Libro marrone: Difference between revisions

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Quando chiamiamo i tre casi citati casi di confronto a memoria, sentiamo che la loro descrizione è in un certo senso insoddisfacente o incompleta. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ci ha fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, sarebbe ciò che potremmo chiamare un’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Ora è curioso che, se si osservano da vicino alcuni casi di confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti ''più o meno'' caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia di confronto mediante un campione posto davanti ai nostri occhi. Conosciamo un ''gran'' numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi che accompagnano il fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e molte altre esperienze. Più casi simili osserviamo, e con maggior attenzione li guardiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza mentale caratteristica del confrontare. Infatti, se, dopo aver esaminato ''da vicino'' una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu ora avresti l’impressione che l’ipotesi di questa esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché questa esperienza è stata posta accanto a un gran numero di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo che invece è stato assunto dalla massa di esperienze che ci ha rivelato la nostra analisi: non volevamo che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze ''più o meno'' caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno, per così dire, da vicino, l’altro come da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera peculiare.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro impiego effettivo della parola “confrontare” è diverso da quello che eravamo portati a credere guardando da lontano. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è un gran numero di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre.
Quando chiamiamo i tre casi citati casi di confronto a memoria, sentiamo che la loro descrizione è in un certo senso insoddisfacente o incompleta. Ci viene da dire che la descrizione ha tralasciato l’elemento essenziale di un simile processo e ci ha fornito invece solo i suoi aspetti accessori. L’elemento essenziale, ci pare, sarebbe ciò che potremmo chiamare un’esperienza specifica del confronto e del riconoscimento. Ora è curioso che, se si osservano da vicino alcuni casi di confronto, è molto facile scorgere un gran numero di attività e stati mentali, tutti ''più o meno'' caratteristici dell’atto del confronto. Ciò accade sia che parliamo di confronto a memoria sia di confronto mediante un campione posto davanti ai nostri occhi. Conosciamo un ''gran'' numero di tali processi, processi simili l’uno all’altro in un gran numero di modi diversi. Teniamo assieme o vicini i pezzi di cui vogliamo confrontare i colori per un tempo più lungo o più breve, li guardiamo alternativamente o contemporaneamente, li mettiamo sotto luci differenti, nel farlo diciamo cose diverse, abbiamo immagini mnemoniche, sensazioni di tensione e di rilassamento, soddisfazione e insoddisfazione, le varie sensazioni di irrigidimento negli occhi e attorno agli occhi che accompagnano il fissare a lungo lo stesso oggetto e tutte le possibili combinazioni tra queste e molte altre esperienze. Più casi simili osserviamo, e con maggior attenzione li guardiamo, più ci sembra difficile trovare un’unica esperienza mentale caratteristica del confrontare. Infatti, se, dopo aver esaminato ''da vicino'' una quantità di casi come questi, io ammettessi che esiste una particolare esperienza mentale che si potrebbe chiamare l’esperienza del confronto e che se tu insistessi io dovrei adottare la parola “confronto” solo in quei casi in cui si è verificata tale sensazione specifica, tu ora avresti l’impressione che l’ipotesi di questa esperienza caratteristica abbia perso il suo senso, perché questa esperienza è stata posta accanto a un gran numero di altre esperienze e, dopo aver esaminato i casi, pare che sia proprio tale enorme varietà ciò che davvero unisce tutti i casi di confronto. Poiché “l’esperienza specifica” che stavamo cercando avrebbe dovuto rivestire il ruolo che invece è stato assunto dalla massa di esperienze che ci ha rivelato la nostra analisi: non volevamo che l’esperienza specifica fosse soltanto una tra tante esperienze ''più o meno'' caratteristiche. (Si potrebbe dire che ci sono due modi di guardare alla questione, uno, per così dire, da vicino, l’altro come da lontano e attraverso la mediazione di un’atmosfera peculiare.) In realtà abbiamo scoperto che il nostro impiego effettivo della parola “confrontare” è diverso da quello che eravamo portati a credere guardando da lontano. Scopriamo che ciò che lega tutti i casi di confronto è un gran numero di somiglianze accavallate e appena ce ne rendiamo conto non sentiamo più l’impellenza di dire che ci deve essere un elemento comune a tutte queste esperienze. Ciò che lega la nave al molo è la corda e la corda è fatta di fibre, ma la sua forza non deriva da nessuna fibra che la attraversa da cima in fondo, bensì dall’accavallarsi di un ingente numero di fibre.


“Certamente però nel caso 14''c'') B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Non aveva ragioni per sceglierla. Se ha scelto quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non abbiamo negato che nel caso 14''c'') B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui ha scelo o quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari e tattili e simili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Cioè: che aspetto ''immaginiamo'' che avrebbe?) Penso che dovremmo dire che il contrario del confronto automatico, cioè per così dire il caso ideale del confronto consapevole, era quello in cui si aveva di fronte all’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida o quello in cui si vedeva un campione reale e si aveva la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Penso che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. Questa sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze della vista del campione, da una parte, e il materiale, dall’altra. Ma allora che cosa connette quest’esperienza specifica a ciascuna di quelle due cose? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non intendiamo dire che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari; per esempio se in una data circostanza ci chiedono “questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi possiamo essere giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a dare come spiegazione che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''nel caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però potremmo distinguere i modi in cui appare un’immagine mnemonicatra tra un modo automatico e un modo non-automatico, ecc.
“Certamente però nel caso 14''c'') B ha agito in maniera completamente automatica. Se davvero tutto ciò che è successo è quanto descritto qui, B non sapeva perché ha scelto la striscia che ha scelto. Non aveva ragioni per sceglierla. Se ha scelto quella giusta, l’ha fatto come una macchina”. La nostra prima risposta è che non abbiamo negato che nel caso 14''c'') B ha avuto quella che dovremmo chiamare un’esperienza personale, poiché non abbiamo detto che non ha visto i materiali tra cui ha scelto o quello che ha scelto, e neppure che nell’esaminarli non ha avuto sensazioni muscolari e tattili e simili. E allora quale sarebbe una ragione in grado di giustificare la sua scelta e renderla non-automatica? (Cioè: che aspetto ''immaginiamo'' che avrebbe?) Penso che dovremmo dire che il contrario del confronto automatico, cioè per così dire il caso ideale del confronto consapevole, era quello in cui si aveva di fronte all’occhio della mente un’immagine mnemonica nitida o quello in cui si vedeva un campione reale e si aveva la sensazione determinata di non riuscire a distinguere tra questi campioni e il materiale scelto. Penso che tale sensazione determinata sia la ragione, la giustificazione della scelta. Questa sensazione specifica, si potrebbe dire, connette le due esperienze della vista del campione, da una parte, e il materiale, dall’altra. Ma allora che cosa connette quest’esperienza specifica a ciascuna di quelle due cose? Noi non neghiamo che una simile esperienza possa intervenire. Ma a esaminarla come abbiamo appena fatto, la distinzione tra automatico e non-automatico non ci appare più netta e definitiva come ci sembrava prima. Non intendiamo dire che tale distinzione smetta di avere valore pratico in casi particolari; per esempio se in una data circostanza ci chiedono “questa striscia l’hai presa dallo scaffale in maniera automatica, oppure ci hai pensato su?”, noi possiamo essere giustificati a rispondere che non abbiamo agito automaticamente e a dare come spiegazione che abbiamo guardato attentamente il materiale, abbiamo cercato di rammentare l’immagine mnemonica dello schema e abbiamo espresso a noi stessi dubbi e decisioni. Ciò può ''nel caso particolare'' fungere da distinguo tra automatico e non-automatico. In un altro caso però potremmo distinguere i modi in cui appare un’immagine mnemonica tra un modo automatico e un modo non-automatico, ecc.


Se il nostro caso 14''c'') ti turba, magari sarai portato a dire: “Ma ''perché'' ha portato proprio questa striscia di materiale? Come l’ha riconosciuta in quanto quella giusta? In base a che cosa?” – Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta nelle condizioni date. È compito delle scienze sperimentali vagliare ipotesi simili. Se invece ti interessa la ragione, la risposta è “Non ci deve essere stata per forza una ragione della scelta. Una ragione è un passo che precede il passo della scelta. Ma perché ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”
Se il nostro caso 14''c'') ti turba, magari sarai portato a dire: “Ma ''perché'' ha portato proprio questa striscia di materiale? Come l’ha riconosciuta in quanto quella giusta? In base a che cosa?” – Se chiedi “perché”, è della causa o della ragione che vuoi sapere? Se ti interessa la causa, è abbastanza facile concepire un’ipotesi fisiologica o psicologica che spiega la scelta nelle condizioni date. È compito delle scienze sperimentali vagliare ipotesi simili. Se invece ti interessa la ragione, la risposta è “Non ci deve essere stata per forza una ragione della scelta. Una ragione è un passo che precede il passo della scelta. Ma perché ogni passo dovrebbe essere preceduto da un altro passo?”
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi se gli si mostra la lettera ''a''?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Il fatto che in 38) e in 39) l’addestramento ''precedeva'' l’esecuzione dell’ordine non cambia infatti il processo della sua esecuzione. Ovverossia “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Ma ''potrebbe'' un tale meccanismo essere innato?” Hai però riscontrato qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato ''quel'' meccanismo che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o spiegazione dei segni abcd data nella tabella 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire una tabella, e avanti così. (Cfr. 21).)
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=40}} in cui nemmeno questo addestramento è necessario e in cui, per così dire, l’aspetto delle lettere abcd ha generato naturalmente l’impulso a muoversi nella maniera descritta. Di primo acchito una causa simile ci lascia perplessi. Sembra che si stia presupponendo un’operazione mentale particolarmente bizzarra. Oppure ci viene da chiedere “lui come diavolo fa a sapere in quale direzione muoversi se gli si mostra la lettera ''a''?” Ma in questo caso la reazione di B non è identica a quella descritta in 37) e 38) e in fondo anche alla nostra reazione tipica quando sentiamo un ordine e obbediamo? Il fatto che in 38) e in 39) l’addestramento ''precedeva'' l’esecuzione dell’ordine non cambia infatti il processo della sua esecuzione. In altre parole “il curioso meccanismo mentale” presupposto in 40) non è altro che ciò che in 37) e 38) abbiamo ipotizzato quale risultato dell’addestramento. “Ma ''potrebbe'' un tale meccanismo essere innato?” Hai però riscontrato qualche difficoltà nel presupporre che in B fosse innato ''quel'' meccanismo che gli ha permesso di rispondere all’addestramento nel modo corretto? Ricorda che la regola o spiegazione dei segni abcd data nella tabella 33) non era essenzialmente l’ultima e che per l’utilizzo delle tabelle in questione avremmo potuto fornire una tabella, e avanti così. (Cfr. 21).)


Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “vai da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Questo esempio mostra semplicemente gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
Come si spiega a qualcuno come eseguire l’ordine “vai da ''questa'' parte!” (indicando con una freccia la direzione in cui si vuole che vada)? Ciò non potrebbe significare l’andare nella direzione che noi chiameremmo contraria a quella della freccia? Ogni spiegazione su come si deve seguire la freccia non fa le veci di un’altra freccia? Che cosa ribatteresti alla spiegazione seguente: un uomo dice “se indico da questa parte (indicando con la mano destra) intendo che tu ti muova così (indicando con la mano sinistra nella stessa direzione)”? Questo esempio mostra semplicemente gli estremi tra cui variano gli usi dei segni.
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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=42}} A dà ordini a B: si tratta di segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “{{Nowrap|– ·}}” va espletato alternando un passo e un saltello; l’ordine “{{Nowrap|· · – – –}}” alternando due saltelli e tre passi, ecc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini”. – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Gli ordini dati nella pratica del gioco, non importa quali siano, costituiscono tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire “limitato” sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30)). Cfr. questo gioco con il seguente:
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=42}} A dà ordini a B: si tratta di segni scritti composti di puntini e trattini e B li esegue compiendo coreografie di danza composte di figure specifiche. Dunque l’ordine “{{Nowrap|– ·}}” va espletato alternando un passo e un saltello; l’ordine “{{Nowrap|· · – – –}}” alternando due saltelli e tre passi, ecc. L’addestramento a tale gioco è “generico” nel senso illustrato in 41); mi piacerebbe dire che “gli ordini dati non si muovono in un intervallo limitato. Includono combinazioni di qualunque quantità di puntini e trattini”. – Ma che cosa significa che gli ordini non si muovono in un intervallo limitato? Non è insensato? Gli ordini dati nella pratica del gioco, non importa quali siano, costituiscono tale intervallo limitato. – Be’, ciò che intendevo con “gli ordini non si muovono in un intervallo limitato” era che né nell’insegnamento del gioco né nella sua pratica una limitazione dell’intervallo ricopre un ruolo “predominante” (vedi 30)) oppure, in altri termini, che l’intervallo del gioco (dire “limitato” sarebbe qui superfluo) è semplicemente l’estensione della sua pratica effettiva (“accidentale”). (In questo il nostro gioco è uguale a 30).) Cfr. questo gioco con il seguente:




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{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “sono in grado…” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra questo gioco e un gioco in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “sono in grado di fare questo-e-qiesto” non c’è una differenza ''metafisica''. Un gioco del tipo di 65), comunque, ci mostra il vero impiego dell’espressione “se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali è priva di significato, tranne che in casi molto particolari.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=65}} Se però osserviamo un gioco linguistico in cui l’espressione “sono in grado…” è usata in questo modo (per esempio un gioco in cui fare una certa cosa è considerata l’unica giustificazione dell’asserire di essere in grado di farla), notiamo che tra questo gioco e un gioco in cui si accettano altre giustificazioni per l’affermazione “sono in grado di fare questo-e-questo” non c’è una differenza ''metafisica''. Un gioco del tipo di 65), comunque, ci mostra il vero impiego dell’espressione “se qualcosa succede sicuramente può succedere”; espressione quasi inutile del nostro linguaggio. Sembra avere un significato molto chiaro e profondo, ma come la maggioranza delle proposizioni filosofiche generali è priva di significato, tranne che in casi molto particolari.




{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49)) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti chili”; una delle due è usata ogni volta che l’azione è eseguita come prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione non è eseguita come prova.
{{ParBBit|color=brown |part=1 |paragraph=66}} Chiariscilo a te stesso immaginando un linguaggio (simile a 49)) dotato di due espressioni per frasi quali “sollevo un peso di venti chili”; una delle due è usata ogni volta che l’azione è eseguita come prova (per esempio una gara sportiva), l’altra quando invece l’azione non è eseguita come prova.


Vediamo che una vasta rete di sominglianze familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che quel qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. – –
Vediamo che una vasta rete di somiglianze familiari connette i casi in cui sono impiegate le espressioni di possibilità “potere”, “essere in grado di”, ecc. Certi elementi caratteristici, diremmo, in questi casi appaiono in combinazioni diverse: c’è per esempio l’elemento della congettura (che qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); la descrizione dello stato di qualcosa (in quanto condizione del fatto che quel qualcosa in futuro si comporterà in un certo modo); il resoconto di certe prove superate da qualcuno o da qualcosa. – –


Ci sono, d’altro canto, ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. Detto approssimativamente, ciò è quanto dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente tentati di adottare, oppure, per metterla in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora per cui qualcosa è in un peculiare stato per dire che qualcosa può comportarsi in un particolare modo. E questo modo di rappresentazione, o questa metafora, si incarna in espressioni quali “è capace di…”, “è in grado di moltiplicare numeri a molte cifre a mente”, “sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo è usato ''al tempo presente'', suggerendo che si tratti di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla.
Ci sono, d’altro canto, ragioni che ci portano a considerare il fatto che qualcosa è possibile, che qualcuno è in grado di fare qualcosa, ecc., alla stregua del fatto che costui o la tal cosa si trovano in uno stato specifico. Detto approssimativamente, ciò è quanto dire che “A è nello stato di essere in grado di fare qualcosa” è la forma di rappresentazione che siamo più fortemente tentati di adottare, oppure, per metterla in un altro modo, siamo fortemente propensi a utilizzare la metafora per cui qualcosa è in un peculiare stato per dire che qualcosa può comportarsi in un particolare modo. E questo modo di rappresentazione, o questa metafora, si incarna in espressioni quali “è capace di…”, “è in grado di moltiplicare numeri a molte cifre a mente”, “sa giocare a scacchi”: in queste frasi il verbo è usato ''al tempo presente'', suggerendo che si tratti di descrizioni di stati esistenti nel momento in cui si parla.
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La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.
La stessa tendenza si manifesta quando chiamiamo l’abilità di risolvere un problema matematico, l’abilità di apprezzare un brano musicale, ecc., altrettanti stati mentali; con quest’espressione non intendiamo “fenomeni mentali coscienti”. Piuttosto, uno stato mentale in questo senso è lo stato di un meccanismo ipotetico, un modello della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. (Cose come stati mentali inconsci o consci appartengono al ''modello'' della mente.) In questo modo, anche, fatichiamo a non concepire la memoria come una specie di magazzino. Nota anche quanto la gente (pur non sapendo quasi nulla di tali corrispondenze psicofisiologiche) è sicura che alla capacità di eseguire addizioni o moltiplicazioni o di recitare una poesia a memoria, ecc., ''debba'' corrispondere un particolare stato del cervello della persona. Abbiamo una tendenza soverchiante a concepire i fenomeni che effettivamente osserviamo in questi casi tramite il simbolo di un meccanismo di cui tali fenomeni sono le manifestazioni; e la loro possibilità è la costruzione particolare del meccanismo stesso.


Tornando ora alla nostra discussione di 43), vediamo che  non si trattava di una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni quando abbiamo detto che B ne era giuidato se ''era in grado'' di eseguire anche ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quelle in 43). Infatti, nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui potremmo stabilirlo con certezza solo se fossimo in grado di esaminare il meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo chiameremmo il fatto che certe parti sono guidate da altre. In effetti il meccanismo che ci si suggerisce subito quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “il fatto di essere guidato dai segni” è un meccanismo del tipo della pianola. Nel funzionamento della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, che sono guidate dallo schema dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe usare l’espressione “la pianola ''legge ad alta voce'' la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi potremmo chiamare gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola alla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano il profilo di una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il cetenaccio di una serratura, ma non diremmo che il movimento del catenaccio è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e tacche, cioè non diremmo che il catenaccio si è mosso ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Qui vedi la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: diremmo infatti che la pianola ''è in grado'' di leggere ''qualunque'' schema di perforazioni di un certo tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme particolare di melodie (come un carillon), – mentre il catenaccio della serratura reagisce solo a quello schema del profilo della chiave che è predeterminato dalla costruzione della serratura. Potremmo dire che le tacche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che compongono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.
Tornando ora alla nostra discussione di 43), vediamo che  non si trattava di una vera e propria spiegazione del fatto che B era guidato dai segni quando abbiamo detto che B ne era guidato se ''era in grado'' di eseguire anche ordini consistenti in altre combinazioni di puntini e trattini rispetto a quelle in 43). Infatti, nel considerare la questione se B in 43) fosse guidato dai segni o meno, eravamo sempre propensi a fare asserzioni come quella secondo cui potremmo stabilirlo con certezza solo se fossimo in grado di esaminare il meccanismo effettivo che connette il vedere i segni con l’agire seguendo i segni. Perché abbiamo un’immagine definita di ciò che in un meccanismo chiameremmo il fatto che certe parti sono guidate da altre. In effetti il meccanismo che ci si suggerisce subito quando vogliamo mostrare ciò che in un caso come 43) chiameremmo “il fatto di essere guidato dai segni” è un meccanismo del tipo della pianola. Nel funzionamento della pianola abbiamo l’esempio evidente di certe azioni, quelle dei martelletti del piano, che sono guidate dallo schema dei fori del rotolo della pianola. Si potrebbe usare l’espressione “la pianola ''legge ad alta voce'' la registrazione fatta dalle perforazioni nel rotolo” e noi potremmo chiamare gli schemi di tali perforazioni ''segni complessi'' o ''frasi'', contrapponendo la loro funzione in una pianola alla funzione che simili congegni hanno in meccanismi di tipo diverso, per esempio la combinazione di tacche e denti che formano il profilo di una chiave. Con quest’ultima combinazione si fa scivolare il catenaccio di una serratura, ma non diremmo che il movimento del catenaccio è stato guidato dal modo in cui abbiamo combinato denti e tacche, cioè non diremmo che il catenaccio si è mosso ''in base'' allo schema del profilo della chiave. Qui vedi la connessione tra l’idea dell’essere guidato e l’idea dell’essere in grado di leggere nuove combinazioni di segni: diremmo infatti che la pianola ''è in grado'' di leggere ''qualunque'' schema di perforazioni di un certo tipo, non è costruita per una melodia particolare o per un insieme particolare di melodie (come un carillon), – mentre il catenaccio della serratura reagisce solo a quello schema del profilo della chiave che è predeterminato dalla costruzione della serratura. Potremmo dire che le tacche e i denti che formano il profilo della chiave non sono paragonabili alle parole che compongono una frase bensì alle lettere che compongono una parola e che lo schema del profilo della chiave in questo senso non corrisponde a un segno complesso, a una frase, bensì a una parola.


È evidente che sebbene possiamo usare le idee di tali meccanismi a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), nessun meccanismo del genere è effettivamente coinvolto in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto dell’espressione “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura è solo un uso in una famiglia di utilizzi, sebbene questi esempi possano servire metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi.
È evidente che sebbene possiamo usare le idee di tali meccanismi a mo’ di similitudini per descrivere il modo in cui B agisce nei giochi 42) e 43), nessun meccanismo del genere è effettivamente coinvolto in questi giochi. Dovremo dire che l’uso che abbiamo fatto dell’espressione “essere guidato” nei nostri esempi della pianola e della serratura è solo un uso in una famiglia di utilizzi, sebbene questi esempi possano servire metafore, modi di rappresentazione, per altri utilizzi.
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Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “{{Nowrap|– – · · –}}” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o gli spartiti in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, i movimenti fatti seguendo segni come “{{Nowrap|– – · · –}}”, i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.). Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremmo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo usare l’espressione “gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”.)
Tentiamo la spiegazione seguente: una persona legge se ''deriva'' la copia che produce dal modello che sta copiando. (Mi servirò della parola “modello” per intendere ciò da cui la persona legge, per esempio le frasi stampate che sta leggendo o copiando per iscritto, o segni come “{{Nowrap|– – · · –}}” in 42) e 43) che sta “leggendo” con i propri movimenti, o gli spartiti in base ai quali suona un pianista, ecc. Con la parola “copia” intendo la frase pronunciata o scritta in base a quella stampata, i movimenti fatti seguendo segni come “{{Nowrap|– – · · –}}”, i movimenti delle dita del pianista o la melodia suonata in base allo spartito, ecc.). Quindi se insegnassimo a un soggetto l’alfabeto cirillico con la relativa pronuncia di ciascuna lettera e poi gli fornissimo un testo stampato in cirillico e, come gli abbiamo insegnato a fare, lui lo scandisse pronunciando correttamente ogni lettera, indubbiamente diremmo che ha derivato i suoni di ogni parola dall’alfabeto scritto e parlato insegnatogli. E questo sarebbe un caso evidente di lettura. (Potremmo usare l’espressione “gli abbiamo insegnato la ''regola'' dell’alfabeto”.)


Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in questo modo, quest’altra in quest'altro, ecc., e che lui poi ha letto ad alta voce le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene da sé è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà sen'altro più chiaro se modifichiamo l’esempio e
Ma che cos’è che ci ha fatto dire che ha ''derivato'' le parole pronunciate da quelle stampate per mezzo della regola dell’alfabeto? Tutto ciò che sappiamo non si riduce al fatto che gli abbiamo detto che la tale lettera la si pronuncia in questo modo, quest’altra in quest'altro, ecc., e che lui poi ha letto ad alta voce le parole stampate in cirillico? La risposta che ci viene da sé è che il soggetto deve averci in qualche modo mostrato di aver effettivamente compiuto la transizione dalle parole stampate a quelle pronunciate per mezzo della regola dell’alfabeto da noi fornitagli. Ciò che intendiamo dicendo che ce l’ha mostrato diventerà senz'altro più chiaro se modifichiamo l’esempio e




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Ma questo allora significa che in realtà la parola “derivare” (o “comprendere”) è priva di significato, visto che, a esaminanrlo, tale significato pare affievolirsi nel nulla? Nel caso 70) il significato di “derivare” emergeva con una certa chiarezza, però ci siamo detti che si trattava solo di un caso speciale di derivazione. Ci è sembrato che l’essenza del processo di derivare vi fosse presentata in una veste particolare e che levandogliela saremmo giunti all’essenza. In 71), 72), 73) abbiamo cercato di spogliare il nostro caso di quel che sembrava il suo costume particolare, solo per poi scoprire che quelli che ci erano parsi meri rivestimenti ne erano invece gli elementi essenziali. (Abbiamo agito come se, per trovare il vero carciofo, gli avessimo levato le foglie.) L’impiego della parola “derivare” è davvero elucidato in 70), cioè tale esempio ci ha mostrato una delle famiglie di casi in cui la parola è impiegata. E la spiegazione dell’uso di questa parola, come quella dell’uso della parola “leggere” o di “essere guidati da simboli”, essenzialmente consiste nel descrivere una selezione di esempi che ne esibiscono gli elementi caratteristici. Alcuni di tali esempi esibiscono queste caratteristiche in forma esagerata, altri le mostrano in fase di transizione, certe altre serie di esempi ne mostrano invece l’affievolirsi. Immagina che qualcuno voglia darti un’idea dei lineamenti caratteristici di una certa famiglia Tal-dei-tali: lo farebbe mostrandoti dei ritratti di famiglia e dirigendo la tua attenzione su certi tratti caratteristici; il suo compito principale consisterebbe nell’''organizzazione'' di tali immagini, che per esempio ti metterebbe in condizione di vedere come certe influenze gradualmente hanno modificato i tratti, in quali modi caratteristici sono invecchiati i membri della famiglia e quali lineamenti con l’età sono divenuti più prominenti.
Ma questo allora significa che in realtà la parola “derivare” (o “comprendere”) è priva di significato, visto che, a esaminarlo, tale significato pare affievolirsi nel nulla? Nel caso 70) il significato di “derivare” emergeva con una certa chiarezza, però ci siamo detti che si trattava solo di un caso speciale di derivazione. Ci è sembrato che l’essenza del processo di derivare vi fosse presentata in una veste particolare e che levandogliela saremmo giunti all’essenza. In 71), 72), 73) abbiamo cercato di spogliare il nostro caso di quel che sembrava il suo costume particolare, solo per poi scoprire che quelli che ci erano parsi meri rivestimenti ne erano invece gli elementi essenziali. (Abbiamo agito come se, per trovare il vero carciofo, gli avessimo levato le foglie.) L’impiego della parola “derivare” è davvero elucidato in 70), cioè tale esempio ci ha mostrato una delle famiglie di casi in cui la parola è impiegata. E la spiegazione dell’uso di questa parola, come quella dell’uso della parola “leggere” o di “essere guidati da simboli”, essenzialmente consiste nel descrivere una selezione di esempi che ne esibiscono gli elementi caratteristici. Alcuni di tali esempi esibiscono queste caratteristiche in forma esagerata, altri le mostrano in fase di transizione, certe altre serie di esempi ne mostrano invece l’affievolirsi. Immagina che qualcuno voglia darti un’idea dei lineamenti caratteristici di una certa famiglia Tal-dei-tali: lo farebbe mostrandoti dei ritratti di famiglia e dirigendo la tua attenzione su certi tratti caratteristici; il suo compito principale consisterebbe nell’''organizzazione'' di tali immagini, che per esempio ti metterebbe in condizione di vedere come certe influenze gradualmente hanno modificato i tratti, in quali modi caratteristici sono invecchiati i membri della famiglia e quali lineamenti con l’età sono divenuti più prominenti.


La funzione dei nostri esempi non era mostrarci l’essenza del “derivare”, “leggere” e così via attraverso sotto un velo di elementi inessenziali; tali esempi non erano descrizioni di un fuori per farci indovinare un dentro che per un motivo o per l’altro non poteva essere mostrato nella sua nudità. Siamo tentati di pensare che i nostri esempi siano come un mezzo ''indiretto'' di generare una certa immagine o idea nella mente di qualcuno, – che ''alludano'' a qualcosa che non possono mostrare. Ciò sarebbe vero in casi come il seguente: immagina che io voglia produrre in un soggetto l’immagine mentale di una stanza del Settecento in cui costui non ha il permesso di entrare. Adotto dunque questo metodo: gli mostro la casa da fuori, gli indico le finestre della stanza in questione, lo conduco in altre stanze dello stesso periodo storico. – –
La funzione dei nostri esempi non era mostrarci l’essenza del “derivare”, “leggere” e così via attraverso sotto un velo di elementi inessenziali; tali esempi non erano descrizioni di un fuori per farci indovinare un dentro che per un motivo o per l’altro non poteva essere mostrato nella sua nudità. Siamo tentati di pensare che i nostri esempi siano come un mezzo ''indiretto'' di generare una certa immagine o idea nella mente di qualcuno, – che ''alludano'' a qualcosa che non possono mostrare. Ciò sarebbe vero in casi come il seguente: immagina che io voglia produrre in un soggetto l’immagine mentale di una stanza del Settecento in cui costui non ha il permesso di entrare. Adotto dunque questo metodo: gli mostro la casa da fuori, gli indico le finestre della stanza in questione, lo conduco in altre stanze dello stesso periodo storico. – –
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Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono casi di questo tipo in cui non avremmo dubbi sulla risposta.
Diremo quindi che uno sforzo mentale e uno sforzo fisico sono “sforzi” nello stesso senso della parola oppure in un senso diverso (o in un senso “lievemente diverso”)? – Ci sono casi di questo tipo in cui non avremmo dubbi sulla risposta.


Considera il caso seguente: abbiamo insegnato a qualcuno l’uso delle espressioni “più scuro” e “più chiaro”. Costui sarebbe in grado, per esempio, di eseguire ordini quali “dipingimi una macchia di colore più scura di quella che ti mostro”. Immagina ora che io gli dica: “ascolta le cinque vocali a, e, i, o, u e mettile in ordine dalla più chiara alla più scura”. Lui può rimanere perplesso e non fare nulla, ma può anche (e alcuni al suo posto lo farebbero) disporre le vocali in un certo ordine (i, e, a, o, u, di solito). Si potrebbe suppore che ordinare le vocali per oscurità presupponga il fatto che al sentir pronunciare una vocale sia comparso un certo colore nella mente del soggetto, che poi ha messo in ordine questi colori dal più chiaro al più scuro e ti ha comunicato l’ordine corrispondente delle vocali. Non è necessario però che questo accada. Qualcuno eseguirà il comando “metti le vocali in ordine dalla più chiara alla più scura” senza veder comparire nessun colore nell’occhio della mente.
Considera il caso seguente: abbiamo insegnato a qualcuno l’uso delle espressioni “più scuro” e “più chiaro”. Costui sarebbe in grado, per esempio, di eseguire ordini quali “dipingimi una macchia di colore più scura di quella che ti mostro”. Immagina ora che io gli dica: “ascolta le cinque vocali a, e, i, o, u e mettile in ordine dalla più chiara alla più scura”. Lui può rimanere perplesso e non fare nulla, ma può anche (e alcuni al suo posto lo farebbero) disporre le vocali in un certo ordine (i, e, a, o, u, di solito). Si potrebbe supporre che ordinare le vocali per oscurità presupponga il fatto che al sentir pronunciare una vocale sia comparso un certo colore nella mente del soggetto, che poi ha messo in ordine questi colori dal più chiaro al più scuro e ti ha comunicato l’ordine corrispondente delle vocali. Non è necessario però che questo accada. Qualcuno eseguirà il comando “metti le vocali in ordine dalla più chiara alla più scura” senza veder comparire nessun colore nell’occhio della mente.


Se a quest’ultimo individuo si chiedesse se la ''u'' era “''davvero''” più scura della ''e'', lui quasi certamente risponderebbe qualcosa come “non è davvero più scura, ma in qualche modo mi dà un’impressione di maggiore oscurità”.
Se a quest’ultimo individuo si chiedesse se la ''u'' era “''davvero''” più scura della ''e'', lui quasi certamente risponderebbe qualcosa come “non è davvero più scura, ma in qualche modo mi dà un’impressione di maggiore oscurità”.
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La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui la parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che una parola ha due significati potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “la parola ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se si diano entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una potrebbe dipendere dalle reazioni naturali delle persone che usano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo a cui diamo la definizione ostensiva “questo si chiama ‘rosso’” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece potrebbe fare diversamente e portarci solo oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso prossime a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Potremmo dire che costui “non vede cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.
La domanda è questa: per integrare l’affermazione secondo cui la parola ha due significati, affermiamo che in questo caso aveva il tale significato e in quell’altro caso aveva il tal altro significato? Come criterio per stabilire che una parola ha due significati potremmo impiegare il fatto che per tale parola ci siano due spiegazioni. Diciamo quindi che la parola “piano” ha due significati; poiché in un caso significa questa cosa (indichiamo, per esempio, un pianoforte a coda) e in un altro caso quell’altra cosa (indichiamo, per esempio, il disegno in un manuale di geometria). Ciò a cui mi riferisco qui sono paradigmi per l’uso delle parole. Se nel nostro gioco abbiamo fornito un’unica definizione ostensiva della parola “rosso”, non possiamo dire che “la parola ‘rosso’ ha due significati perché in un caso significa questo (indichiamo un rosso chiaro) e in un altro caso significa quello (indichiamo un rosso scuro)”. D’altro canto si potrebbe immaginare un gioco linguistico in cui si spiegano due parole, per esempio “rosso” e “rossiccio”, con due definizioni ostensive, la prima delle quali indica un oggetto rosso scuro e la seconda un oggetto rosso chiaro. Se si diano entrambe queste spiegazioni oppure soltanto una potrebbe dipendere dalle reazioni naturali delle persone che usano tale linguaggio. Potremmo scoprire che un individuo a cui diamo la definizione ostensiva “questo si chiama ‘rosso’” (detto indicando un oggetto rosso), dopo aver sentito l’ordine “dammi qualcosa di rosso” ci porge qualunque oggetto rosso di qualsivoglia tonalità. Un altro invece potrebbe fare diversamente e portarci solo oggetti all’interno di una certa gamma di sfumature di rosso prossime a quella che gli abbiamo indicato a mo’ di spiegazione. Potremmo dire che costui “non vede cos’hanno in comune tutte le tonalità di rosso”. Ma ricorda per favore che il nostro unico criterio per affermarlo è il comportamento appena descritto.


Considera il caso seguente: a B hanno insegnato un uso delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno sppiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a portare un oggetto in risposta all’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, ecc., ecc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine dal più scuro al più chiaro. Lui esegue disponendo dei libri in fila, scrivendo i nomi di certi animali e scrivendo le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?” Potremmo essere portati a trattare un simile caso come una specie di anomalia e ad affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale mette in ordine sia gli oggetti colorati sia le vocali”. E se provassimo a rendere tale nostra idea del tutto esplicita, si arriverebbe a questo: la persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visibili con uno strumento e ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali) con un altro, nello stesso senso in cui si potrebbe dire che noi registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura. B allora, vorremmo dire, mette in ordine suoni e colori con uno strumento (organo di senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica potrebbe registrare raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).
Considera il caso seguente: a B hanno insegnato un uso delle espressioni “più chiaro” e “più scuro”. Gli hanno mostrato oggetti di vari colori, gli hanno spiegato che questo lo si chiama un colore più scuro di quello, l’hanno addestrato a portare un oggetto in risposta all’ordine “dammi qualcosa di più scuro di questo” e a descrivere il colore di qualcosa dicendo che è più scuro o più chiaro di un certo campione, ecc., ecc. Adesso gli si chiede di disporre una serie di oggetti in ordine dal più scuro al più chiaro. Lui esegue disponendo dei libri in fila, scrivendo i nomi di certi animali e scrivendo le cinque vocali nell’ordine u, o, a, e, i. Gli chiediamo come mai ha aggiunto quest’ultima serie e lui dice “Be’, la ''o'' è più chiara della ''u'' e la ''e'' è più chiara della ''o''”. – Pur stupefatti da una simile prospettiva, nella sua affermazione noi riconosceremo un qualche senso. Magari diremo “guarda però, di certo la ''e'' non è più chiara della ''o'' nel modo in cui questo libro è più chiaro di quest’altro”. – Lui però potrebbe fare spallucce e ribattere “non lo so, la ''e'' è comunque più chiara della ''o'', no?” Potremmo essere portati a trattare un simile caso come una specie di anomalia e ad affermare “B deve avere un senso diverso, con l’aiuto del quale mette in ordine sia gli oggetti colorati sia le vocali”. E se provassimo a rendere tale nostra idea del tutto esplicita, si arriverebbe a questo: la persona normale registra la chiarezza e l’oscurità degli oggetti visibili con uno strumento e ciò che potremmo chiamare la chiarezza o l’oscurità dei suoni (delle vocali) con un altro, nello stesso senso in cui si potrebbe dire che noi registriamo i raggi di una certa lunghezza d’onda con gli occhi e i raggi di un’altra lunghezza d’onda con la percezione della temperatura. B allora, vorremmo dire, mette in ordine suoni e colori con uno strumento (organo di senso) unico (nel senso in cui una lastra fotografica potrebbe registrare raggi di una gamma per cui noi saremmo costretti a servirci di due sensi diversi).


Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa dalla persona normale. D’altro canto, poniamo fianco a fianco questa immagine e il fatto che in questo caso non ci sono prove dell’esistenza di “un altro senso”. – E in effetti, quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare ai fenomeni osservati in base all’immagine tratteggiata nella frase stessa.
Questa è più o meno l’immagine che sta dietro alla nostra idea che B debba per forza aver “compreso” l’espressione “più scuro” in maniera diversa dalla persona normale. D’altro canto, poniamo fianco a fianco questa immagine e il fatto che in questo caso non ci sono prove dell’esistenza di “un altro senso”. – E in effetti, quando diciamo “B deve per forza aver compreso l’espressione in modo diverso”, l’uso dell’espressione “deve per forza” già ci mostra che questa frase (in fondo) esprime la nostra determinazione a guardare ai fenomeni osservati in base all’immagine tratteggiata nella frase stessa.
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(Qui è interessante pensare al caso in cui si succhia un liquido da un tubo; se ti chiedessero con quale parte del corpo hai succhiato, tu saresti propenso a dire la bocca, ma in realtà si è trattato dei muscoli che impieghi per inspirare).
(Qui è interessante pensare al caso in cui si succhia un liquido da un tubo; se ti chiedessero con quale parte del corpo hai succhiato, tu saresti propenso a dire la bocca, ma in realtà si è trattato dei muscoli che impieghi per inspirare).


Chiediamoci ora che cosa chiameremmo “parlare in maniera involontaria”. Innanzitutto osserva che quando parli in modo normale, volontariamente, poi faticheresti molto a descrivere l’accaduto dicendo che con un atto di volizione hai mosso la bocca, la lingua, la laringe, ecc. al fine di produrre certi suoni. Qualunque cosa accada nella tua bocca, laringe, ecc., e qualunque sensazione tu parlando sperimenti in tali zone, sembrerebbe trattarsi quasi di fenomenoi secondari che accompagnano la produzione dei suoni e la volizione, vorremmo dire, opera sui suoni stessi senza meccanismi intermedi. Ciò mostra quanto è vaga la nostra idea di tale “volizione” attiva.
Chiediamoci ora che cosa chiameremmo “parlare in maniera involontaria”. Innanzitutto osserva che quando parli in modo normale, volontariamente, poi faticheresti molto a descrivere l’accaduto dicendo che con un atto di volizione hai mosso la bocca, la lingua, la laringe, ecc. al fine di produrre certi suoni. Qualunque cosa accada nella tua bocca, laringe, ecc., e qualunque sensazione tu parlando sperimenti in tali zone, sembrerebbe trattarsi quasi di fenomeni secondari che accompagnano la produzione dei suoni e la volizione, vorremmo dire, opera sui suoni stessi senza meccanismi intermedi. Ciò mostra quanto è vaga la nostra idea di tale “volizione” attiva.


Ora, riguardo al parlare in maniera involontaria. Immagina di doverne descrivere un esempio del genere – come faresti? C’è ovviamente il caso del parlare nel sonno; qui la caratteristica saliente è che, mentre accade, non ne sai nulla e in seguito non ti ricordi niente. Di certo però non chiameresti questa la caratteristica di un’azione involontaria.
Ora, riguardo al parlare in maniera involontaria. Immagina di doverne descrivere un esempio del genere – come faresti? C’è ovviamente il caso del parlare nel sonno; qui la caratteristica saliente è che, mentre accade, non ne sai nulla e in seguito non ti ricordi niente. Di certo però non chiameresti questa la caratteristica di un’azione involontaria.
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L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.
L’uso della parola “particolare” è atto a produrre una specie di illusione e in termini approssimativi tale illusione sorge dal doppio utilizzo di tale parola. Da un lato, possiamo dire, la si usa come preliminare di una specificazione, di una descrizione, di un paragone; dall’altro come ciò che si potrebbe chiamare un’enfatizzazione. Il primo uso lo chiamerò transitivo, il secondo intransitivo. Quindi da un lato dico “questo viso mi dà un’impressione particolare che non so descrivere”. Ciò equivale a dire “questo viso mi dà una forte impressione”. Questi esempi sarebbero forse più significativi se sostituissimo a “particolare” la parola “peculiare”, poiché le stesse osservazioni valgono anche per quest’ultima. Se dico “questo sapone ha un odore peculiare: è dello stesso tipo che usavamo da bambini”, la parola “peculiare” può essere usata semplicemente come un’introduzione del paragone che la segue, come se dicessi “ecco di cosa sa questo sapone: …”. Se invece dico “questo sapone ha un odore ''peculiare''!”, oppure “ha un odore assolutamente peculiare”, qui “peculiare” ha il valore di un’espressione come “fuori dal comune”, “insolito”, “degno di nota”.


Potremmo domandare “hai detto che ha un’odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposazione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?” – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.
Potremmo domandare “hai detto che ha un odore peculiare in contrapposizione a un’assenza di qualsivoglia odore peculiare, o che ha questo odore in contrapposizione a un qualche altro odore, o volevi dire entrambe le cose?” – Ora come sono andate le cose quando filosofando ho detto che la parola “rosso” mi è arrivata in maniera particolare quando ho descritto qualcosa che vedevo come rosso? Avevo in animo di descrivere il modo in cui mi è arrivata la parola “rosso”, come dicendo “quando conto degli oggetti colorati, mi arriva sempre più in fretta della parola ‘due’”, oppure “arriva sempre con un trasalimento”, ecc.? – Oppure volevo dire che “rosso” mi arriva in una maniera notevole? No, non è nemmeno questo esattamente. Di sicuro però la seconda ipotesi è più corretta della prima. Per vederci più chiaro, considera un altro esempio: ovviamente nel corso della giornata tu cambi di continuo la posizione del tuo corpo; fermati in una postura qualsiasi (mentre scrivi, leggi, parli, ecc. ecc.) e di’ a te stesso “ora mi trovo in una postura particolare” nel modo in cui dici “‘rosso’ arriva in una maniera particolare”. Scoprirai di poter dire così in maniera assolutamente naturale. Non ti trovi sempre però in una postura particolare? E di certo non intendevi dire che proprio allora ti trovavi in una postura particolarmente notevole. Che cos’è che è successo? Ti sei concentrato sulle tue sensazioni, per così dire le hai fissate. E questo è precisamente ciò che hai fatto quando hai detto che “rosso” ti è arrivato in maniera particolare.


“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere.
“Non intendevo però che ‘rosso’ è arrivato in maniera diversa da ‘due?’” – Tu magari intendevi questo, ma l’espressione “mi arrivano in modi diversi”, di per sé, può portare a malintesi. Immagina che dica “Smith e Jones entrano sempre nella mia stanza in modi diversi:” potrei proseguire e dire “Smith entra in fretta, Jones con calma”, specificando così i loro modi di entrare. D’altro canto potrei dire “non so quale sia la differenza”, sottintendendo che sto ''cercando'' di specificare la differenza e magari poi aggiungerò “adesso so di cosa si tratta; è…” – Oppure potrei dirti che sono arrivati in modi diversi e tu, non sapendo come prendere tale affermazione, magari risponderesti “certo che arrivano in modi diversi; semplicemente ''sono'' diversi”. – Si potrebbe descrivere la nostra difficoltà dicendo che abbiamo l’impressione di poter dare un nome a un’esperienza senza al contempo prendere impegni circa il modo in cui lo useremo, anzi senza avere alcuna intenzione di usarlo affatto. Quindi quando dico che “rosso” mi arriva in una maniera particolare…, ho l’impressione che potrei dare a tale maniera, sempre che non ce l’abbia già, un nome, ad esempio “A”. Al contempo però non sono affatto pronto a dire che riconosco questa come la maniera in cui, in simili occasioni, “rosso” mi è sempre arrivato, e nemmeno a dire che ci sono, poniamo, quattro maniere, per esempio A, B, C, D, in una delle quali “rosso” mi arriva sempre. Tu potresti dire che le due maniere in cui arrivano “rosso” e “due” si possono individuare, per esempio, scambiando i significati delle due parole, utilizzando “rosso” come secondo numerale cardinale e “due” come nome di un colore. Quindi, se mi si chiedesse quanti occhi ho, io dovrei rispondere “rosso” e alla domanda “di che colore è il sangue?”, “due”. Adesso però sorge l’interrogativo se si possa identificare “la maniera in cui arrivano tali parole” indipendentemente dai modi in cui vengono usate – cioè i modi appena descritti. Volevi dire che, in base alla tua esperienza, quando è usata in ''questo'' modo, la parola arriva sempre nel modo A, ma la prossima volta può arrivare invece nel modo in cui di solito arriva “due”? Ti accorgerai allora che non intendevi dire nulla del genere.


Ciò che è ''particolare'' nel modo in cui “rosso” ti arriva è che ti arriva mentre stai filosofando su questo argomento, proprio come ciò che era particolare nella posizione del tuo corpo quando ti sei concentrato su di essa era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun’altro modo. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se questa enfatizzazione in realtà fosse un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza”; se mi si chiede “che modo è?”, posso rispondere “infila sempre la testa nella porta prima di entrare”. Qui mi riferisco a un elemento definito, e potrei dire che B entra nello stesso modo o che A smette di entrare così. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire alcuna descrizione di questo o quell’elemento specifico del suo atteggiamento, e la mia frase potrebbe significare solo “ho osservato A mentre stava seduto e fumava”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo potrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, ''questo'' modo”, e magari la si potrebbe accompagnare con uno schizzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. D’altro canto, la mia espressione “ha un modo particolare…” forse dovrebbe essere tradotta semplicemente in “sto contemplando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la nostra espressione; mentre nella forma precedente sembra descrivere un circolo, ovvero la parola “particolare” pare qui essere usata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, cioè guardiamo al suo uso come a un caso speciale dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in ''questo'' modo” anziché “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione faceva sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui arrivava la parola “rosso”, mentre ciò che mi porta a usare la parola “particolare” qui è il fatto che, per via del mio atteggiamento nei confronti del fenomeno, lo sto enfatizzando: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc.
Ciò che è ''particolare'' nel modo in cui “rosso” ti arriva è che ti arriva mentre stai filosofando su questo argomento, proprio come ciò che era particolare nella posizione del tuo corpo quando ti sei concentrato su di essa era la concentrazione. Sembriamo essere prossimi a fornire una caratterizzazione del “modo”, ma in realtà non lo distinguiamo da nessun altro modo. Stiamo enfatizzando, non confrontando, ma ci esprimiamo come se questa enfatizzazione in realtà fosse un confronto dell’oggetto con se stesso; una sorta di paragone autoriflessivo. Fammi esprimere così: immagina che parlando del modo in cui A entra nella stanza io dica “ho notato il modo in cui A entra nella stanza”; se mi si chiede “che modo è?”, posso rispondere “infila sempre la testa nella porta prima di entrare”. Qui mi riferisco a un elemento definito, e potrei dire che B entra nello stesso modo o che A smette di entrare così. Considera invece l’affermazione “sto osservando il modo in cui A sta seduto e fuma”. Voglio disegnarlo così. In questo caso non devo essere pronto a fornire alcuna descrizione di questo o quell’elemento specifico del suo atteggiamento, e la mia frase potrebbe significare solo “ho osservato A mentre stava seduto e fumava”. – “Il modo” qui non può essere separato dal soggetto. Se volessi disegnarlo nella posizione in cui se ne sta seduto, e stessi contemplando, studiando, il suo atteggiamento, nel farlo potrei essere propenso a dire e ripetere a me stesso “ha un modo particolare di stare seduto”. Ma la risposta alla domanda “quale modo?” sarebbe “be’, ''questo'' modo”, e magari la si potrebbe accompagnare con uno schizzo degli aspetti caratteristici del suo atteggiamento. D’altro canto, la mia espressione “ha un modo particolare…” forse dovrebbe essere tradotta semplicemente in “sto contemplando il suo atteggiamento”. Trasponendola in questa forma abbiamo, per così dire, raddrizzato la nostra espressione; mentre nella forma precedente sembra descrivere un circolo, ovvero la parola “particolare” pare qui essere usata transitivamente e, più nello specifico, riflessivamente, cioè guardiamo al suo uso come a un caso speciale dell’uso transitivo. Alla domanda “in che modo intendi?” siamo propensi a rispondere “in ''questo'' modo” anziché “non mi riferivo a nessun elemento particolare; stavo solo osservando la sua posizione”. La mia espressione faceva sembrare che stessi indicando qualcosa ''sul'' suo modo di stare seduto, oppure, nel caso precedente, sul modo in cui arrivava la parola “rosso”, mentre ciò che mi porta a usare la parola “particolare” qui è il fatto che, per via del mio atteggiamento nei confronti del fenomeno, lo sto enfatizzando: mi concentro su di esso, o lo rievoco nella mente, o lo disegno, ecc.


Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva.
Questa è una delle situazioni caratteristiche in cui si incappa quando si riflette su problemi filosofici. Vi sono molte difficoltà che sorgono proprio così, cioè dal fatto che una parola ha sia un uso transitivo sia un uso intransitivo e che noi consideriamo il secondo come un caso particolare del primo, e diamo conto della parola, quando è usata intransitivamente, mediante una costruzione riflessiva.
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“Questo volto ha un’espressione particolare”. Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.
“Questo volto ha un’espressione particolare”. Sono propenso a dirlo quando mi abbandono alla pienezza della sua impressione su di me.


Ciò che è in corso qui è un atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la loucuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è nel volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa, ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori del volto che vediamo, bensì nel senso che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che il volto eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse il prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del volto fosse trovare il prototipo a cui corrisponde – come se nella nostra mente ci fosse uno stampo e l’immagine che vediamo fosse caduta in tale stampo combaciando. Invece è che abbiamo fatto affondare l’immagine nella nostra mente ed essa vi ha lasciato il proprio stampo.
Ciò che è in corso qui è un atto, per così dire, di digerirla, di afferrarla e la locuzione “afferrare l’espressione di questo volto” suggerisce che stiamo afferrando qualcosa che è nel volto e diverso dal volto. Sembra che stiamo cercando qualcosa, ma non nel senso che cerchiamo un modello dell’espressione al di fuori del volto che vediamo, bensì nel senso che stiamo sondando la cosa con la nostra attenzione. Quando lascio che il volto eserciti su di me la sua impressione, è come se esistesse un doppio della sua espressione, come se il doppio fosse il prototipo dell’espressione e come se vedere l’espressione del volto fosse trovare il prototipo a cui corrisponde – come se nella nostra mente ci fosse uno stampo e l’immagine che vediamo fosse caduta in tale stampo combaciando. Invece è che abbiamo fatto affondare l’immagine nella nostra mente ed essa vi ha lasciato il proprio stampo.


Ovviamente, quando diciamo “questo è un ''volto'', non meri tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo disegno), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, ecc. Se invece gli chiedi: “che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee”. Ora immagina di cercare un uomo in un’immagine-enigma; in tal caso accade spesso che quelle che a prima vista sembrano “solo linee” poi ci appaiano come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è un volto”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che lo riconosciamo come il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come un volto''” va paragonato invece al fatto di vedere questo disegno
Ovviamente, quando diciamo “questo è un ''volto'', non meri tratti di penna”, stiamo operando una distinzione tra un disegno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134a.png|40px|link=]] e uno così [[File:Brown Book 2-Ts310,134b.png|40px|link=]]. Ed è vero: se chiedi a qualcuno “che cos’è?” (indicando il primo disegno), lui certamente ti dirà “è una faccia” e sarà in grado di rispondere subito a domande quali “è maschile e femminile?” “felice o triste?”, ecc. Se invece gli chiedi: “che cos’è?” (indicando il secondo disegno) lui molto probabilmente dirà “non è niente” oppure “sono solo linee”. Ora immagina di cercare un uomo in un’immagine-enigma; in tal caso accade spesso che quelle che a prima vista sembrano “solo linee” poi ci appaiano come un volto. In questi casi diciamo “ora lo vedo che è un volto”. Dev’esserti molto chiaro che ciò non significa che lo riconosciamo come il volto di un amico o abbiamo l’illusione di scorgere un “vero” volto; il fatto di “vederlo ''come un volto''” va paragonato invece al fatto di vedere questo disegno
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Ciò descrive anche quello che accade quando in &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> diciamo a noi stessi “la parola ‘rosso’ arriva in una maniera particolare…”. Si potrebbe ribattere “ho capito, stai ripetendo a te stesso una qualche esperienza e intanto continui a fissarla”.
Ciò descrive anche quello che accade quando in &nbsp;)<ref>Il riferimento è mancante nel testo originale. ''N.d.C.''</ref> diciamo a noi stessi “la parola ‘rosso’ arriva in una maniera particolare…”. Si potrebbe ribattere “ho capito, stai ripetendo a te stesso una qualche esperienza e intanto continui a fissarla”.


Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni confrontando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali – confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a farci degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, cioè dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che concordno. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si identifica un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di dire che, nella maggior parte dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente siamo tentati di descrivere le cose in questo modo per via del fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo com’era quando ci siamo visti per l’ultima volta dieci anni fa.
Possiamo gettare luce su tutte queste considerazioni confrontando ciò che accade quando ricordiamo il volto di qualcuno che entra nella stanza, quando lo riconosciamo come il signor Tal-dei-tali – confrontando quello che davvero succede in questi casi con la rappresentazione che a volte siamo portati a farci degli eventi. Perché qui spesso ci lasciamo ossessionare da una concezione primitiva, cioè dall’idea che si tratti di paragonare l’uomo che vediamo con un’immagine mnemonica nella mente e scoprire che concordano. Cioè rappresentiamo il “riconoscere qualcuno” come un processo di identificazione per mezzo di un’immagine (come si identifica un delinquente per mezzo di una sua fotografia). Non c’è bisogno di dire che, nella maggior parte dei casi in cui riconosciamo qualcuno, non ha luogo nessun confronto tra il soggetto e un’immagine mentale. Ovviamente siamo tentati di descrivere le cose in questo modo per via del fatto che esistono delle immagini mnemoniche. Molto spesso, per esempio, un’immagine simile ci si presenta nella mente subito ''dopo'' che abbiamo riconosciuto qualcuno. Lo vedo com’era quando ci siamo visti per l’ultima volta dieci anni fa.


Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo che avviene nella mente e fuori di essa quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' quando la riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!”. Quindi possiamo dire che un tipo di evento del riconoscimento di qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e lo vediamo come un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma e troviamo che concorda, o che combacia con uno stampo pronto ad accoglierlo nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non entra alcuno stampo né confronto, c’è solo questa forma, non altre con cui confrontarla e, per così dire, esclamare un “ma certo!”. Come quando mentre faccio un puzzle da qualche parte resta uno spazio vuoto, poi vedo un pezzo palesemente combaciante e lo metto nello spazio vuoto dicendomi “ma certo!”. Qui però esclamiamo “ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con lo stampo, mentre, nel caso invece in cui vediamo il disegno come un volto, assumiamo un atteggiamento analogo ''senza'' ragione.
Descriverò di nuovo il ''tipo'' di processo che avviene nella mente e fuori di essa quando riconosci una persona che entra nella tua stanza per mezzo di ciò che ''diresti'' quando la riconosci. Può trattarsi semplicemente di “ciao!”. Quindi possiamo dire che un tipo di evento del riconoscimento di qualcosa che vediamo consiste nel dirle “ciao!” con parole, gesti, mimica facciale, ecc. – Così possiamo anche pensare che, quando guardiamo un disegno e lo vediamo come un volto, lo confrontiamo con qualche paradigma e troviamo che concorda, o che combacia con uno stampo pronto ad accoglierlo nella nostra mente. Nella nostra esperienza però non entra alcuno stampo né confronto, c’è solo questa forma, non altre con cui confrontarla e, per così dire, esclamare un “ma certo!”. Come quando mentre faccio un puzzle da qualche parte resta uno spazio vuoto, poi vedo un pezzo palesemente combaciante e lo metto nello spazio vuoto dicendomi “ma certo!”. Qui però esclamiamo “ma certo!” ''perché'' il pezzo combacia con lo stampo, mentre, nel caso invece in cui vediamo il disegno come un volto, assumiamo un atteggiamento analogo ''senza'' ragione.


La stessa strana illusione a cui siamo soggetti quando sembra che cerchiamo il qualcosa che un volto esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai lineamenti di fronte a noi – questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci una melodia e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, diciamo “questa melodia dice ''qualcosa''”, ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla di tale per cui si possa esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendo che le cose stanno così, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, questo non significha altro se non “esprime se stessa”. – “Di certo però, quando la suoni, non la suoni ''in un modo qualunque'', bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”. – – Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando dico “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò, incidentalmente, mostra che che aspetto ha una “giustificazione” e una “spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare una melodia e dire “non è così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste il fatto di sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?”. L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che sia per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiede “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettarla in un modo particolare, e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che la melodia ''effettivamente fischiettata'' (e non una ''sua'' immagine).
La stessa strana illusione a cui siamo soggetti quando sembra che cerchiamo il qualcosa che un volto esprime mentre, in realtà, ci stiamo abbandonando ai lineamenti di fronte a noi – questa stessa illusione opera un’influenza ancora più totalizzante nel caso in cui, ripetendoci una melodia e lasciando che eserciti su di noi la sua piena impressione, diciamo “questa melodia dice ''qualcosa''”, ed è come se dovessi trovare ''che cosa'' dice. Eppure so che non dice nulla di tale per cui si possa esprimere in parole o immagini ciò che dice. E se, riconoscendo che le cose stanno così, io mi arrendo e dico “esprime soltanto un pensiero musicale”, questo non significa altro se non “esprime se stessa”. – “Di certo però, quando la suoni, non la suoni ''in un modo qualunque'', bensì in questo modo particolare, con un crescendo qua e un diminuendo là, una cesura a questo punto, ecc.”. – – Precisamente, ed è tutto ciò che posso dire a riguardo, o può darsi che sia tutto ciò posso dire a riguardo. Perché in certi casi posso giustificare, spiegare l’espressione particolare con cui lo suono per mezzo di un confronto, come quando dico “a questo punto del tema, c’è, per così dire, una virgola” oppure “questa è, per così dire, la risposta alla domanda di prima”, ecc. (Ciò, incidentalmente, mostra che che aspetto ha una “giustificazione” e una “spiegazione” in estetica). È vero che posso sentir suonare una melodia e dire “non è così che andrebbe suonato, ma così”; e fischiettarlo con un tempo diverso. Qui si è portati a chiedere “in che cosa consiste il fatto di sapere in che tempo va eseguito un brano musicale?”. L’idea che ci si suggerisce è che ''debba per forza'' esserci un paradigma da qualche parte nella nostra mente e che sia per adeguarci a tale paradigma che abbiamo modificato il tempo. Nella maggioranza dei casi però, se qualcuno mi chiede “come credi che vada suonata questa melodia?”, per rispondergli mi limiterò a fischiettarla in un modo particolare, e nella mia mente non sarà stato presente nient’altro che la melodia ''effettivamente fischiettata'' (e non una ''sua'' immagine).


Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale che concepisco come il contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo volto” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
Ciò non significa che comprendere all’improvviso un tema musicale non possa consistere nel trovare una forma di espressione verbale che concepisco come il contrappunto linguistico di tale tema. Ugualmente posso dire “ora capisco l’espressione di questo volto” e ciò che è successo, quando è sopraggiunta la comprensione, è che ho trovato la parola che sembrava riassumerla.
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Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diverse esperienze o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Confronta questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera questa affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza gustativa è un composto del sapore dello zucchero e del sapore del tè”. Oppure: “se sento l’accordo di do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire il do, il mi, il sol”. E d’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate su certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire la vocale “a” cantata sulla alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di isolare nell’esperienza composita le sue esperienze costituenti?
Adesso bisognerebbe soffermarsi sulla differenza tra i vari casi in cui sosteniamo che un’esperienza consiste di diverse esperienze o che è ''composita''. Potremmo dire al medico “non ho un dolore; ne ho due: mal di denti e mal di testa”. Questo lo si potrebbe esprimere così: “la mia esperienza del dolore non è semplice, ma composita, mal di denti e mal di testa”. Confronta questo caso con quello in cui dico “ho sia male allo stomaco sia una sensazione generale di malessere”. Qui non separo le esperienze costituenti indicando le due localizzazioni del dolore. O considera questa affermazione: “quando bevo tè dolce, la mia esperienza gustativa è un composto del sapore dello zucchero e del sapore del tè”. Oppure: “se sento l’accordo di do maggiore, la mia esperienza è composta dal sentire il do, il mi, il sol”. E d’altra parte “sento un piano suonare e del rumore per strada”. Un esempio molto istruttivo è questo: in una canzone le parole sono cantate su certe note. In che senso è composita l’esperienza di sentire la vocale “a” cantata sulla alla nota do? In ognuno di questi casi chiediti: in che cosa consiste il fatto di isolare nell’esperienza composita le sue esperienze costituenti?


Anche se l’espressione secondo la quale vedere un disegno come un volto non è soltanto vedere dei tratti di penna sembra indicare una qualche somma di esperienze, certamente non diremmo che, quando vediamo il disegno come una faccia, abbiamo anche l’esperienza di vederlo come dei meri tratti di penna e ''intoltre'' qualche altra esperienza. Ciò si chiarisce ulteriormente se immaginiamo che qualcuno dica che vedere il disegno
Anche se l’espressione secondo la quale vedere un disegno come un volto non è soltanto vedere dei tratti di penna sembra indicare una qualche somma di esperienze, certamente non diremmo che, quando vediamo il disegno come una faccia, abbiamo anche l’esperienza di vederlo come dei meri tratti di penna e ''inoltre'' qualche altra esperienza. Ciò si chiarisce ulteriormente se immaginiamo che qualcuno dica che vedere il disegno




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Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…”, ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il prestare attenzione, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.
Quando obbediamo all’ordine “osserva il colore…”, ciò che facciamo è aprire gli occhi al colore. “Osserva il colore…” non significa “vedi il colore che vedi”. L’ordine “guarda questo-e-quello” è del tipo di “gira la testa in quella direzione”; ciò che vedrai nel farlo non rientra nell’ordine. Con il prestare attenzione, il guardare, produci un’impressione; non puoi guardare l’impressione.


Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza”, – suonebbe come se egli potesse indicarci di che luce si tratti. L’ordine, cioè, sembrerebbe averti detto di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'' piuttosto che le dimensioni, le forme, ecc.
Immagina che al nostro ordine qualcuno risponda “va bene, adesso sto osservando la luce particolare della stanza”, – suonerebbe come se egli potesse indicarci di che luce si tratti. L’ordine, cioè, sembrerebbe averti detto di fare qualcosa con questa luce particolare piuttosto che con un’altra (alla stregua di “dipingi questa luce, non quella”). Tu però obbedisci all’ordine afferrando ''la luce'' piuttosto che le dimensioni, le forme, ecc.


(Paragona “afferra il colore di questo campione” con “afferra questa penna”, ovvero eccola qui, afferrala.)
(Paragona “afferra il colore di questo campione” con “afferra questa penna”, ovvero eccola qui, afferrala.)