatezza. | ||
È evidente che una domanda del genere tende a sorgere facilmente se ci si occupa di casi in cui le cose ci oltrepassano in un flusso – come tronchi portati dalla corrente. In tal caso possiamo dire che i tronchi che ''ci hanno superato'' sono laggiù a sinistra e quelli che ''ci supereranno'' sono lassù a destra. Poi ci serviamo di questa situazione come di un modello per tutto ciò che accade nel tempo e la incorporiamo perfino nel nostro linguaggio, dicendo per esempio che “l’evento presente passa e va” (un tronco passa e va), “l’evento futuro deve arrivare” (il tronco deve arrivare). Parliamo di flusso degli eventi; ma anche di flusso del tempo – cioè del fiume in cui si spostano i tronchi. | È evidente che una domanda del genere tende a sorgere facilmente se ci si occupa di casi in cui le cose ci oltrepassano in un flusso – come tronchi portati dalla corrente. In tal caso possiamo dire che i tronchi che ''ci hanno superato'' sono laggiù a sinistra e quelli che ''ci supereranno'' sono lassù a destra. Poi ci serviamo di questa situazione come di un modello per tutto ciò che accade nel tempo e la incorporiamo perfino nel nostro linguaggio, dicendo per esempio che “l’evento presente passa e va” (un tronco passa e va), “l’evento futuro deve arrivare” (il tronco deve arrivare). Parliamo di flusso degli eventi; ma anche di flusso del tempo – cioè del fiume in cui si spostano i tronchi. | ||
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Qui si trova una delle fonti più fertili di perplessità filosofica: parliamo dell’evento futuro di qualcosa che entra nella mia stanza e anche dell’avvento futuro di tale evento. | Qui si trova una delle fonti più fertili di perplessità filosofica: parliamo dell’evento futuro di qualcosa che entra nella mia stanza e anche dell’avvento futuro di tale evento. | ||
Diciamo | Diciamo “La tal cosa accadrà” e anche “La tal cosa mi viene incontro”; con “la tal cosa” ci riferiamo al tronco, ma anche al fatto che mi viene incontro. | ||
Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come | Quindi può capitarci di non riuscire più a sbarazzarci delle implicazioni del nostro simbolismo, che pare ammettere domande come “Dove va la fiamma della candela spenta con un soffio?”, “Dove va la luce?”, “Dove va il passato?”. Ci siamo lasciati ossessionare dal nostro simbolismo. Si può dire che siamo portati alla perplessità da un’analogia che ci trascina inesorabilmente. – Questo accade anche quando il significato della parola “adesso” ci appare in una luce misteriosa. Nel nostro esempio 55) sembra che la funzione di “adesso” non sia affatto paragonabile alla funzione di un’espressione come “le cinque in punto”, “mezzogiorno”, “il momento in cui il sole tramonta”, ecc. Chiamerei le espressioni appartenenti a quest’ultimo gruppo “determinazioni di tempo”. Il nostro linguaggio ordinario però si serve della parola “adesso” e delle determinazioni di tempo in contesti simili. Diciamo infatti “Il sole tramonta adesso”, “Il sole tramonta alle sei”. Siamo propensi a dire che sia “adesso” sia “alle sei” “si riferiscono a punti nel tempo”. Tale impiego delle parole produce una perplessità esprimibile con la domanda “Che cos’è l’‘adesso’? – perché è un momento del tempo, eppure non si può dire che sia né ‘il momento in cui parlo’ né ‘il momento in cui batte l’orologio’, ecc. ecc.”. – – La nostra risposta è: la funzione della parola “adesso” è completamente diversa da quella di una specificazione di tempo. – Lo si vede facilmente se si osserva il ruolo effettivamente svolto da questa parola nel nostro uso linguistico, mentre la risposta risulta oscura quando, invece di guardare al ''gioco linguistico nel suo'' ''complesso'', guardiamo solo i contesti e le combinazioni linguistiche in cui è impiegata tale parola. (La parola “oggi” non è una data, ma non è nemmeno alcunché di paragonabile a una data. Non differisce da una data come un martello differisce da un mazzuolo, ma come un martello differisce da un chiodo; e sicuramente potremmo dire che c’è una qualche connessione sia tra un martello e un mazzuolo sia tra un martello e un chiodo). | ||
Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di un luogo, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio – intendo i ''giochi'' svolti con tali parole, non le espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo | Si è tentati di dire che “adesso” è il nome di un istante di tempo e questo naturalmente sarebbe come dire che “qui” è il nome di un luogo, “questo” il nome di una cosa e “io” il nome di una persona. (Si potrebbe affermare ovviamente che “un anno fa” è il nome di un lasso temporale, “laggiù” il nome di un luogo e “tu” il nome di una persona). Ma non c’è nulla di più difforme dell’uso della parola “questo” dall’impiego di un nome proprio – intendo i ''giochi'' svolti con tali parole, non le espressioni in cui le si impiega. È vero che diciamo “Questo è piccolo” e “Jack è piccolo”; ricorda però che, senza il gesto d’indicare e la cosa che stiamo indicando, “Questo è piccolo” non significherebbe niente. – Ciò che si può paragonare a un nome non è la parola “questo” ma, eventualmente, il simbolo che consiste in tale parola, il gesto, e il campione. Diremmo: niente è più tipico di un nome proprio A del nostro poterlo utilizzare in espressioni quali: “Questo è A”; invece non ha senso dire “Questo è questo” o “Adesso è adesso” o “Qui è qui”. | ||
L’idea di una proposizione che dica qualcosa su ciò che accadrà in futuro è ancora più foriera di perplessità dell’idea di una proposizione sul passato. Per paragonare eventi futuri a eventi passati, si sarebbe quasi portati a dire che, sebbene gli eventi passati non esistano davvero nella piena luce del giorno, pure ristanno in un qualche aldilà in cui sono trapassati uscendo dal mondo reale; mentre agli eventi futuri non pertiene nemmeno una simile vita umbratile. Certamente si potrebbe immaginare un regno degli accadimenti non ancora nati e futuri, da cui questi giungono nella realtà per poi finire nel regno del passato; e, se pensiamo nei termini di questa metafora, possiamo rimanere sorpresi di come il futuro sembri meno tangibile del passato. Ricorda tuttavia che la grammatica delle nostre espressioni temporali è asimmetrica rispetto a un’origine che corrisponde al momento presente. Dunque nella grammatica del tempo futuro non c’è nulla che corrisponda alla grammatica della parola “memoria”. Questa parte della grammatica del tempo passato non ricorre “con segno cambiato” dalla parte del futuro. Questa è la ragione per cui è stato detto che le proposizioni che riguardano eventi futuri non sono davvero delle proposizioni. Dire così va bene a patto che non la si consideri altro che una decisione in merito all’utilizzo del termine “proposizione”; una decisione che, seppure in disaccordo con l’uso comune della parola “proposizione”, in determinate circostanze può venire spontanea agli esseri umani. Se un filosofo dice che le proposizioni sul futuro non sono vere proposizioni, è perché è rimasto colpito dall’asimmetria nella grammatica delle espressioni temporali. Ma il pericolo è che immagini di aver fatto una sorta di asserzione scientifica “sulla natura del futuro”. | L’idea di una proposizione che dica qualcosa su ciò che accadrà in futuro è ancora più foriera di perplessità dell’idea di una proposizione sul passato. Per paragonare eventi futuri a eventi passati, si sarebbe quasi portati a dire che, sebbene gli eventi passati non esistano davvero nella piena luce del giorno, pure ristanno in un qualche aldilà in cui sono trapassati uscendo dal mondo reale; mentre agli eventi futuri non pertiene nemmeno una simile vita umbratile. Certamente si potrebbe immaginare un regno degli accadimenti non ancora nati e futuri, da cui questi giungono nella realtà per poi finire nel regno del passato; e, se pensiamo nei termini di questa metafora, possiamo rimanere sorpresi di come il futuro sembri meno tangibile del passato. Ricorda tuttavia che la grammatica delle nostre espressioni temporali è asimmetrica rispetto a un’origine che corrisponde al momento presente. Dunque nella grammatica del tempo futuro non c’è nulla che corrisponda alla grammatica della parola “memoria”. Questa parte della grammatica del tempo passato non ricorre “con segno cambiato” dalla parte del futuro. Questa è la ragione per cui è stato detto che le proposizioni che riguardano eventi futuri non sono davvero delle proposizioni. Dire così va bene a patto che non la si consideri altro che una decisione in merito all’utilizzo del termine “proposizione”; una decisione che, seppure in disaccordo con l’uso comune della parola “proposizione”, in determinate circostanze può venire spontanea agli esseri umani. Se un filosofo dice che le proposizioni sul futuro non sono vere proposizioni, è perché è rimasto colpito dall’asimmetria nella grammatica delle espressioni temporali. Ma il pericolo è che immagini di aver fatto una sorta di asserzione scientifica “sulla natura del futuro”. | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=58}} In una certa tribù si tengono gare di corsa, getto del peso, ecc. e gli spettatori puntano soldi sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono disposte in una fila e quello che ho chiamato puntare dei beni su uno degli atleti da parte degli spettatori consiste nel fatto di posizionare quei beni (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha messo il proprio oro sotto l’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto aveva puntato. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica la chiameremo indubbiamente scommettere, anche se la osservassimo in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità”, “chance”, ecc. Suppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo il momento in cui si viene a conoscere il risultato della scommessa. Immagino inoltre che esaminando come vengono fatte le scommesse sarei in grado di capire “''perché''” vengono fatte così. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che il più grosso sia stato recentemente malato, o abbia trascurato gli allenamenti, ecc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per il modo in cui vengono fatte le scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro dire | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=58}} In una certa tribù si tengono gare di corsa, getto del peso, ecc. e gli spettatori puntano soldi sugli atleti. Le immagini di tutti gli atleti sono disposte in una fila e quello che ho chiamato puntare dei beni su uno degli atleti da parte degli spettatori consiste nel fatto di posizionare quei beni (pezzi d’oro) sotto una delle immagini. Se un uomo ha messo il proprio oro sotto l’immagine del vincitore della gara, ottiene il doppio di quanto aveva puntato. Altrimenti perde la somma. Una tale pratica la chiameremo indubbiamente scommettere, anche se la osservassimo in una società il cui linguaggio è privo di schemi per indicare “gradi di probabilità”, “chance”, ecc. Suppongo che il comportamento degli spettatori esprima grande attenzione ed entusiasmo prima e dopo il momento in cui si viene a conoscere il risultato della scommessa. Immagino inoltre che esaminando come vengono fatte le scommesse sarei in grado di capire “''perché''” vengono fatte così. Cioè: in un combattimento tra due lottatori, di solito è favorito il più grosso; o se invece è il più piccolo, concludo che in passato costui abbia dato prova di maggior forza, oppure che il più grosso sia stato recentemente malato, o abbia trascurato gli allenamenti, ecc. Potrei fare tali osservazioni anche se il linguaggio della tribù non esprimesse ragioni per il modo in cui vengono fatte le scommesse. Cioè se nel linguaggio in questione non c’è nulla che corrisponde per esempio al nostro dire “Scommetto su di lui perché si è tenuto in forma, mentre l’avversario si è allenato male”, e simili. Potrei descrivere tale situazione dicendo che la mia osservazione mi ha insegnato certe ''cause'' del fatto che fanno le loro scommesse come le fanno, ma che, gli scommettitori non avevano ''ragioni'' per agire come hanno agito. | ||
Ma la tribù potrebbe avere un linguaggio che include il “fornire ragioni”. Tale gioco di fornire la ragione per cui si agisce in un certo modo non comporta però il fatto di scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente: | Ma la tribù potrebbe avere un linguaggio che include il “fornire ragioni”. Tale gioco di fornire la ragione per cui si agisce in un certo modo non comporta però il fatto di scoprire le cause delle suddette azioni (attraverso l’osservazione frequente delle condizioni in cui queste azioni si verificano). Immaginiamo la situazione seguente: | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=59}} Se un uomo della tribù ha perso la scommessa e perciò viene deriso o sgridato, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei facilmente aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta. | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=59}} Se un uomo della tribù ha perso la scommessa e perciò viene deriso o sgridato, costui indica, magari esagerando, certe caratteristiche dell’uomo sui cui ha puntato. Si può immaginare che ne segua un dibattito sui pro e sui contro: due persone che a turno indicano certe caratteristiche dei due sfidanti le cui chance, per così dire, sono intenti a discutere; con un gesto A indica l’altezza ragguardevole dell’uno, B risponde scrollando le spalle e indicando la robustezza dei bicipiti dell’altro, e avanti così. Potrei facilmente aggiungere altri particolari che ci farebbero dire che A e B forniscono ragioni per scommettere su questo o quell’atleta. | ||
Si potrebbe affermare che fornire ragioni delle proprie scommesse in questo modo presuppone certamente che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei loro regimi di allenamento. Questa però è una presupposizione che, ragionevole o meno, certamente non ho fatto nella descrizione del nostro caso. (E non ho nemmeno presupposto che gli scommettitori forniscano ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) – È facile anche immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con | Si potrebbe affermare che fornire ragioni delle proprie scommesse in questo modo presuppone certamente che A e B abbiano osservato connessioni causali tra i risultati di un combattimento, per esempio, e certe caratteristiche fisiche dei lottatori o dei loro regimi di allenamento. Questa però è una presupposizione che, ragionevole o meno, certamente non ho fatto nella descrizione del nostro caso. (E non ho nemmeno presupposto che gli scommettitori forniscano ragioni per le proprie ragioni). In un caso simile a quello appena descritto non dovremmo sorprenderci se il linguaggio della tribù contenesse ciò che chiameremmo espressioni di gradi di credenza, convinzione, certezza. Potremmo immaginare che tali espressioni consistano nell’uso di una parola particolare pronunciata con diverse intonazioni, oppure di una serie di parole. (Non penso comunque all’uso di una scala di probabilità.) – È facile anche immaginare che le persone della tribù accompagnino le puntate con espressioni verbali da noi traducibili con “Credo che Tal-dei-tali ''sia in grado'' di battere Tal-dei-tali in un combattimento”, ecc. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=60}} Immagina analogamente che si facciano congetture sul fatto che un certo carico di polvere da sparo riesca o meno a sbriciolare una determinata roccia e che la congettura sia espressa in una frase della forma | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=60}} Immagina analogamente che si facciano congetture sul fatto che un certo carico di polvere da sparo riesca o meno a sbriciolare una determinata roccia e che la congettura sia espressa in una frase della forma “Questa quantità di polvere da sparo è in grado di sbriciolare questa roccia”. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=61}} Paragona con 60) il caso in cui l’espressione “Io sono in grado di sollevare questo peso” funge da abbreviazione della congettura “La mia mano, che stringe questo peso, salirà se compio il processo (l’esperienza) di ‘sforzarmi di sollevarla’”. Negli ultimi due casi le parole “essere in grado” caratterizzavano ciò che chiameremmo l’espressione di una congettura. (Naturalmente non credo che si debba chiamare congettura ogni frase contenente l’espressione “essere in grado”; ma chiamando una frase congettura ci riferivamo al ruolo che essa svolgeva nel gioco linguistico; traduciamo con “essere in grado” un’espressione utilizzata dalla tribù se “essere in grado” è l’espressione che impiegheremmo noi nelle circostanze descritte.) È evidente che l’uso di “essere in grado” in 59), 60), 61) è strettamente imparentato con l’uso di “essere in grado” nei casi da 46) a 49);<ref>Nella maggior parte delle occorrenze rilevanti per questa argomentazione, “''can''” è stato tradotto con “essere in grado di”; nel paragrafo 46), dove è usato perlopiù per reggere forme passive, è stato invece tradotto con “potere”. Quando fa riferimento a “l’uso di ‘essere in grado’ nei casi da 46) a 49)” Wittgenstein si riferisce dunque a espressioni che sono state tradotte in parte con “essere in grado di”, in parte con “potere”. (N.d.C.)</ref> i due impieghi però differiscono in questo, che nei casi da 46) a 49) le frasi in cui si diceva che qualcosa ''potrebbe'' accadere non erano espressioni di una congettura. A ciò si potrebbe obiettare dicendo così: di certo nei casi da 46) a 49) siamo disposti a servirci dell’espressione “essere in grado” solo perché in questi casi è ragionevole fare congetture su cosa un uomo farà in futuro in base alle prove che ha superato e alle condizioni in cui si trova. | ||
È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti. | È vero che ho inventato apposta i casi da 46) a 49) per far sembrare ragionevole una congettura di questo tipo. Ma li ho creati appositamente in maniera tale da ''non'' contenere una congettura. Se vogliamo possiamo ipotizzare che la tribù non adopererebbe mai una forma di espressione come quella impiegata in 49), ecc., se l’esperienza non avesse mostrato loro che… ecc. Ma questo è un assunto che, per quanto potenzialmente corretto, non è in alcun modo presupposto nei giochi da 46) a 49) per come li ho effettivamente descritti. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=62}} Facciamo questo gioco: A scrive una fila di numeri. B lo guarda e cerca di trovare un sistema nella sequenza di questi numeri. Quando ci riesce dice: | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=62}} Facciamo questo gioco: A scrive una fila di numeri. B lo guarda e cerca di trovare un sistema nella sequenza di questi numeri. Quando ci riesce dice: “Ora sono in grado di continuare”. Tale esempio è particolarmente istruttivo perché “essere in grado di continuare” qui sembra essere qualcosa che si instaura all’improvviso nella forma di un evento chiaramente definito. – Immagina allora che A abbia scritto in fila 1, 5, 11, 19, 29. A quel punto B esclama “Ora sono in grado continuare”. Che cosa è accaduto quando tutt’a un tratto ha visto come continuare? Potrebbero essere accadute molte cose. Supponiamo che nel presente caso, mentre A scriveva un numero dopo l’altro, B si sia sforzato di provare ad applicare varie formule algebriche. Quando A ha scritto “19” B è stato portato a tentare la formula {{Nowrap|1=a<sub>''n''</sub> = ''n''<sup>2</sup> + ''n'' − 1}}. Che poi A abbia aggiunto 29 ha confermato l’intuizione di B. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=63}} Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e con idee nebulose che gli fluttuavano nella mente, si è detto le parole | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=63}} Oppure nella mente di B non è comparsa alcuna formula. Dopo aver guardato la fila di numeri che A stava scrivendo, magari con una sensazione di tensione e con idee nebulose che gli fluttuavano nella mente, si è detto le parole “Li eleva al quadrato e poi aggiunge sempre uno”; poi ha pensato al numero successivo della sequenza e ha scoperto che concordava con i numeri che andava annotando A. – – | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che sono in grado di continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari, nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 scritta da A, ha provato una sensazione o delle sensazioni come quelle che spesso accompagnano parole quali | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=64}} Oppure la fila scritta da A era 2, 4, 6, 8. B guarda e dice “Certo che sono in grado di continuare” e prosegue la serie di numeri pari. Oppure tace e si limita a continuare. Magari, nell’osservare la sequenza 2, 4, 6, 8 scritta da A, ha provato una sensazione o delle sensazioni come quelle che spesso accompagnano parole quali “Facile!”. Una sensazione di questo tipo è per esempio l’esperienza di una rapida inspirazione superficiale che si potrebbe chiamare un lieve trasalimento. | ||
Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula {{Nowrap|1=a<sub>''n''</sub> = ''n''<sup>2</sup> + ''n'' − 1}} sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti all’occhio della mente, o l’esperienza di scrivere o pronunciare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule scritte in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi siamo propensi a dire che “essere in grado di…” deve significare qualcosa in più del mero atto di pronunciare la formula, – e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è il fatto che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “essere in grado di continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi, in questo caso, ci porta fuori strada. Quando diciamo | Diremo quindi che la proposizione “B è in grado di continuare la serie” significa che una delle occorrenze appena descritte ha avuto luogo? Non è evidente che l’asserzione “B è in grado di continuare…” non è uguale all’asserzione che la formula {{Nowrap|1=a<sub>''n''</sub> = ''n''<sup>2</sup> + ''n'' − 1}} sorge nella mente di B? Tale occorrenza potrebbe essere l’unico evento ad aver effettivamente avuto luogo. (È chiaro comunque che per noi non cambia nulla se B ha avuto l’esperienza della formula che gli è apparsa davanti all’occhio della mente, o l’esperienza di scrivere o pronunciare la formula, o quella di scegliere con gli occhi tra varie formule scritte in precedenza). Se un pappagallo avesse pronunciato la formula, non avremmo detto che era in grado proseguire la serie. – Quindi siamo propensi a dire che “essere in grado di…” deve significare qualcosa in più del mero atto di pronunciare la formula, – e in realtà di tutte le occorrenze che abbiamo descritto. Ciò, diremo, mostra che l’atto di pronunciare la formula era solo un sintomo del fatto che B era in grado di continuare la serie e che non costituiva tale capacità di continuare in sé. Qui a portarci fuori strada è il fatto che sembra che si stia sottintendendo l’esistenza di una particolare attività, di un processo o stato chiamato “essere in grado di continuare” che è in qualche modo nascosto ai nostri occhi ma si manifesta in queste occorrenze che chiamiamo sintomi (come un’infiammazione alle mucose nasali produce il sintomo dello starnuto). Ed è così che parlare dei sintomi, in questo caso, ci porta fuori strada. Quando diciamo “Di sicuro dev’esserci qualcos’altro dietro la mera enunciazione della formula, poiché questa da sola non basterebbe a farci dire ‘è in grado…’”, la parola “dietro” è certamente usata in senso metaforico e “dietro” l’enunciazione della formula ci possono essere le circostanze in cui la si enuncia. È vero, “B è in grado di continuare…” non equivale a dire “B pronuncia la formula…” ma da ciò non consegue che l’espressione “B è in grado di continuare” si riferisca a un atto diverso da quello della recitazione della formula nello stesso modo in cui “B pronuncia la formula” si riferisce all’atto ben noto. Il nostro errore è analogo al seguente: si spiega a qualcuno che la parola “sedia” non significa questa sedia particolare da me indicata, al che lui cerca con lo sguardo intorno a sé l’oggetto che la parola “sedia” sedia. (L’esempio sarebbe ancora più efficace se costui cercasse dentro la sedia per trovare il vero significato della parola “sedia”.) È chiaro che quando, riferendoci all’atto di scrivere o recitare la formula ecc., ci serviamo della frase “Costui è in grado di continuare la serie”, ciò deve dipendere da una qualche connessione tra il fatto di scrivere la formula e quello di continuare effettivamente la serie. Nell’esperienza, la connessione tra questi due processi o atti è chiara a sufficienza. Tale legame però ci induce nella tentazione di dire che la frase “B è in grado di continuare…” abbia un significato analogo a “B fa qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, di solito porta a continuare la serie”. Ma davvero affermando “Ora sono in grado di continuare” B intende qualcosa come “Ora faccio qualcosa che, per quanto ci ha mostrato l’esperienza, ecc., ecc.”? Intendi che aveva una simile espressione in mente oppure che all’occorrenza sarebbe stato pronto a servirsene a mo’ di spiegazione di ciò che ha detto?! Affermare che l’espressione “B è in grado di continuare…” è utilizzata correttamente quando a portarci a usarla sono occorrenze simili a quelle descritte in 62), 63), 64) ma che tali occorrenze ne giustificano l’impiego solo in certe circostanze (per esempio quando l’esperienza ha mostrato certe connessioni) non equivale a dire che la frase “B è in grado di continuare…” è un’abbreviazione dell’espressione che descrive tutte queste circostanze, ovvero la situazione complessiva che costituisce lo sfondo del nostro gioco. | ||
D’altro canto ''in alcune circostanze'' dovremmo essere pronti a sostituire “B è in grado di continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha pronunciato la formula”. Come nel chiedere al medico | D’altro canto ''in alcune circostanze'' dovremmo essere pronti a sostituire “B è in grado di continuare la serie” con “B sa la formula”, “B ha pronunciato la formula”. Come nel chiedere al medico “Il paziente è in grado di camminare?”, dobbiamo a volte essere pronti a sostituire la frase con “Gli è guarita la gamba?”. – “È in grado di parlare” in certe circostanze significa “La sua gola sta bene?”, in altre invece (per esempio se si tratta di un bambino piccolo) significa “Ha imparato a parlare?”. – Alla domanda “Il paziente è in grado di camminare?” il dottore può rispondere “La gamba è a posto”. – Ci serviamo dell’espressione “Per quanto riguarda le condizioni della gamba, è in grado di camminare”, soprattutto quando vogliamo distinguere, in merito al fatto di camminare, tale condizione da un’altra dello stesso soggetto, per esempio quella della sua spina dorsale. Qui dobbiamo fare attenzione a non credere che nella natura del caso ci sia ciò che potremmo chiamare l’insieme completo di condizioni, per esempio, del fatto di camminare; in modo che se tutte queste condizioni fossero soddisfatte, il paziente, per così dire, non potrebbe fare a meno di camminare. | ||
Possiamo dire: l’espressione “B è in grado di continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo ''a'') tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure ''b'') tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure ''c'') (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova ancora in uno stato di shock da combattimento; oppure ''d'') tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia. | Possiamo dire: l’espressione “B è in grado di continuare la serie” è usata in circostanze diverse per operare distinzioni diverse. Quindi distinguiamo ''a'') tra il caso in cui il soggetto conosce la formula e il caso in cui non la conosce; oppure ''b'') tra il caso in cui costui conosce la formula e non si è scordato come scrivere i numerali del sistema decimale e il caso in cui conosce la formula e si è però scordato come scrivere i numerali; oppure ''c'') (come forse in 64)) tra il caso in cui costui versa in condizioni normali e il caso in cui si trova ancora in uno stato di shock da combattimento; oppure ''d'') tra il caso di chi ha già fatto simili esercizi e il caso di chi vi si accinga per la prima volta. Questi sono solo alcuni esempi all’interno di una grande famiglia. | ||
Alla domanda se | Alla domanda se “È in grado di continuare…” ha lo stesso significato di “Conosce la formula” si può rispondere in vari modi diversi: possiamo dire “Le due locuzioni non hanno lo stesso significato, cioè solitamente non le si impiega come sinonimi come invece per esempio le espressioni ‘sto bene’ e ‘sono in buona salute’”; oppure possiamo dire “''In alcune circostanze'' ‘il soggetto è in grado di continuare’ significa che conosce la formula”. Immagina il caso di un linguaggio (per certi versi analogo a 49)) in cui due forme di espressione, due frasi diverse, sono impiegate per affermare che le gambe di una persona funzionano bene. Una delle due forme di espressione è usata solo nelle circostanze in cui si sta preparando una spedizione, un viaggio a piedi o qualcosa di simile; dell’altra ci si serve in casi in cui preparativi del genere non sono contemplati. Qui non sapremo se dire che le due frasi hanno lo stesso significato o significati diversi. In ogni caso è solo osservando nel dettaglio l’utilizzo di suddette espressioni che riusciamo a scorgere lo stato reale delle cose. – Ed è evidente che se nel caso presente decideremo di dire che le due espressioni hanno significati diversi, di sicuro non saremo in grado di dire che la differenza è che il fatto che rende vera la seconda frase è diverso da quello che rende vera la prima. | ||
Siamo giustificati a dire che la frase | Siamo giustificati a dire che la frase “È in grado di continuare…” ha un significato diverso da quello di “Sa la formula”. Non dobbiamo però immaginare di poter trovare un particolare stato di cose “a cui la prima frase si riferisce” su un piano per così dire superiore rispetto a quello dove hanno luogo le occorrenze specifiche (come il fatto di sapere la formula, di immaginare nuovi termini della serie, ecc.) | ||
Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto | Facciamo la seguente domanda: supponi che, per un motivo o per un altro, B abbia detto “Sono in grado di continuare la serie” ma che una volta invitato a proseguire la sequenza se ne sia mostrato incapace, – diremo che ciò ha dimostrato che la sua asserzione, secondo la quale era in grado di continuare, era sbagliata o sosterremo che, mentre affermava di esserne capace, era davvero in grado di continuare? B stesso direbbe “Mi rendo conto di essermi sbagliato”, oppure “Ciò che ho detto era vero, in quel momento ne ero in grado, ma adesso non più”? – Ci sono casi in cui sarebbe giusto che dicesse la prima frase e casi in cui sarebbe giusto che dicesse la seconda. Immagina ''a'') quando ha detto di essere in grado di continuare, vedeva la formula nella propria mente, ma una volta che gli è stato chiesto di proseguire ha scoperto di essersela scordata; – oppure ''b'') quando ha detto di essere in grado di continuare aveva pronunciato tra sé e sé i cinque termini successivi della serie, ma adesso si accorge che non gli vengono più in mente; – oppure ''c'') prima ha continuato la serie calcolando altri cinque numeri, adesso ricorda solo questi cinque numeri ma non come ha fatto a calcolarli; – oppure ''d'') dice “Prima avevo l’impressione di essere in grado di continuare, adesso no”; – oppure ''e'') “Quando ho detto di essere in grado sollevare il peso, il braccio non mi faceva male, adesso invece sì”; ecc. | ||
D’altro canto diciamo | D’altro canto diciamo “Pensavo di poter sollevare questo peso, adesso mi accorgo che non ci riesco”, “Pensavo di essere in grado di recitare questa parte a memoria, ora mi rendo conto che mi sbagliavo”. | ||
A queste illustrazioni dell’utilizzo dell’espressione “essere in grado” bisognerebbe accompagnarne altre che mostrino la varietà dei nostri usi dei termini “dimenticare” e “tentare”, poiché tali impieghi sono strettamente connessi con l’espressione “essere in grado”. Considera i seguenti casi: ''a'') prima B ha recitato la formula tra sé, adesso | A queste illustrazioni dell’utilizzo dell’espressione “essere in grado” bisognerebbe accompagnarne altre che mostrino la varietà dei nostri usi dei termini “dimenticare” e “tentare”, poiché tali impieghi sono strettamente connessi con l’espressione “essere in grado”. Considera i seguenti casi: ''a'') prima B ha recitato la formula tra sé, adesso “Ha un vuoto mentale completo”. ''b'') Prima B ha recitato la formula tra sé, adesso per un attimo non sa più “se era 2<sup>''n''</sup> o 3<sup>''n''</sup>”. ''c'') Si è scordato un nome e ce l’ha “sulla punta della lingua”. Oppure ''d'') non è sicuro se il nome non l’ha mai saputo o se l’è solo dimenticato. | ||
Adesso prestiamo attenzione a come ci serviamo della parola “tentare”: ''a'') un uomo tenta di aprire una porta tirandola più forte che può; ''b'') tenta di aprire la porta di una cassaforte tentando di indovinarne la combinazione; ''c'') tenta di trovare la combinazione tentando di ricordarsela, oppure ''d'') girando la manopola e auscultando con uno stetoscopio. Considera i vari processi che chiamiamo “tentare di ricordare”. Paragona ''e'') tentare di muovere il dito contro una resistenza (per esempio qualcuno che lo trattiene) e ''f'') quando hai intrecciato le mani in un modo particolare e hai l’impressione di | Adesso prestiamo attenzione a come ci serviamo della parola “tentare”: ''a'') un uomo tenta di aprire una porta tirandola più forte che può; ''b'') tenta di aprire la porta di una cassaforte tentando di indovinarne la combinazione; ''c'') tenta di trovare la combinazione tentando di ricordarsela, oppure ''d'') girando la manopola e auscultando con uno stetoscopio. Considera i vari processi che chiamiamo “tentare di ricordare”. Paragona ''e'') tentare di muovere il dito contro una resistenza (per esempio qualcuno che lo trattiene) e ''f'') quando hai intrecciato le mani in un modo particolare e hai l’impressione di “Non sapere cosa fare per muovere un dito determinato”. | ||
(Considera anche la classe di casi in cui diciamo | (Considera anche la classe di casi in cui diciamo “Sarei in grado di fare questo-e-quello ma non lo farò”: “Se provassi, sarei in grado”, per esempio di sollevare cinquanta chili; “Se volessi, sarei in grado”, per esempio di recitare l’alfabeto.) | ||
Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che | Si potrebbe forse suggerire che l’unico caso in cui è corretto dire, senza restrizioni, che sono in grado di fare una certa cosa è quello in cui, mentre dico che sono in grado di farla, la faccio effettivamente, e che altrimenti sarebbe meglio affermare: “Per quanto riguarda…, sono in grado di farlo”. Si potrebbe essere propensi a credere che solo nel caso di cui sopra una persona ha dato davvero prova di essere in grado di fare una certa cosa. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “Sono in grado…” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra questo gioco e un gioco in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “Sono in grado di fare questo-e-questo” non c’è una differenza ''metafisica''. Un gioco del tipo di 65), comunque, ci mostra il vero impiego dell’espressione “Se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali è priva di significato, tranne che in casi molto particolari. | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49)) dotato di due espressioni per frasi quali | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49)) dotato di due espressioni per frasi quali “Sollevo un peso di venti chili”; una delle due è usata ogni volta che l’azione è eseguita come prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione non è eseguita come prova. | ||
Vediamo che una vasta rete di somiglianze familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che quel qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. – – | Vediamo che una vasta rete di somiglianze familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che quel qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. – – | ||
Ci sono, d’altro canto, ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. Detto approssimativamente, ciò è quanto dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente tentati di adottare, oppure, per metterla in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora per cui qualcosa è in un peculiare stato per dire che qualcosa può comportarsi in un particolare modo. E questo modo di rappresentazione, o questa metafora, si incarna in espressioni quali | Ci sono, d’altro canto, ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. Detto approssimativamente, ciò è quanto dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente tentati di adottare, oppure, per metterla in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora per cui qualcosa è in un peculiare stato per dire che qualcosa può comportarsi in un particolare modo. E questo modo di rappresentazione, o questa metafora, si incarna in espressioni quali “È capace di…”, “È in grado di moltiplicare numeri a molte cifre a mente”, “Sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo è usato ''al tempo presente'', suggerendo che si tratti di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla. | ||
La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso. | La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso. | ||
Tornando ora alla nostra discussione di 43), vediamo che non si trattava di una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni quando abbiamo detto che B ne era guidato se ''era in grado'' di eseguire anche ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quelle in 43). Infatti, nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui potremmo stabilirlo con certezza solo se fossimo in grado di esaminare il meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo chiameremmo il fatto che certe parti sono guidate da altre. In effetti il meccanismo che ci si suggerisce subito quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “il fatto di essere guidato dai segni” è un meccanismo del tipo della pianola. Nel funzionamento della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, che sono guidate dallo schema dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe usare l’espressione | Tornando ora alla nostra discussione di 43), vediamo che non si trattava di una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni quando abbiamo detto che B ne era guidato se ''era in grado'' di eseguire anche ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quelle in 43). Infatti, nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui potremmo stabilirlo con certezza solo se fossimo in grado di esaminare il meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo chiameremmo il fatto che certe parti sono guidate da altre. In effetti il meccanismo che ci si suggerisce subito quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “il fatto di essere guidato dai segni” è un meccanismo del tipo della pianola. Nel funzionamento della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, che sono guidate dallo schema dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe usare l’espressione “La pianola ''legge ad alta voce'' la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi potremmo chiamare gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola alla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano il profilo di una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il catenaccio di una serratura, ma non diremmo che il movimento del catenaccio è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e tacche, cioè non diremmo che il catenaccio si è mosso ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Qui vedi la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: diremmo infatti che la pianola ''è in grado'' di leggere ''qualunque'' schema di perforazioni di un certo tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme particolare di melodie (come un carillon), – mentre il catenaccio della serratura reagisce solo a quello schema del profilo della chiave che è predeterminato dalla costruzione della serratura. Potremmo dire che le tacche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che compongono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola. | ||
È evidente che sebbene possiamo usare le idee di tali meccanismi a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), nessun meccanismo del genere è effettivamente coinvolto in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto dell’espressione “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura è solo un uso in una famiglia di utilizzi, sebbene questi esempi possano servire metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi. | È evidente che sebbene possiamo usare le idee di tali meccanismi a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), nessun meccanismo del genere è effettivamente coinvolto in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto dell’espressione “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura è solo un uso in una famiglia di utilizzi, sebbene questi esempi possano servire metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi. | ||
Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” studiando l’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica minimamente la comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere la propria lingua, poi a leggere libri, riviste, lettere, ecc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono sulle parole stampate, le pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge solo osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremmo anche che ha letto una frase se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come ciò che potremmo chiamare una mera macchina da lettura, ovvero non prestare alcuna attenzione a ciò che dice, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, diremmo che legge se agisce con la stessa assenza di errori di una macchina affidabile. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se, guardando quest’esempio, ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremmo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo | Studiamo ora l’uso dell’espressione “essere guidato” studiando l’uso della parola “leggere”. Con “leggere” intendo qui l’atto di tradurre uno scritto in suoni e anche di scrivere sotto dettatura e di ricopiare una pagina stampata e altre attività simili; in questo senso leggere non implica minimamente la comprensione di ciò che si legge. L’impiego della parola “leggere” ci è di certo estremamente familiare nelle circostanze (che sarebbe difficilissimo descrivere pur in maniera abbozzata) della nostra vita quotidiana. Una persona, diciamo di nazionalità italiana, durante l’infanzia è stata sottoposta ai modi normali di addestramento a scuola o a casa, ha imparato a leggere la propria lingua, poi a leggere libri, riviste, lettere, ecc. Cosa succede quando legge un giornale? – I suoi occhi scorrono sulle parole stampate, le pronuncia ad alta voce o a se stesso, ma certe parole le legge solo osservando il loro schema nella sua interezza, altre le pronuncia dopo aver scorto appena le prime lettere, altre ancora le legge lettera per lettera. Diremmo anche che ha letto una frase se nel farci scivolare sopra gli occhi non ha non ha detto nulla né ad alta voce né a se stesso, ma a una domanda in merito a che cosa abbia letto è stato in grado di rispondere riproducendo la frase testualmente o in termini lievemente diversi. Costui potrebbe agire anche come ciò che potremmo chiamare una mera macchina da lettura, ovvero non prestare alcuna attenzione a ciò che dice, magari concentrando la propria attenzione su tutt’altro. In tale caso, diremmo che legge se agisce con la stessa assenza di errori di una macchina affidabile. – Paragona con questo esempio quello di un principiante, che legge le parole scandendole a fatica. Alcune però le indovina in base al contesto o forse sa il brano a memoria. L’insegnante allora gli dice che finge di leggere le parole, o che non le legge davvero. Se, guardando quest’esempio, ci chiedessimo in che cosa consiste leggere, saremmo propensi a dire che si tratta di un particolare atto mentale cosciente. Questo è il caso in cui diciamo “Solo lui sa se sta leggendo; nessun altro può saperlo davvero”. Eppure bisogna ammettere che, per quanto riguarda la lettura di una parola determinata, nella mente del principiante che “fingeva” di leggere potrebbe essere accaduta la stessa identica cosa verificatasi nella mente del lettore esperto mentre leggeva la parola in questione. Quando parliamo del lettore esperto, utilizziamo la parola “leggere” in modo diverso rispetto a quando parliamo del principiante. Ciò che in un caso chiamiamo un esempio di lettura non lo chiamiamo un esempio di lettura nell’altro. – Ovviamente siamo portati a dire che ciò che è accaduto nel lettore esperto e nel principiante quando hanno pronunciato la parola non può essere la stessa cosa. Se non nel loro stato cosciente, la differenza risiede nelle regioni inconsce delle rispettive menti, o nei loro cervelli. Immaginiamo qui due meccanismi, di cui siamo in grado di vedere il funzionamento interno, e questo funzionamento interno è il vero criterio per stabilire se una persona sta leggendo o no. In realtà però in simili casi nessun meccanismo del genere ci è noto. Consideriamo la questione così: | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=67}} Immagina che degli esseri umani o degli animali siano impiegati come macchine da lettura, presupponi che per diventare macchine da lettura abbiano bisogno di un addestramento particolare. L’uomo che li addestra dice di alcuni di loro che sanno già leggere, di altri che non sanno leggere. Prendiamo il caso di uno che finora non ha risposto all’addestramento. Se lo si mette davanti a una parola stampata talvolta emetterà dei suoni e ogni tanto capiterà “per caso” che tali suoni corrispondano più o meno alla parola stampata. Una terza persona sente l’allievo pronunciare il suono giusto mentre guarda la parola “tavolo”. La terza persona dice | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=67}} Immagina che degli esseri umani o degli animali siano impiegati come macchine da lettura, presupponi che per diventare macchine da lettura abbiano bisogno di un addestramento particolare. L’uomo che li addestra dice di alcuni di loro che sanno già leggere, di altri che non sanno leggere. Prendiamo il caso di uno che finora non ha risposto all’addestramento. Se lo si mette davanti a una parola stampata talvolta emetterà dei suoni e ogni tanto capiterà “per caso” che tali suoni corrispondano più o meno alla parola stampata. Una terza persona sente l’allievo pronunciare il suono giusto mentre guarda la parola “tavolo”. La terza persona dice “Legge”, ma l’insegnate ribatte “No, non legge, è solo un caso”. Immaginiamo però che, quando gli si mostrino altre parole e frasi, l’allievo continui a leggerle correttamente. Dopo un po’ l’insegnante dice “Adesso sì che sa leggere”. – Ma com’è la questione per quanto riguarda la prima parola “tavolo”? L’insegnante dovrebbe dire “Mi sbagliavo; ha letto anche quella”, oppure dovrebbe dire “No, è solo dopo che ha cominciato a leggere”? Quand’è che ha davvero iniziato a leggere, oppure: qual è stata la prima parola, o la prima lettera, che ha letto? È evidente che la presente domanda resta priva di senso a meno che io non aggiunga una spiegazione “artificiale” come la seguente: “La prima parola che legge = la prima parola delle prime cento parole consecutive che legge correttamente”. – Supponiamo invece di usare la parola “leggere” per distinguere tra il caso in cui un particolare processo conscio di scandire le parole ha luogo nella mente di una persona dal caso in cui invece non ha luogo: – allora, almeno la persona che legge saprebbe dire che la tale-o-talaltra parola è stata la prima che ha effettivamente letto. – Inoltre, nel caso diverso di una macchina da lettura che è un meccanismo di connessione tra segni e reazioni a tali segni, quindi per esempio in quello della pianola, potremmo dire “solo dopo che alla macchina è stata fatta questa-e-questa cosa, per esempio dopo che certe parti sono state connesse con dei cavi, la macchina ha davvero letto; la prima lettera che ha letto è stata una ''d''”. – – | ||
Nel caso 67) con il definire certe creature “macchine da lettura” abbiamo inteso soltanto che reagiscono in una maniera specifica al vedere dei segni stampati. Nessuna connessione tra vedere e reagire, nessun meccanismo interno fa qui il suo ingresso. Sarebbe assurdo se, alla domanda se il suo allievo abbia letto o meno la parola “tavolo”, l’addestratore avesse risposto | Nel caso 67) con il definire certe creature “macchine da lettura” abbiamo inteso soltanto che reagiscono in una maniera specifica al vedere dei segni stampati. Nessuna connessione tra vedere e reagire, nessun meccanismo interno fa qui il suo ingresso. Sarebbe assurdo se, alla domanda se il suo allievo abbia letto o meno la parola “tavolo”, l’addestratore avesse risposto “Magari l’ha letta”, perché in questo caso non ci sono dubbi su quel che ha fatto. Quello che ha avuto luogo è un cambiamento che potremmo chiamare un cambiamento del comportamento generale dell’allievo, e in questo caso non abbiamo dato un significato all’espressione “La prima parola della nuova era”. (Paragona questo al caso seguente: | ||
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Nella figura una fila di puntini separati da ampi intervalli segue una fila di puntini separati da intervalli brevi. Qual è l’ultimo puntino della prima sequenza e qual è il primo della seconda? Immagina che i puntini siano fori nel disco rotante di una sirena. In tal caso sentiremmo un suono acuto seguito da un suono grave (o il contrario). Chiediti: in quale momento comincia il suono grave e finisce l’altro?) | Nella figura una fila di puntini separati da ampi intervalli segue una fila di puntini separati da intervalli brevi. Qual è l’ultimo puntino della prima sequenza e qual è il primo della seconda? Immagina che i puntini siano fori nel disco rotante di una sirena. In tal caso sentiremmo un suono acuto seguito da un suono grave (o il contrario). Chiediti: in quale momento comincia il suono grave e finisce l’altro?) | ||
Tuttavia si è fortemente tentati di considerare l’atto mentale conscio quale unico vero criterio che distingue il fatto di leggere dal fatto di non leggere. Poiché siamo propensi a dire | Tuttavia si è fortemente tentati di considerare l’atto mentale conscio quale unico vero criterio che distingue il fatto di leggere dal fatto di non leggere. Poiché siamo propensi a dire “Di sicuro un uomo sa sempre se sta leggendo o fingendo di leggere”, oppure “Di sicuro uno lo sa se sta leggendo davvero”. Se A nel tentativo di far credere a B di essere in grado di leggere un testo in cirillico lo imbroglia imparando una frase russa a memoria e pronunciandola guardando il suo equivalente scritto, possiamo certo dire che A sa di fingere e che il non leggere in questo caso si caratterizza per una specifica esperienza personale, cioè quella del recitare la frase a memoria. Inoltre, se nel recitare a memoria A commette un errore, quest’esperienza sarà diversa da quella di una persona che inciampa nella ''lettura.'' | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=69}} Oppure immagina il caso seguente: a un uomo sotto l’effetto di una certa droga si mostra un insieme di cinque segni che non sono lettere di alcun alfabeto esistente; guardandoli con tutti i segni esteriori e le esperienze personali dello scandire una parola costui pronuncia “SOPRA”. (Cose di questo genere accadono nei sogni. Al risveglio diciamo | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=69}} Oppure immagina il caso seguente: a un uomo sotto l’effetto di una certa droga si mostra un insieme di cinque segni che non sono lettere di alcun alfabeto esistente; guardandoli con tutti i segni esteriori e le esperienze personali dello scandire una parola costui pronuncia “SOPRA”. (Cose di questo genere accadono nei sogni. Al risveglio diciamo “Mi sembrava di leggere dei segni, ma in realtà non erano segni affatto”). In un caso simile alcuni sarebbero propensi a dire che il soggetto legge, altri che non legge. Potremmo immaginare che, dopo che l’uomo ha scandito la parola “sopra”, gli si mostrino altre combinazioni di quei cinque segni e che lui le legga in un modo coerente con quello in cui ha letto la prima sequenza di segni che gli abbiamo fatto vedere. Con una serie di prove simili potremmo scoprire che si è servito di quello che chiameremmo un alfabeto immaginario. Se andasse davvero così, saremmo inclini a dire “Legge” piuttosto che “Immagina di leggere, ma in realtà non legge”. | ||
Nota anche che esiste una serie continua di casi intermedi tra il caso in cui una persona sa a memoria la scritta stampata che si trova davanti e il caso in cui scandisce le lettere di ogni parola senza mai aiutarsi indovinando in base al contesto, in base a ciò che sa a memoria, e simili. | Nota anche che esiste una serie continua di casi intermedi tra il caso in cui una persona sa a memoria la scritta stampata che si trova davanti e il caso in cui scandisce le lettere di ogni parola senza mai aiutarsi indovinando in base al contesto, in base a ciò che sa a memoria, e simili. | ||
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Fai questo: recita a memoria la serie dei numeri cardinali da uno a dodici. – Adesso guarda il quadrante dell’orologio e ''leggi'' la sequenza dei numeri. Chiediti in questo caso cosa hai chiamato leggere, cioè che ha cosa hai fatto trasformarlo in leggere. | Fai questo: recita a memoria la serie dei numeri cardinali da uno a dodici. – Adesso guarda il quadrante dell’orologio e ''leggi'' la sequenza dei numeri. Chiediti in questo caso cosa hai chiamato leggere, cioè che ha cosa hai fatto trasformarlo in leggere. | ||
Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “{{Nowrap|– – · · –}}” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o gli spartiti in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, i movimenti fatti seguendo segni come “{{Nowrap|– – · · –}}”, i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.). Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremmo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo usare l’espressione | Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “{{Nowrap|– – · · –}}” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o gli spartiti in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, i movimenti fatti seguendo segni come “{{Nowrap|– – · · –}}”, i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.). Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremmo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo usare l’espressione “Gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”.) | ||
Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in questo modo, quest’altra in quest’altro, ecc., e che lui poi ha letto ad alta voce le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene da sé è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà senz’altro più chiaro se modifichiamo l’esempio e | Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in questo modo, quest’altra in quest’altro, ecc., e che lui poi ha letto ad alta voce le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene da sé è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà senz’altro più chiaro se modifichiamo l’esempio e | ||
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=70}} presupponiamo che il nostro soggetto legga da un testo trascrivendolo, diciamo, dallo stampatello al corsivo. In questo caso possiamo infatti immaginare che costui abbia ricevuto la regola dell’alfabeto nella forma di una tabella che mostra l’alfabeto in stampatello e quello in corsivo in colonne parallele. Allora il fatto di ''derivare'' la copia dal testo lo concepiremo così: per ogni lettera la persona che copia guarda la tabella a intervalli frequenti, oppure dice tra sé cose come | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=70}} presupponiamo che il nostro soggetto legga da un testo trascrivendolo, diciamo, dallo stampatello al corsivo. In questo caso possiamo infatti immaginare che costui abbia ricevuto la regola dell’alfabeto nella forma di una tabella che mostra l’alfabeto in stampatello e quello in corsivo in colonne parallele. Allora il fatto di ''derivare'' la copia dal testo lo concepiremo così: per ogni lettera la persona che copia guarda la tabella a intervalli frequenti, oppure dice tra sé cose come “Com’è la ''a'' minuscola?”, oppure cerca di visualizzare la tabella senza però guardarla. | ||
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=73}} non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n”, la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo | {{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=73}} non sia rimasto coerente con tale modo di trascrizione. Infatti l’ha cambiato, ma in base a una semplice regola: dopo aver trascritto “A” in “n”, la “A” seguente l’ha trascritta in “o” e la “A” ancora successiva in “p” e avanti così. Dov’è il confine netto tra tale procedura e quella di produrre una trascrizione priva di qualunque sistematicità? A questo si potrebbe obiettare dicendo “Nel caso 71) tu hai ovviamente ipotizzato che avesse ''compreso la tabella in maniera diversa''; che non la capisse nella maniera normale”. Ma cos’è che chiamiamo “comprendere la tabella in una maniera particolare?” Qualunque processo tu immagini sia questo “comprendere”, è solo un altro anello intermedio inserito tra i processi esterni e interni di derivazione che ho descritto e la trascrizione effettiva. In realtà questo processo di comprensione potrebbe ovviamente essere descritto per mezzo di uno schema del tipo di quello impiegato in 71), e si potrebbe dire allora che in un caso specifico il nostro soggetto abbia guardato la tabella così: | ||
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Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva. | Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva. | ||
Quindi diciamo “con | Quindi diciamo “con ‘chilogrammo’ intendo il peso di un litro d’acqua”, “con ‘A’ intendo ‘B’”, dove B è una spiegazione di A. C’è però anche l’uso intransitivo: “ho detto che ero malato e lo intendevo davvero”. Qui di nuovo si potrebbe chiamare il fatto di intendere ciò che si dice “ripercorrerlo”, “enfatizzarlo”. Ma l’uso di “intendere” in questa frase fa sembrare che debba aver senso chiedere “che ''cosa'' intendevi?” e rispondere “con quello che ho detto intendevo quello che ho detto”; trattando il caso di “intendo ciò che dico” come un caso speciale di “dicendo ‘A’ intendo ‘B’”. In effetti si usa l’espressione “intendo ciò che intendo” per dire “non ho una spiegazione in merito”. La domanda “che cosa si intende con questa frase ''p''?”, se non chiede una traduzione di ''p'' in altri simboli, non ha più senso della domanda “quale frase risulta da questa sequenza di parole?”. | ||
Immagina che alla domanda “che cos’è un | Immagina che alla domanda “che cos’è un chilogrammo?” io risponda “è quanto pesa un litro d’acqua” e che allora qualcuno mi chieda “be’, quanto pesa un litro d’acqua?”. – – | ||
Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso”, “sono quello che sono”, “le cose sono quelle che sono”, oppure “se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “la cosa è risolta” con “se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “la cosa è risolta” dirò “la questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “se è così è così” è sottolineare il “così”. | Spesso adoperiamo la forma riflessiva del discorso come mezzo per enfatizzare qualcosa. In tutti questi casi le nostre espressioni riflessive possono venir “raddrizzate”. Quindi impieghiamo l’espressione “se non posso, non posso”, “sono quello che sono”, “le cose sono quelle che sono”, oppure “se è così è così”. Quest’ultima espressione ho lo stesso significato di “la cosa è risolta”, ma perché dovremmo rimpiazzare “la cosa è risolta” con “se è così è così”? Si può rispondere disponendo davanti a noi una serie di interpretazioni che operano una transizione tra le due espressioni. Dunque al posto di “la cosa è risolta” dirò “la questione è chiusa”. Questa espressione, per così dire, archivia la faccenda e la chiude in un cassetto. E archiviarla è come disegnarci attorno una linea, come a volte si fa con il risultato di un calcolo per marcarlo come definitivo. Ma ciò lo mette anche in rilievo, è un modo di enfatizzarlo. E ciò che fa l’espressione “se è così è così” è sottolineare il “così”. |